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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI  – RASSEGNA SECONDO TRIMESTRE 2020

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI – RASSEGNA SECONDO TRIMESTRE 2020

GIURISPRUDENZA SEZIONI UNITE SECONDO TRIMESTRE.PDF

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI

RASSEGNA GIURISPRUDENZA – SECONDO TRIMESTRE 2020

A cura del gruppo di lavoro della Newsletter di Giurisprudenza

 

Sez. Un., Sent. n. 13178 del 28 novembre 2019, (dep. 28 aprile 2020), Presidente Carcano, Relatore De Amicis

Delitti contro l’economia pubblica – Reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza – Elemento oggettivo del reato – Integrazione della fattispecie mediante condotte concorrenziali realizzate con atti di violenza o minaccia, idonee ad ostacolare la libertà del concorrente di autodeterminarsi.

 

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente.

Si compone così il contrasto interpretativo sulla configurabilità del delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza, previsto dall’art. 513-bis c.p., mediante condotte tipicamente concorrenziali, a norma dell’art. 2598 c.c., poste in essere con violenza o minaccia nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero con atti intimidatori idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività imprenditoriale.

In base ad un indirizzo ermeneutico, fedele al dato testuale della previsione normativa, l’elemento oggettivo della fattispecie consiste nella repressione delle sole condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive (come il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, ecc.), poste in essere con atti di violenza o minaccia che precludono la normale dinamica imprenditoriale. Non integrano il reato de quo, invece, quelle condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare e contrastare l’altrui libera concorrenza, esercitate al di fuori dell’attività concorrenziale, come i casi di diretta aggressione ai beni dell’imprenditore concorrente o della sua persona. Ferma restando l’applicabilità, in tal caso, di altre fattispecie criminose (Sez. II, Sent. n. 49365 dell’8 novembre 2016, in C.E.D. Cass. n.  268515; Sez. VI, Sent. n. 44698 del 22 settembre 2015, ivi, n. 265358; Sez. II, Sent. n. 9763 del 10 febbraio 2015, ivi, n. 263299; Sez. II, Sent. n. 29009 del 27 maggio 2014, ivi, n. 260039; Sez. III, Sent.  n. 16195 del 6 marzo 2013, ivi, n. 255398; Sez. I, Sent. n. 6541 del 2 febbraio 2012, ivi, n. 252435; Sez. I, Sent. n. 9750 del 3 febbraio 2013, ivi, n. 246515; Sez. II, Sent. n. 35611 del 27 giugno 2007, ivi, n. 237801; Sez. III, Sent. n. 45756 del 3 novembre 2005, ivi, n. 232650).

Consistendo la ratio fondante della norma nella tutela della libera concorrenza, per la configurabilità del reato, si devono ritenere “atti di concorrenza” unicamente quelle condotte concorrenziali ritenute illecite in termini civilistici, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale. Ragione per cui i principi di legalità e di tassatività impediscono una difforme interpretazione della norma, non potendosi elidere, riguardo all’elemento materiale del reato, il nucleo essenziale, consistente nella realizzazione di un atto di concorrenza. Atto non ravvisabile nei comportamenti intimidatori in quanto tali. L’art. 513-bis c.p., non è applicabile ad atti di violenza e minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la finalità teleologica perseguita dell’agente (Sez. III, Sent. n. 46756 del 3 novembre 2005, cit.).

Viceversa, in base all’opposto orientamento, il reato de quo è configurabile laddove venga realizzato un comportamento che – attraverso l’uso strumentale della violenza o della minaccia – sia idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi dell’esercizio della propria attività commerciale, industriale o comunque produttiva.

