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CORONAVIRUS: REGOLE E POSSIBILI CONSEGUENZE PENALI DELLE INOSSERVANZE – DI RINALDO ROMANELLI

CORONAVIRUS: REGOLE E POSSIBILI CONSEGUENZE PENALI DELLE INOSSERVANZE – DI RINALDO ROMANELLI

di Rinaldo Romanelli

  1. Il quadro normativo. 2. Conseguenze penali della violazione delle regole limitative della libertà personale.

1. Il quadro normativo.

L’emergenza Coronavirus ha determinato l’emissione di numerosi provvedimenti normativi, di diversa natura, alcuni dei quali nazionali, altri locali, talvolta sostitutivi, talvolta integrativi dei precedenti.

Onde rendere più snella l’analisi, ci si limiterà a richiamare esclusivamente quelli attualmente vigenti e per quanto di rilievo in ordine agli effetti penali derivanti da eventuali trasgressioni.

Il d.l. 23 febbraio 2020, n. 6[1], prevede all’art. 1 “Misure urgenti per la diffusione del COVID-19”, al dichiarato scopo di evitare il diffondersi del virus, che: “…le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” e ciò nelle aree in cui risulti positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione, o comunque nelle quali vi sia un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio.

Il secondo comma contiene un elenco di possibili provvedimenti, limitativi della libertà personale, e di sospensione di attività pubbliche e private, elencate dalla lettera a) alla lettera o), che viene introdotto dalla locuzione: “Tra le misure di cui al comma 1 possono essere adottate anche le seguenti:”. Si tratta, dunque, di un elenco non tassativo (possono), che conferisce alle autorità competenti la facoltà, o sarebbe meglio dire, impone ad esse l’obbligo di adottare ogni provvedimento necessario (purché adeguato e proporzionato) al contenimento del virus.

L’art. 2 del menzionato provvedimento, superando ogni possibile incertezza interpretativa in ordine all’ampiezza dei poteri conferiti alle autorità competenti, dispone che possano essere adottate “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza”, anche fuori dai casi di cui al comma 1 (come sopra si è chiarito, si tratta di aree già interessate dal contagio).

Misure “ulteriori”, dunque, rispetto a quelle espressamente elencate e su tutto il territorio nazionale, anche a prescindere dalla circostanza che nell’area di interesse vi sia già stato anche un solo caso di contagio.

L’art. 3 prevede, infine, che alle misure di contenimento e gestione dell’emergenza sia data attuazione con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della Salute, sentiti i Ministri competenti, il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni e nel caso in cui le misure riguardino esclusivamente una o alcune regioni, i Presidenti delle regioni stesse[2].

Tutti i poteri, dunque, al Presidente del Consiglio dei ministri.[3]

Il comma quarto della stessa disposizione recita poi: “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale”[4].

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, quindi, dato attuazione al menzionato decreto legge, con vari d.P.C.M., tra i quali, per quanto qui interessa: 8 marzo, 9 marzo e 11 marzo 2020.

Con il primo provvedimento sono stati delineati i divieti in relazione a determinate aree del paese, con il secondo i medesimi divieti sono stati estesi a tutto il territorio nazionale ed è stata modificata la disciplina delle attività sportive.

Queste le regole attualmente vigenti dettate dal combinato disposto delle norme contenute nei d.P.C.M. 8 e 9 marzo 2020: “Sull’intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico. …sono adottate le seguenti misure: a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.

E’ consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza; b) ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5° C) è fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante; c) divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus; d) sono sospesi gli eventi e le competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati. 

Gli impianti sportivi sono utilizzabili, a porte chiuse, soltanto per le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non   professionisti, riconosciuti di interesse nazionale dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) e dalle rispettive federazioni, in vista della loro partecipazione ai giochi olimpici o a  manifestazioni nazionali  ed internazionali; resta consentito esclusivamente lo svolgimento  degli eventi  e  delle  competizioni  sportive  organizzati  da   organismi sportivi internazionali, all’interno di impianti sportivi  utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto senza la presenza di  pubblico;  in tutti tali casi, le associazioni e le società sportive, a mezzo  del proprio personale medico,  sono  tenute  ad  effettuare  i  controlli idonei a contenere il rischio di diffusione del  virus  COVID-19  tra gli atleti, i tecnici, i dirigenti e tutti gli accompagnatori che  vi partecipano; lo sport e le attività motorie svolti  all’aperto  sono ammessi esclusivamente a condizione che sia possibile consentire il rispetto della distanza interpersonale di un metro;”[5].

Con il successivo d.P.C.M. del 11 marzo 2020 è stata disposta la chiusura fino al 25 marzo di determinate attività economiche non essenziali, ma non sono state modificate le regole circa gli spostamenti personali. Per un approfondimento circa una (quasi sempre) ragionevole interpretazione delle regole sopra richiamate si rimanda alla pagina “Decreto #IoRestoaCasa, domande frequenti sulle misure adottate dal Governo”, sul sito della Presidenza del Consiglio dei ministri[6].

Sembra però opportuno sottolineare, poiché sul punto si è ingenerata una certa confusione (alimentata da informazioni talvolta non corrette diffuse dai media, recentemente propalate in un’intervista su Rete4 anche da un magistrato “indignato”), che lo sport e le attività motorie all’aperto sono consentite, per espressa previsione normativa, all’unica condizione che sia rispettata la distanza di un metro tra le persone.

Non si tratta, dunque, di attività consentite in base una ipotetica “criminale” interpretazione quantomai estensiva della locuzione “situazioni di necessità”, bensì in forza di un chiaro, quanto semplice, dettato normativo (ubi lex voluit…).

Tale previsione va però letta alla luce del divieto generale di assembramento che, evidentemente, permane anche in occasione di attività sportive o motorie (come ad esempio una passeggiata) e non pare possa essere escluso dal solo rispetto della distanza di un metro tra una persona ed un’altra.

Non sarà possibile, quindi, praticare sport o passeggiate in gruppo, poiché è intuitivo che la contemporanea presenza e vicinanza, pur nel rispetto della distanza di un metro, di più persone, crei una condizione di rischio non necessario, da evitarsi e potenzialmente penalmente rilevante.

In queste ore circola poi qualche interpretazione secondo la quale, sport e attività motorie (es. passeggiata) andrebbero praticate all’interno del proprio quartiere.

Verrebbe da osservare che, in tempi di emergenza nulla è dato di escludere, salvo il fatto che per quanto possa essere “in bianco” la norma penale (della quale si dirà nel prossimo paragrafo), che sanziona l’inosservanza di un ordine, o di provvedimento che perimetri la condotta lecita e così definisca quella illecita, il contenuto precettivo di tale ordine, o provvedimento deve pur sempre essere enucleabile dallo stesso.

Non si può confondere un divieto con ragioni di opportunità.

Non si può sostituire la propria (pur legittima) opinione circa i comportamenti (virtuosi) che sarebbe opportuno tenere, al contenuto precettivo della norma che indica cosa è vietato e come nel caso di specie, prevede espressamente cosa è consentito, ovvero le attività sportive e motorie all’aperto: nel quartiere, fuori dal quartiere, sul prato, al parco, nel bosco, in spiaggia, per strada…

L’elenco potrebbe essere lungo, quasi infinito, con l’unica precisazione di mantenere la distanza di un metro ed evitare assembramenti, poiché altro la norma non prevede e non vieta.  

2. Conseguenze penali della violazione delle regole limitative della libertà personale.

Come si è rilevato, decreto legge e d.P.C.M. richiamano, in caso di inosservanza delle regole, “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, l’art. 650 c.p.[7] Si tratta di un richiamo doppiamente inutile.

In primo luogo perché la norma contenuta nel codice penale, nel delineare un reato contravvenzionale, prevede già che l’inosservanza di un provvedimento legalmente dato per ragioni, tra l’altro, di igiene, sia sottoposto al trattamento sanzionatorio indicato nella norma stessa.

Posto che è pacifico che le ragioni di “igiene” attengano proprio all’attività di prevenzione, volta alla conservazione e alla promozione dello stato di benessere, fisico psichico e sociale dei cittadini[8], anche in assenza del “novum” normativo introdotto con il d.l. (e ribadito con il d.P.C.M.), astrattamente la condotta violativa sarebbe stata riconducibile alla fattispecie descritta dall’art. 650 c.p.