Si ritiene in proposito che, per l’integrazione della fattispecie, si devono qualificare atti di concorrenza illecita quei comportamenti, sia “attivi” che “impeditivi“, dell’altrui concorrenza, che, posti in essere da un imprenditore, mediante violenza o minaccia, siano idonei a falsare il mercato ed a consentirgli di acquisire, in danno del predetto, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Sez. II, Sent. n. 18122 del 13 aprile 2016 (dep. 2 maggio 2016), in C.E.D. Cass. n. 266847; Sez. III, Sent. n. 3868 del 10 dicembre 2015 (dep. 29 gennaio 2016), ivi, n. 266180). Questo in ragione, da un lato, della voluntas legis che, con la previsione de qua, ha inteso reprimere forme di intimidazione che, nell’ambito della criminalità organizzata, specie di stampo mafioso, tendono a controllare e/o a condizionare le attività commerciali e produttive. Il richiamo alle condotte tipiche della criminalità organizzata non è finalizzato a perimetrare l’ambito applicativo della norma e, dunque, a restringerlo, ma esclusivamente a caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo (Sez. III, Sent. n. 450 del 15 febbraio 1995 (dep. 24 marzo 1995, in C.E.D. Cass. n. 201578). E, dall’altro, in ragione del dettato dell’art. 2598 c.c., che, mentre ai numeri 1) e 2) prevede i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, al n. 3) contempla una norma di chiusura, in base alla quale sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai princìpi della correttezza professionale idonei e danneggiare l’altrui azienda.

Ne discende che rientrano nella fattispecie, sia le condotte tipicamente concorrenziali, che quelle intimidatorie, finalizzate a contrastare o ad ostacolare l’altrui libertà di concorrenza (Sez. VI, Sent.  n. 50084 del 12 luglio 2018, in C.E.D. Cass. n. 274288; Sez. VI, Sent. n. 38551 del 5 giugno 2018, ivi, n. 274101; Sez. II, Sent. n. 30406 del 19 giugno 2018, ivi, n. 273374; Sez. II, Sent.  n. 9513 del 18 gennaio 2018, ivi, n. 272371; Sez. II, Sent.  n. 18122 del 13 aprile 2016, ivi, n. 266847; Sez. VI, Sent. n. 24741 del 5 maggio 2015, ivi, n. 265603; Sez. III, Sent.  n. 3868 del 10 dicembre 2015, ivi, n. 266180; Sez. II, Sent. n. 15781 del 26 marzo 2015, ivi, n. 263530; Sez. III, Sent. n. 44169 del 22 ottobre 2008, ivi, n. 241683; Sez. II, Sent.  n. 13691 del 15 marzo 2005, ivi, n. 231129).

Sez. Un., Sent. n. 13539 del 30 gennaio 2020 (dep. 30 aprile 2020),  Presidente Carcano, Relatore Andreazza.

Edilizia e urbanistica – Lottizzazione abusiva – Estinzione del reato per intervenuta prescrizione – Annullamento con rinvio in ordine alle statuizioni sulla confisca – Valutazione del giudice del rinvio della proporzionalità della misura.

 

La confisca di cui all’art. 44 DPR 380/2001 può essere disposta anche in presenza di un causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129 c.1 c.p.p., proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento. In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusive per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di Cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis c.p.p., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui all’art. 44 DPR 380/2001.

 

Si è così risolto il contrasto giurisprudenziale sul tema della praticabilità di una confisca urbanistica quando sia già maturata la prescrizione del reato di lottizzazione abusiva. Tema già affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, da quella costituzionale ed infine da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, con le sentenze Sud Fondi c. Italia del 20 gennaio 2009 e del 10 maggio 2012, poi, con la pronuncia del 30 dicembre 2013, Varvara c. Italia, fino alla decisione della Grande Camera, G.I.E.M. s.r.l. ed altri contro Italia, del 28 giugno 2018. Decisione che ha sottolineato l’inclusione della confisca urbanistica nell’ambito della materia penale e nella nozione di “pena”, affermando la compatibilità convenzionale della confisca urbanistica applicata, nonostante sia sopraggiunta la prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, purché questo, nei suoi elementi costitutivi, sia stato accertato all’esito di un’istruzione probatoria rispettosa dei principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza, ossia allorquando le persone fisiche o giuridiche destinatarie siano state parti in causa di tale processo e sempre che la misura ablativa sia proporzionata rispetto alla tutela della potestà pianificatoria pubblica e dell’ambiente.