Secondariamente perché la clausola di consunzione (“salvo che in fatto non costituisca più grave reato”; anche questa inutilmente ribadita nel decreto, malgrado già contenuta nella norma codicistica), esclude in concreto l’applicabilità dell’art. 650 c.p., cosa della quale pare, ad oggi si siano avveduti però in pochi[9].

Vi è, infatti, la fattispecie prevista dall’art. 260 R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie), anch’essa di natura contravvenzionale, che punisce con l’arresto fino a sei mesi e con la multa da lire 40.000 a lire 800.000: “Chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusone di una malattia infettiva dell’uomo…”.

Appare di una certa evidenza come si tratti di norma speciale ed in ogni caso di reato più grave: art. 260 TULS arresto fino a sei mesi e ammenda da lire 40.000 (euro 20.66) a lire 800.000 (euro 413.17); art. 650 c.p. l’arresto fino a tre mesi o ammenda fino ad euro 206.

Non solo le previsioni edittali di pena sono maggiori, ma l’arresto e l’ammenda sono congiunti e non alternativi, com’è invece per la fattispecie dettata dall’art. 650 c.p.

Ne consegue che, contrariamente a quanto previsto per la fattispecie di cui all’art. 650 c.p., non è possibile accedere all’oblazione cosiddetta “facoltativa” ed ottenere così la declaratoria di estinzione del reato[10].

Un altro aspetto che pare meritare qualche chiarimento attiene all’autodichiarazione effettuabile dal cittadino fermato in occasione di un controllo da parte delle forze dell’ordine finalizzato a verificare l’osservanza delle regole dettate per contenere la diffusione del COVID-19.

In primo luogo non vi è alcuna norma, né di rango primario né secondario, che imponga al cittadino di rilasciare una dichiarazione su un modulo né tantomeno di portare con sé tale modulo quando esce dalla propria abitazione.

La mera facoltà di rilasciare tale autodichiarazione trova origine in una Direttiva ai Prefetti sui controlli nelle “aree a contenimento rafforzato” del Ministro dell’Interno, datata 8 marzo 2020, rivolta oltre che, appunto, ai Prefetti, ai Commissari del Governo per le Provincie di Trento e Bolzano e al Presidente della Giunta Regionale della Valle d’Aosta[11].

Si tratta di un atto interno alla Pubblica Amministrazione, assunto dal vertice dell’organizzazione amministrativa (il Ministro) e rivolto alle proprie articolazioni territoriali (i Prefetti), al fine di impartire direttive in merito alle modalità attraverso le quali organizzare un’efficace attuazione delle misure di contenimento dettate per l’emergenza determinata dalla diffusione del COVID-19.

Non certo, dunque, di un atto normativo, che possa far sorgere obblighi di qualsivoglia natura in capo ai cittadini.

Ed in esso, infatti, si legge come “…per la concreta attuazione delle suddette prescrizioni, sia indispensabile far leva, innanzitutto, sul senso di responsabilità dei singoli cittadini, ai quali andrà rivolta una puntuale attività di comunicazione istituzionale da parte di tutte le Autorità competenti”[12].

Ed ancora: “Premesso che viene, comunque, fatto salvo il diritto al rientro nel territorio del comune di residenza, di domicilio o di dimora degli interessati, va qui evidenziato che l’onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento incombe sull’interessato.

Nella logica di responsabilizzazione dei singoli, cui si è fatto sopra cenno, si ritiene che tale onere potrà essere assolto producendo un’autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che potrà essere resa anche seduta stante attraverso la compilazione dei moduli appositamente predisposti in dotazione agli operatori delle Forze di polizia e della Forza pubblica.