Premesso che il giudice nazionale deve procedere ad un’interpretazione dell’art. 44, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 in linea con quella data alla disposizione dalla Corte EDU, la questione verte sulla possibilità o no che, all’esito della declaratoria di prescrizione del reato e, dunque, di annullamento senza rinvio della sentenza di condanna da disporsi ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. a) c.p.p., sia consentito un giudizio di rinvio limitato ad una valutazione sulla confisca alla luce dei requisiti che la stessa deve rispettare a seguito della menzionata interpretazione convenzionalmente orientata della norma di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001.

Di qui l’esigenza di individuare la norma processuale che permetta di disporre tale annullamento con rinvio, tenuto conto che dopo il deposito delle motivazioni della richiamata pronuncia della Grande Camera, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito il principio, confermato dalla giurisprudenza europea, che il proscioglimento per intervenuta prescrizione maturata nel corso del processo non osta alla conferma della confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva, a condizione che la decisione abbia accertato l’esistenza del reato e la responsabilità dell’imputato, garantendo il diritto di difesa secondo i parametri di cui all’art. 6 CEDU.

Ebbene, con riguardo all’applicabilità alla confisca urbanistica dell’art. 578-bis c.p.p., introdotto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, diverse pronunce della Sezione rimettente hanno affermato l’applicabilità della norma de qua alla confisca urbanistica. Esito raggiunto, ritenendo che la confisca fosse stata confermata all’esito di un proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione, disposto dalla Corte di appello in sede predibattimentale, senza che fossero state esaminate le doglianze proposte con gli atti di appello e senza il contraddittorio (cfr. Sez. III, Sent. n. 5936 dell’8 novembre 2018, in C.E.D. Cass. n. 274860, in cui, sottolineando la necessità di una piena cognizione in grado di appello, pur ai fini della confisca, è stato menzionato l’art. 578-bis c.p.p.., dandone per scontata l’applicabilità alla confisca urbanistica. Anzi sostenendo che il legislatore nell’introdurre tale previsione, ha recepito i criteri ermeneutici posti dalla giurisprudenza di legittimità)

Altre pronunce, della medesima Sezione, hanno dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica, con cui si eccepiva l’omessa statuizione sulla confisca nella sentenza del Tribunale, che aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione ex art. 129 c.p.p., senza procedere ad istruttoria. Con motivazione, sia pure scarna e correlata alla carenza di specificità dell’atto impugnatorio, che sembra dare per scontata la possibilità per la Cassazione di disporre l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in caso di fondatezza del ricorso in casi analoghi (cfr. Sez. III, Sent. n. 14005, del 4 dicembre 2018, in C.E.D. Cass. n. 275356).

Un’ulteriore decisione, invece, ha disposto l’annullamento con rinvio, limitatamente alla disposta confisca urbanistica, in ordine alla valutazione di proporzionalità della stessa, menzionando nella parte motiva il disposto dell’art. 578-bis c.p.p., ma pretermettendo di analizzare le ragioni in base alle quali sarebbe applicabile nei casi di lottizzazione abusiva (Sez. III, Sent. n. 14743 del 20 febbraio 2019, in C.E.D. Cass. n. 275392).

Più recentemente, la medesima Sezione è addivenuta ad affermare l’inammissibilità del ricorso per Cassazione del pubblico ministero per carenza di specificità e, nel richiamare l’arresto giurisprudenziale della Corte di Strasburgo, piuttosto che riportare i contenuti della sentenza G.I.E.M., ha considerato l’introduzione dell’art. 578-bis c.p.p. e, dunque, la possibilità di disporre l’annullamento con rinvio ai soli fini di confisca, pur in presenza della declaratoria di prescrizione del reato. A conferma del principio secondo cui il giudice del dibattimento deve effettuare l’accertamento di responsabilità dell’imputato pur in presenza di un reato prescritto.  Ma senza tener conto del fatto che tale assunto non è contenuto nella sentenza della Grande Camera e, tanto meno, costituisce la ratio fondante dell’art. 578-bis c.p.p. (cfr. Sez. III, Sent. n. 22034 dell’11 aprile 2019, in C.E.D. Cass. n. 275969). Invero, nell’impianto motivazionale della sentenza G.I.E.M. non si rinviene alcun obbligo per il giudice di primo grado di svolgere un processo penale nel caso in cui il reato sia già estinto per prescrizione. E l’art. 578-bis c.p.p., nel riferirsi esclusivamente ai giudici di appello ed alla Corte di Cassazione, nonché nel menzionare l’esistenza di una sentenza di condanna, evidenzia la necessità che risulti pronunciata all’esito di un giudizio di primo o secondo grado una sentenza di condanna dell’imputato ad una sanzione penale, oltre che alla confisca.