Va comunque evidenziato che la veridicità delle autodichiarazioni potrà essere verificata ex post. Stante comunque il richiamato senso di responsabilità dei singoli cittadini, si osserva che il mancato rispetto degli obblighi di cui al citato provvedimento, è assistito dalla sanzione prevista dall’art. 650 c.p., per l’inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità, qualora naturalmente il fatto non concretizzi più grave reato.”[13]

Fermo quanto si è già osservato in merito all’inapplicabilità dell’art. 650 c.p., risulta chiaramente come la Direttiva sia rivolta a disciplinare l’eventualità che l’operatore di polizia si trovi a controllare una persona che si stia spostando, da un comune all’altro, o all’interno del proprio comune e debba verificare se sussistano i presupposti per consentire tale spostamento.

In alcuni casi le ragioni potranno risultare evidenti, perché documentabili, o comunque immediatamente percepibili, o verificabili, in altri si ipotizza che possa essere (“potrà”) essere resa da parte del cittadino un’autodichiarazione (la cui veridicità “potrà” essere effettuata in un secondo momento).

Ove ciò non accada, l’unica conseguenza ipotizzata dal Ministro, è che non sarà consentito lo spostamento. Si ricorda poi che il mancato rispetto degli obblighi (e non il mancato rilascio della autodichiarazione), può comportare responsabilità penali.

Nulla lascia intendere nella prosa ministeriale, contrariamente a quanto da molte parti è stato ritenuto, che il riferimento all’onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono lo spostamento incomba in capo al cittadino in relazione all’insorgenza della responsabilità penale, o in altri termini che, ove il cittadino non rilasci l’autodichiarazione, per ciò solo debba essere deferito all’autorità giudiziaria.

Al contrario, ove non rilasci tale autodichiarazione l’unica conseguenza sarà che, non avendo attestato le ragioni che gli consentono lo spostamento, tale spostamento non sarà permesso dagli agenti operanti (sempre che, come si è già osservato, le stesse non siano evidenti, o comunque documentate, o facilmente verificabili).

Sulla base poi degli ordinari principi che governano il nostro sistema penale (anche ai tempi dell’emergenza da COVID-19, almeno per ora), se gli operatori di polizia rileveranno elementi tali da far ritenere che siano state violate le regole dettate dai d.P.C.M., procederanno, evidentemente, ad inoltrare la comunicazione della notizia di reato all’autorità giudiziaria, con o senza autodichiarazione.

I due piani sono però e restano, chiaramente distinti.

Altro aspetto che merita di essere approfondito è quello inerente l’ipotizzata responsabilità penale derivante dalla falsità dell’autodichiarazione.

Certo la condotta non sarebbe riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 495 c.p.[14] malgrado sui moduli per l’autodichiarazione messi a disposizione sul sito del Ministero dell’Interno campeggi tale esplicita indicazione[15].

La norma sanziona, infatti, esclusivamente le dichiarazioni e le attestazioni false concernenti: “l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona”.

L’eventuale attestazione inerente le ragioni che legittimano lo spostamento del cittadino non è riconducibile ad alcuna delle categorie dettate (è inutile sottolineare, tassativamente) dalla norma incriminatrice[16].

Ad analoghe considerazioni sembra di dover giungere in ordine alla possibilità di configurare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 483 c.p.[17], per costante giurisprudenza, infatti: “Il delitto previsto dall’art. 483 c.p. sussiste solo qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente”[18].

Come già ricordato, nel caso in questione, non vi è alcuna norma giuridica che obblighi il privato a rendere l’autodichiarazione né che, ove tale autodichiarazione sia stata resa, lo obblighi al vero.

Manca poi l’ulteriore requisito che alla predetta autodichiarazione siano ricollegati specifici effetti relativi all’atto-documento nel quale la stessa venga inserita dal pubblico ufficiale.

Anche la libertà di circolare, infatti, deriva ex lege (o sarebbe meglio dire ex d.P.C.M.) dalla ricorrenza dei presupposti descritti negli articolati normativi emanati dal Presidente del Consiglio dei ministri, non certo dalla autodichiarazione del cittadino, che può risultare superflua, ove le ragioni legittimanti siano immediatamente evidenti al pubblico ufficiale, o del tutto inutile, ove risulti che le stesse non ricorrono.

Pare, al contrario, ragionevole ritenere che la violazione delle regole dettate in materia di limitazione delle libertà personali ed anche di quelle inerenti l’esercizio o la sospensione delle attività commerciali, produttive, professionali e dei servizi pubblici, possa dar luogo ad ulteriori profili di responsabilità penale derivanti dai delitti contro la persona.