Di contro, con una più recente pronuncia (Sez. III, Sent. n. 31282 del 27 marzo 2019), il tema dell’art. 578-bis c.p.p. è stato ampiamente trattato. Segnatamente, nel disporre l’annullamento senza rinvio della sentenza di appello, che aveva confermato la condanna già inflitta dal giudice di primo grado, per essere il reato di lottizzazione estinto per prescrizione, è stato anche disposto l’annullamento con rinvio limitatamente alle statuizioni relative alla confisca. All’uopo richiamando altra decisione (Sez. III, Sent. n. 8350 del 23 gennaio 2019, in C.E.D. Cass. n. 275756, che, pur affrontando la problematica della confisca urbanistica, non ha trattato – stante l’estraneità alla quaestio decidendi – la possibilità di disporre l’annullamento con rinvio ai soli fini della statuizione sulla confisca.

Si è puntualizzato, altresì, che l’art. 578-bis c.p.p. non comprende la confisca delineata dall’art. 44, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, individuando, piuttosto, il fondamento giuridico della possibilità di emettere una pronuncia di annullamento con rinvio limitatamente alla confisca sulla base di casi analoghi, richiamando sia le ipotesi di confisca come misura di sicurezza patrimoniale per illiceità intrinseca della res, che la pronuncia sulla falsità dei documenti (con espresso rinvio alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 38834 del 10 luglio 2008, in C.E.D. Cass. n. 240565 ed a quella della Sez. II, n. 13911 del 17 marzo 2016, ivi, n. 266389).

 Ciò, in uno con il trend legislativo dell’introduzione dell’art. 578-bis c.p.p., a quanto comunemente si ritiene, sia pure con la necessità d’investire il giudice civile ex art. 622 c.p.p., nel caso dell’analoga fattispecie di cui all’art. 578 c.p.p., ed a quanto sostenuto in altra decisione (Sez. III, Sent. n. 53692 del 13 luglio 2017, in C.E.D. Cass. n. 272791), secondo cui l’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 rappresenta una deroga all’obbligo dell’immediata declaratoria delle cause estintive del reato ex art. 129, comma 2, c.p.p. e consente la prosecuzione del processo penale anche in primo grado, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato), dimostrerebbe la necessità del proseguimento del processo penale.

Di qui il contrasto giurisprudenziale, in seno alla stessa terza Sezione che, nell’ordinanza di rimessione, ha segnalato l’inapplicabilità alla confisca urbanistica dell’art. 578-bis c.p.p., come pure l’inesistenza di una disposizione che consenta alla Cassazione di annullare con rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla statuizione sulla confisca, in caso di reato di lottizzazione abusiva dichiarato prescritto. Precipuamente rilevando che l’art. 578-bis c.p.p. si riferisce solo alla confisca allargata prevista dall’art. 240-bis c.p., nonché a quelle previste dalle leggi speciali che ne recepiscono lo schema, ed alla confisca di valore a seguito della l. n. 3/2019. E che gli esempi richiamati nella sopra citata Sentenza n. 31282 del 2019 si riferiscono a pronunce di proscioglimento, a cui conseguano effetti ablatori non aventi natura penale, ma di misura di sicurezza o, ancora, effetti diversi dall’applicazione di una sanzione penale. Né ha ritenuto praticabile l’applicazione analogica dell’art. 622 c.p.p. Come pure il rimando all’art. 44 T.U.E., laddove si afferma che la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, trattandosi di norma sostanziale e non processuale, in cui “la sentenza definitiva è menzionata unicamente quale presupposto della confisca e non è stata disciplinata nella cadenza procedimentale, quale esito di un giudizio”.