Ove tale violazione comporti il propalarsi del contagio, infatti, l’autore potrà essere chiamato a rispondere del reato di lesioni, o di omicidio (ove l’aggravamento della malattia conduca alla morte, anche ovviamente, quale fattore concorrente rispetto ad altre cause patologiche preesistenti).

Se tale responsabilità debba essere ascritta a titolo colposo (eventualmente aggravata dalla previsione dell’evento), o doloso, dipenderà dal grado di consapevolezza e di rappresentazione del soggetto agente rispetto alle proprie condizioni cliniche e alla possibilità di diffusione del virus.

In linea generale sembra comunque di poter affermare che, anche la persona che non abbia percepito alcun sintomo di contagio e sia persuasa di non essere stata infettata dal virus, ove violi una regola cautelare dettata per il contenimento della diffusione dello stesso e tale condotta si ponga in relazione eziologica rispetto alla diffusione del COVID-19 (con il conseguente determinarsi di una malattia nel soggetto contagiato), possa essere chiamata a rispondere sul piano penale, a titolo di colpa, delle conseguenze lesive della sua violazione, poiché non solo sussiste la violazione della regola cautelare, ma l’evento è ragionevolmente prevedibile in concreto dall’homo eiusdem professionis et condicionis.

Sull’altro estremo versante della responsabilità penale si colloca la condotta di chi, consapevole della propria positività ed in presenza di evidenti sintomi (ai quali è correlata una significativa carica virale), violi le regole cautelari, magari proprio la più severa, ovvero la quarantena imposta, e pur rappresentandosi l’elevata probabilità di diffusione del contagio, ne accetti l’evenienza e ponga in essere comunque una determinata condotta, a causa della quale l’infezione si trasmetta poi effettivamente.

Nella ricorrenza degli elementi sopra sommariamente ricordati, il soggetto agente potrà essere chiamato a rispondere del reato di lesioni dolose, ove la malattia si manifesti (non sempre ciò avviene, atteso che in alcuni casi il contagio virale rimane asintomatico) o di omicidio volontario, nel caso di esito infausto della patologia.

Un cenno va rivolto poi, anche alla luce del d.P.C.M. 11 marzo 2020, disciplinante il regime delle attività economiche per le quali non è stata disposta la sospensione, alla responsabilità amministrativa degli Enti per i reati commessi nel loro interesse, o in loro vantaggio dettata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Ed infatti, tra i reati rilevanti ai fini della configurabilità della responsabilità dell’Ente, rientrano appunto l’omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro[19].

Alla luce dell’emergenza Coronavirus e del conseguente quadro normativo, gli Enti sono chiamati ad aggiornare il proprio modello organizzativo attraverso le previste procedure (mappatura delle aree a rischio di reato, valutazione del sistema di controllo interno, analisi comparativa e piani di miglioramento, modifica del modello vero e proprio, formazione e diffusione) e a porre in essere le conseguenti necessarie attività finalizzate e prevenire il verificarsi del contagio in ambito lavorativo[20].

Tornando agli eventuali profili di responsabilità penale personale, la già menzionata Direttiva del Ministro dell’Interno ipotizza, nel caso comportamenti non conformi alle previsioni del d.P.C.M., che sia configurabile il delitto di cui all’art. 452 c.p.[21], in relazione all’art. 438 c.p.[22], che punisce l’epidemia colposa.

La giurisprudenza in materia, pur molto limitata (formatasi prevalentemente in casi di salmonella, in un caso di epidemia dolosa, in relazione al contagio da HIV ed in ambito civile, in relazione alla diffusione di sangue ed emoderivati infetti), ha enucleato numerosi elementi necessari al fine di poter ritenere sussistente delitto di epidemia, sia essa dolosa, o colposa, restringendo l’ambito di applicazione della norma.