 

Sez. un., Sent. n. 12348 del 19 dicembre 2019 (dep. 16 aprile 2020),  Presidente Carcano, Relatore Andronio.

Legge stupefacenti – Coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti – Conformità alla tipologia botanica normativamente prevista – Idoneità del grado di maturazione – Principio attivo ricavabile – Incidenza lesiva sulla salute pubblica.

Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.

 

Viene così composto il contrasto ermeneutico circa la necessità o no, per la configurabilità del reato di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti, di verificare che detta attività sia concretamente atta a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.

Occorre preliminarmente dare atto di un principio consolidato, in forza del quale la coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti integra il reato di cui all’art. 28, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, a prescindere dalla finalità della condotta e dalla natura domestica della coltivazione. Rileva, difatti, che la condotta manifesti una connotazione di offensività, anche potenziale (cfr. Sez. un., Sent. n. 28605 del 24 aprile 2008, Di Salvia, in C.E.D. Cass. n. 23992.

Ed è proprio sul tema della “offensività in concreto” che la giurisprudenza di legittimità si è divisa seguendo due indirizzi antitetici.

In base ad un primo orientamento, per la configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, si esige, oltre alla coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, la verifica dell’idoneità in concreto di tale attività a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato (cfr. Sez. III, Sent. n. 36037 del 22 febbraio 2017, in C.E.D. Cass. n. 271805; Sez. VI, Sent. n. 8058 del 17 febbraio 2016, ivi, n. 266168; Sez. VI, Sent. n. 5254 del 10 novembre 2015, ivi, n. 265641; Sez. VI, Sent. n. 33835 dell’8 aprile 2014, ivi, n.  260170).

Secondo l’opposto indirizzo, per la punibilità della coltivazione non autorizzata di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti, il disvalore della condotta deve rinvenirsi nell’idoneità a produrre la sostanza per il consumo. Ragione per cui non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, bensì la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per modalità di coltivazione, ad addivenire a maturazione ed a produrre, quindi la sostanza stupefacente, nel-intento di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente (Sez. VI, Sent. n. 35654 del 28 aprile 2017, in C.E.D. Cass. n.  270544; Sez. VI, Sent. n. 53337 del 23novembre 2016, ivi, n. 268695; Sez. VI, Sent. n. 52547 del 22 novembre 2016, ivi, n. 268938; Sez. VI, Sent. n. 25057 del 10 maggio 2016, ivi, n. 266974; Sez. III, Sent. n. 23881 del 23 febbraio 2016, ivi, n. 267382).

 

 

Sez. un., Sent. n. 19241 del 30 gennaio 2020, differita al 23 aprile 2020 (dep. 24 giugno 2020), Presidente Carcano, Relatore Pistorelli.

Misure cautelari personali – Custodia cautelare – Incompetenza territoriale del giudice per le indagini preliminari dichiarata dal tribunale del riesame – Ordinanza che dispone l’annullamento della misura per insussistenza dei presupposti per l’emissione – Interesse ad impugnare del Pubblico Ministero – Sussistenza – Condizioni.

Sussiste l’interesse del pubblico ministero ad impugnare il provvedimento con il quale il tribunale del riesame, rilevata l’incompetenza del giudice per le indagini preliminari, annulli, per carenza delle condizioni di applicabilità, l’ordinanza con cui quello stesso giudice ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere, se l’impugnazione è funzionale a garantire il tempestivo intervento del giudice competente.

 

È stato così composto il contrasto maturato tra i Giudici del Supremo consesso in ordine alla sussistenza dell’interesse del pubblico ministero ad impugnare l’ordinanza nella parte in cui il tribunale del riesame, oltre a dichiarare l’incompetenza del giudice che aveva disposto l’applicazione della misura cautelare, abbia annullato il provvedimento gravato, entrando nel merito e dichiarando la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e/o l’assenza delle esigenze di cautela.