Devono ricorrere congiuntamente: (i) il carattere contagioso e diffusivo del morbo, (ii) la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia), (iii) il numero elevato delle persone colpite e (iv) l’estensione territoriale dell’affezione, che dev’essere di una certa ampiezza, (v) il pericolo di infezione di un numero indeterminato di persone, (vi) il correlativo allarme sociale destato dall’infezione e che tali elementi siano direttamente riconducibili causalmente alla condotta posta in essere dal soggetto agente; si è affermato poi che non è configurabile la responsabilità a titolo omissivo, bensì soltanto commissivo[23].

Pur con la necessaria prudenza, dettata appunto dall’impossibilità di ricostruire orientamenti giurisprudenziali sufficientemente formati, che costituiscano una solida base legale in riferimento alla quale perimetrare con ragionevole certezza i confini applicativi della fattispecie, pare difficile ipotizzare che nel caso dell’emergenza COVID-19, possa trovare applicazione tale previsione penale, se non altro perché gli elementi sopra elencati si sono già tutti manifestati e non sarebbero, pertanto, causalmente collegabili alla condotta del soggetto agente.

Certo avremo tempo e modo di verificare gli indirizzi che assumerà la giurisprudenza in ordine ai temi sopra trattati, posto che alla data del 17 marzo 2020 (dopo solo 8 giorni dall’applicazione delle misure di contenimento a tutto il territorio nazionale) risulterebbero già denunciate circa trentamila persone per l’inosservanza dei divieti dettati dai d.P.C.M. cui si è più volte fatto riferimento.

Sarebbe però opportuno che, ciascuno per le proprie competenze, ci si astenesse dall’ingenerare inutile (nella migliore delle ipotesi) confusione, circa le conseguenze penali delle condotte inosservanti degli obblighi ed ancor più che si prendesse atto che non sarà attraverso l’estensione più o meno “creativa” dei divieti imposti (passeggiate di quartiere, divieti di uscire da “zone di residenza” ecc.) che potrà raggiungersi lo scopo di indurre i cittadini a comportamenti virtuosi.

Tale obbiettivo è come sempre, da perseguire attraverso la corretta informazione e la sensibilizzazione rispetto ai rischi ed alle conseguenze del contagio, lasciando allo strumento penale un compito del tutto residuale, per i casi certamente ricadenti nella chiara violazione del dettato normativo.

Diversamente, oltre ad ingenerare confusione, disagi, aggravio dell’attività delle forze dell’ordine, si genererà un ulteriore carico di lavoro per il sistema giudiziario (che certo non ne ha necessità ed ancor meno ne avrà, dopo la sospensione delle attività dettate dall’emergenza) e soprattutto, si esporranno i cittadini a denunce che, seppure infondate, daranno luogo a procedimenti penali che gli stessi dovranno ingiustamente subire.  

Note.

[1] Recante in rubrica la dicitura “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. (GU n.45 del 23-2-2020 ), convertito con modificazioni, con l. 5 marzo 2020, n. 13, in G.U. (GU Serie Generale n.61 del 09-03-2020). [2] Il comma 3 della medesima disposizione prevedeva che, solo nelle more dell’attuazione del decreto (quindi prima della emanazione del/dei d.P.C.M.) e nei soli casi di estrema necessità e urgenza, i provvedimenti di cui al primo comma potessero essere adottati dal Ministro della Salute, dai Presidenti di Regione e dagli enti locali. [3] Su questo aspetto sia consentita, a margine, un breve riflessione. Poiché l’art. 16 della Costituzione prevede una espressa riserva di legge in ordine alla possibilità di limitare la libertà di spostamento del cittadino, è certo che nessuno dei provvedimenti di rango amministrativo poi emanati e dei quali si tratterà nel prosieguo, sarebbe stato legittimo in difetto di un atto con valore di legge che ne consentisse l’assunzione. Si pone però, un tema, che nel presente scritto, avente diverse finalità, può solo essere accennato circa la compatibilità costituzionale del modello emergenziale adottato che, di fatto, svuota la riserva di legge, dando al Presidente del Consiglio dei ministri “carta bianca” circa le misure da assumere. Si badi che l’emissione dei successivi decreti attuativi non solo si sottrae al controllo del Parlamento, previsto invece in sede di conversione di ogni decreto legge, ma ancor prima a quello del Presidente della Repubblica, necessario sia per l’emanazione del decreto legge, che per la promulgazione della legge di conversione, nonché al controllo successivo e diffuso della Corte Costituzionale. Trattandosi di limitazioni della libertà personale, certamente ad oggi significative e magari, un domani, perfino drastiche, non pare un tema di poco momento. Certo avrebbe potuto scegliersi, superati i primissimi giorni della crisi, di riservare allo strumento del decreto legge gli interventi in concreto limitativi della libertà personale e non ricorrere all’uso ripetuto dei d.P.C.M. attuativi del primo d.l. Una scelta di questo genere avrebbe chiamato il Parlamento a svolgere il proprio compito, cosa che, oggettivamente appare difficile, posto che richiederebbe la riunione dei parlamentari in aula, alcuni dei quali risultati positivi al virus ed altri lontani dal Palazzo, proprio per evitare l’ulteriore propalarsi del contagio, ma non impossibile, considerando il termine di sessanta giorni per la conversione e la possibilità di reiterazione dei decreti legge. Benché la Corte Costituzionale, come è noto, con la sentenza del 24 ottobre 1996, n. 360, abbia avuto modo di chiarire che non è legittima la pratica della mera reiterazione di decreti legge non convertiti, non pare che il principio possa valere anche per decreti che, in presenza di diverse e mutate ragioni di urgenza, confermino in tutto o in parte le precedenti misure e ne introducano di nuove. Inoltre, avendo riguardo alle ragioni che hanno determinato il Giudice delle leggi a pronunciare la declaratoria di incostituzionalità, ovvero la tutela della forma di governo prevista dalla Carta Costituzionale, che vuole il Parlamento in una posizione di centralità, o quantomeno di equilibrio rispetto al Governo, risulta certamente preferibile una giustificata reiterazione del decreto legge, piuttosto che la stabile attribuzione di un potere così rilevante al Presidente del Consiglio dei ministri. Si tratta di un inedito modello, elaborato per fronteggiare eccezionali condizioni di crisi sanitaria, sul quale i costituzionalisti dovranno sicuramente interrogarsi. [4] Locuzione poi ripetuta anche dal secondo comma dell’art. 4 del d.P.C.M. 8 marzo 2020. [5] Le diposizioni contenute nelle lettere da a) a c) sono state introdotte dal d.P.C.M. 8 marzo 2020, in relazione alla regione Lombardia e alle provincie di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia; il d.P.C.M. 9 marzo 2020 nell’estendere i divieti a tutta l’Italia ha modificato la lettera d) nei termini sopra riportati. Quanto al “divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus” disposto dalla lett. c), lo stesso è disciplinato dal comma primo dell’art. 1 dell’Ordinanza 21 febbraio 2020, del Ministero della Salute, recante in rubrica la dicitura “Ulteriori misure profilattiche contro la diffusione della malattia infettiva COVID-19. (20A01220) in G.U. Serie Generale, n. 44 del 22 febbraio 2020, nei termini si seguito indicati: “È fatto obbligo alle Autorità sanitarie  territorialmente competenti di applicare la misura della quarantena  con  sorveglianza attiva, per giorni quattordici,  agli  individui  che  abbiano  avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19”. [6] http://www.governo.it/it/faq-iorestoacasa FAQ peraltro richiamate e quindi, in qualche modo “validate” anche in sede giudiziale, anche in un recente provvedimento del Tribunale civile di Milano, emesso in fase cautelare, inaudita altera parte, rispetto alla necessità da parte dei coniugi di continuare a rispettare le condizioni di separazione/divorzio relative al collocamento e alle visite dei figli minori. [7] Art. 650 c.p.: “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”; “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206”. [8] F. BASILE, Commento all’art. 650, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, vol. III, III