Secondo un indirizzo ermeneutico deve ritenersi inammissibile il ricorso per Cassazione proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale della libertà, decidendo sul riesame di un’ordinanza applicativa di una misura coercitiva personale, abbia dichiarato la propria incompetenza territoriale, disponendo la trasmissione degli atti ad altra autorità giudiziaria, ritenuta territorialmente competente. All’uopo si afferma che «il giudice del riesame, una volta che dichiari la propria incompetenza, non può riformare e annullare il provvedimento impugnato, salva una valutazione nei limiti del fumus sulla legalità del provvedimento adottato e sulla sussistenza delle ragioni d’urgenza, unico presupposto cui è condizionata l’adozione del provvedimento di custodia cautelare e la temporanea efficacia della durata di venti giorni per assicurare l’intervento del giudice competente». E, altresì, sostenendo che «il giudice del riesame che ha pronunciato l’ordinanza impugnata non può avere alcuna cognizione su un eventuale ripristino della misura, là dove l’ordinanza impugnata fosse annullata sul punto (dalla) Corte» (cfr. Sez. VI, Sent. n. 32337 del 18 giugno 2010, in C.E.D. Cass. n. 248088; Sez. V, Sent. n. 21953 del 13 maggio 2010, ivi, n. 247415).

In base a tale orientamento la valutazione del tribunale del riesame circa l’esistenza dei gravi indizi e delle esigenze cautelari non potrebbe essere diretta ma incidentale. Sostanzialmente, dedotta con l’istanza di riesame la questione della competenza del primo giudice, il giudice dell’impugnazione, riconosciutane la fondatezza, deve controllare la sussistenza dei presupposti applicativi della misura, unicamente in ragione del fatto che ciò sia funzionale all’accertamento dell’esistenza della situazione di urgenza, legittimante il mantenimento temporaneo dell’efficacia della misura cautelare in corso. In dottrina si parla in proposito di “sovrapposizione” di controlli, con riguardo alla “valutazione sincronica di tutti gli elementi” che chiama il giudice, ove ne riconosca la sussistenza, ma rilevi anche la incompetenza, ad “aggiungere l’ulteriore verifica dell’urgenza”.

Questi assunti richiamano l’obiter dictum anticipato dalle Sentenza De Lorenzo del 1994, ossia che il giudice del riesame, qualora rilevi la incompetenza del giudice a quo, è chiamato a verificare l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 291, comma 2, c.p.p.., nei limiti in cui sia necessario ai fini della decisione sul mantenimento temporaneo della misura cautelare. Con la conseguenza che il pubblico ministero, pronunciata dal giudice la propria incompetenza, non è più legittimato, e, comunque, è carente di interesse a far valere il diritto all’azione, spettando la domanda cautelare sull’imputazione provvisoria all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente (cfr.  Sez. V, Sent. n. 32337 del 18 giugno 2010, cit.). La pubblica accusa non conserva un interesse ad impugnare quella decisione del tribunale del riesame, in quanto avente ad oggetto l’ordinanza di un giudice dichiarato incompetente, che non ha incidenza sullo status libertatis del destinatario, che rinviene la propria regolamentazione nell’eventuale provvedimento, successivamente pronunciato dal giudice competente. Ciò senza che alla decisione del tribunale ex art. 309 c.p.p. possa riconoscersi efficacia di giudicato (cfr. Sez. IV, Sent. n. 45819 del 30 marzo 2004, in C.E.D. Cass. n. 230587; Sez. II, Sent. n. 48734 del 29 novembre 2012, non massimata sul punto; Sez. II, Sent. n. 1379 del’11 marzo 1994, in C.E.D. Cass. n. 197437).