ed., IPSOA, Milano, 2011, pagg. 6614-6647. [9] Tra i quali A. SCARCELLA Emergenza Coronavirus: conseguenze penali in caso di trasgressione alle regole dettate dal Governo, in il Quotidiano Giuridico on line, 10 marzo 2020. [10] Secondo quanto disposto dall’art. 162 bis c.p.: “oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative”. [11] Direttiva Ministro dell’Interno n. 15350/117(2) Uff III-Prot.Civ. [12] Direttiva cit. pag. 3. [13] Ivi pag. 5. Il riferimento all’art. 46 del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 appare, in ogni caso, inconferente, posto che tale norma contiene un’elencazione di autocertificazioni varie che non riguardano il caso di specie. Astrattamente più pertinente apparirebbe, salvo quanto si dirà, il richiamo all’art. 47, poiché disciplina la dichiarazione sostitutiva di atto notorio che, tra l’altro, può riferirsi a “fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato”. [14] Art. 495 c.p.: “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”, “Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni. La reclusione non è inferiore a due anni: 1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile; 2) se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali è resa all’autorità giudiziaria da un imputato o da una persona sottoposta ad indagini, ovvero se, per effetto della falsa dichiarazione, nel casellario giudiziale una decisione penale viene iscritta sotto falso nome”. [15] modulo. [16] Il significato di dichiarazione riguardante l’identità o lo stato non presenta particolari problemi interpretativi; quanto alle “qualità” si veda, e multis, Cass. pen. sez. V, 5 marzo 2019, n. 19695: “Nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento l’art. 495, comma 1, c.p., rientrano gli attributi ed i modi di essere che servono ad integrare l’individualità di un soggetto e, cioè, sia le qualità primarie, concernenti l’identità e lo stato civile delle persone, sia le altre qualità che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, una precedente condanna e simili. (Fattispecie in cui la falsa informazione di ricoprire il titolo di alto ufficiale dell’esercito è stata ritenuta rientrare nelle qualità secondarie)”. [17] Art. 483 c.p.: “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni. Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre mesi”. [18] Cass. pen., sez. II, 12 gennaio 2012, n. 4970; sul punto si sono espresse più volte le Sezioni Unite della Suprema Corte, da ultimo Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2007, n. 35488: “Presupposto del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) è l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero vedi Sezioni Unite: 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e 9.3.2000, n. 28, Gabrielli”; in senso conforme si vedano: Cass. pen., sez. V, 15 gennaio 2019, n. 14382; Cass. pen., sez. V, 07 febbraio 2017, n. 25927; Cass. pen., sez. V, 4 giugno 2015, n. 39215; Cass. Pen., sez. V, 2 aprile 2014, n. 18279; Cass. Pen., sez. VI, 28 febbraio 2013, n. 23587; Cass. pen., sez. V, 26 novembre 2009, n. 2978; Cass. pen., sez. V, del 04 dicembre 2007, n. 5365; Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 2003, n. 17363.   [19] Art. 25-septies d.lgs. 6 giugno 2001, n. 231, recante in rubrica la dicitura “Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”, “1. In relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell’articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. 2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. 3. In relazione al delitto di cui all’articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi”. [20] Cass. pen., SS.UU., 24 arile 2014, n. 38343: “In tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”. [21] Art. 452 c.p., recante in rubrica la dicitura: “Delitti colposi contro la salute pubblica”, “Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439 è punito: 1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la pena di morte(2); 2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo; 3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della reclusione. Quando sia commesso per colpa alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 440441442443444 e 445 si applicano le pene ivi rispettivamente stabilite ridotte da un terzo a un sesto”. [22] Art. 438 c.p., recante in rubrica la dicitura: “Epidemia”, “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo . Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte]. [23] Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014; Tribunale sez. uff. indagini prel.  Savona, 6 febbraio 2008, in Riv. pen. 2008, 6, 671; Tribunale Trento, 16 Trento 2004, in Riv. pen. 2004, 1231; Tribunale sez. uff. indagini prel. – Trento, 12 luglio 2002, in Cass. pen. 2003, 3940; Tribunale Bolzano, 13 marzo 1979, in Giur. merito 1979, 945; Tribunale Bolzano, 20 giungo 1978, in Giur. merito 1979, 945; principi in parte enunciati anche nelle pronunce rese in sede civile, in cause promosse contro il Ministero della Salute per la responsabilità derivante da contagio da sangue e dai suoi derivati infetti: Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581; Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576. E’ stata esclusa poi la responsabilità a titolo omissivo, per non aver impedito la verificazione dell’evento ex art. 40, secondo comma c.p.: Cass. pen., sez. IV, 12 dicembre 2017, n. 9133.