Parimenti, si è sostenuta l’inammissibilità del ricorso del pubblico ministero avverso la decisione del tribunale per il riesame dichiarativa della incompetenza per territorio e dell’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, poiché «non determina alcuna ulteriore conseguenza, diversa da quella di aver cagionato la perdita di efficacia dell’ordinanza, anche prima del periodo dei venti giorni, senza determinare alcuna preclusione o giudicato cautelare: il giudice competente per territorio è titolare della cognizione senza limitazione alcuna» (cfr. Sez. V, Sent. n. 47646 del 17 luglio 2014). Inoltre si è conformemente affermato che, in siffatte ipotesi, il pubblico ministero non ha «interesse a censurare le ragioni che hanno indotto il giudice a quo ad escludere la gravità indiziaria” nei confronti degli indagati, posto che “un annullamento sul punto non avrebbe alcun effetto concreto, essendo perenta la misura e non potendo essere riemessa che su iniziativa dei pubblico ministero presso i giudici competenti e con nuovi ed autonomi provvedimenti di questi ultimi» (cfr. sul punto Sez. 1, n. 18477 del 03/02/2006 e, sull’inidoneità della decisione adottata dal giudice dichiaratosi incompetente a formare un giudicato cautelare vincolante nei confronti del giudice competente, cfr. Sez. VI, Sent n. 21328 del 16 aprile 2015, in C.E.D. Cass. n. 263412 e Sez. VI, Sent. n. 24639 del 28 aprile 2006, ivi, n. 235187). Del resto, il pubblico ministero non sembra conservare un interesse ad impugnare l’ordinanza con cui il tribunale della libertà abbia dichiarato l’incompetenza del primo giudice cautelare, per evitare di essere ‘condizionato’ nelle sue ulteriori scelte investigative.

Alla stregua dell’art. 22, comma 1, c.p.p., che impone al giudice che dichiara la incompetenza per qualsiasi causa nella fase delle indagini preliminari di disporre solamente la restituzione degli atti al pubblico ministero, spetta allo stesso ogni ulteriore decisione in ordine alla possibilità di trasmettere gli atti ad altro organo dell’accusa, oppure di trattenerli per proseguire le indagini. E, in virtù dell’efficacia limitata prodotta, ex art. 22, comma 2, c.p.p.., dalla precedente declaratoria di incompetenza, si è riconosciuta al pubblico ministero anche la facoltà di proporre una nuova richiesta cautelare al medesimo giudice (cfr. Sez. I, 18 dicembre 1992), semmai riformulando l’imputazione provvisoria contestata all’indagato (cfr. Sez. VI, Sent. n. 44396 del 25 settembre 2019, non massimata).

Un diverso indirizzo conferma che il tribunale del riesame, quando dichiara la incompetenza del giudice che ha emesso la misura cautelare, non ha alcun potere di valutare l’esistenza dei presupposti per l’adozione della misura e di provvedere all’annullamento della stessa. Nondimeno, riconosce l’esistenza di un interesse del pubblico ministero ad impugnare la decisione di annullamento per evitare la formazione di un giudicato cautelare e, dunque, per non pregiudicare la decisione che assumerà il giudice competente (cfr. Sez. VI, Sent. n. 12330 del 24 gennaio 2007, in C.E.D. Cass. n. 236398; Sez. VI, Sent. n. 22480 del 16 maggio 2005, ivi, n. 232237). Si evidenzia al riguardo la sussistenza di un effetto preclusivo che la decisione di annullamento emessa del tribunale del riesame potrebbe avere rispetto al provvedimento cautelare, la cui adozione fosse successivamente richiesta al giudice ritenuto competente. Ciò in quanto «una volta dichiarata l’incompetenza del g.i.p., il giudice dell’impugnazione non dispon(e) del potere di annullare la misura emessa, per la semplice ragione che una siffatta opzione rende in concreto inapplicabile l’art. 27 cod. proc. pen., finendo per espropriare di un suo specifico potere il diverso giudice individuato come competente, che potrebbe provvedere sulla richiesta di emissione della misura entro il termine di venti giorni dalla trasmissione degli atti”. Ne consegue che sussiste l’interesse del pubblico ministero ad impugnare una “decisione che potrebbe pregiudicare quella del (diverso) giudice indicato come competente e alla prevenzione della formazione del giudicato interno in tema di esigenze cautelari» (cfr. Sez. VI, Sent. n. 12330 del 24 gennaio 2007, cit.). Si afferma così che, qualora il tribunale del riesame abbia annullato, per insussistenza delle esigenze cautelari, un provvedimento applicativo di misura cautelare personale, dopo avere ritenuto l’incompetenza del giudice che l’ha emesso, il pubblico ministero, pur non potendo sortire dal suo eventuale annullamento l’investitura del medesimo giudice, oramai dichiarato incompetente con decisione inoppugnabile ai sensi dell’art. 568, comma 2, c.p.p.., ha interesse a ricorrere avverso la relativa ordinanza, per precludere la formazione del giudicato interno sulla sussistenza delle esigenze cautelari, pregiudizievole alla decisione sul punto del giudice indicato come competente (cfr. Sez. VI, Sent. n. 8971 del 17 gennaio 2007, in C.E.D. Cass. n. 235920).

Conformi a tale assunto sono le pronunce che segnalano l’abnormità del provvedimento con cui il giudice del riesame, avendo rilevato l’incompetenza per territorio del giudice che ha adottato la misura cautelare personale ed avendo escluso la sussistenza del presupposto dell’urgenza, previsto dall’art. 291, comma 1, c.p.p., non si limiti a trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria territorialmente competente, ma annulla la misura stessa. Pronunce in cui si afferma che «sussiste l’interesse del pubblico ministero ad impugnare il provvedimento per evitare la formazione di giudicato cautelare in ordine all’annullamento della misura in atto» (cfr. Sez. VI, Sent. n. 6240 del 17 gennaio 2012, in C.E.D. Cass. n. 252420; Sez. VI, Sent. n. 14649 del 19 marzo 2007, ivi, n. 236486; Sez. VI, Sent. n. 4618 del 15 gennaio 2007; Sez. VI, Sent. n. 41006 del 5 dicembre 2006, in C.E.D. Cass. n. 235443). Nello stesso senso una recente pronuncia (Sez. VI, del 29 ottobre 2019), che affronta l’argomento da plurime angolazioni. In primis, riprendendo quanto già espressamente affermato in motivazione da Sez. un., Sent. n. 42030 del 17 luglio 2014, si sottolinea come tale decisione evidenzi la distinzione fra ordinanze che, pur risolvendosi in una indiretta negatoria dell’ordinanza cautelare, si esauriscono in una “pura” dichiarazione di incompetenza e quelle che hanno ad oggetto non la mera questione della competenza, ma il diverso e preliminare tema dei requisiti del provvedimento cautelare genetico. Giacché nel primo caso, il provvedimento sarebbe non impugnabile, in ossequio al sistema dei conflitti di competenza trovando ivi applicazione l’art. 22 c.p.p. Mentre, nel secondo, il provvedimento sarebbe impugnabile, attenendo la questione anche alla verifica dei presupposti legittimanti la misura cautelare ed alla possibilità, in ragione della urgenza di provvedere ex art. 291, comma 2, c.p.p.., di attribuire alla stessa, sebbene disposta da un giudice incompetente, un’efficacia limitata nel tempo ex art. 27 c.p.p.

In secondo luogo, si sottolinea che la richiamata sentenza attiene, alla tipicità dei provvedimenti che il tribunale del riesame può disporre, ai sensi dell’art. 309, comma 9, c.p.p. Segnatamente, si sostiene che il tribunale non potrebbe limitarsi a dichiarare la incompetenza del giudice, ma dovrebbe valutare i presupposti legittimanti la misura ed emettere un provvedimento di merito, per giungere a confermare o annullare il titolo genetico. Secondo tale pronuncia, sulla base di questi elementi l’interesse a ricorrere del pubblico ministero dovrebbe essere verificato in relazione al tipo di provvedimento in concreto adottato dal tribunale, ravvisandosi nei casi in cui l’ordinanza del riesame non si limiti a dichiarare l’incompetenza del giudice, ma annulli il provvedimento cautelare genetico ritenendone insussistenti i presupposti legittimanti, e dunque, precludendo l’operatività dell’art. 27 c.p.p.

Occorre da ultimo richiamare un ulteriore indirizzo interpretativo, in base al quale il tribunale del riesame, quand’anche chiamato a decidere sull’incompetenza per territorio del primo giudice cautelare, deve sempre ‘spingersi’ a verificare direttamente l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, dovendo provvedere ad annullare il provvedimento gravato là dove ne ravvisi l’assenza (cfr. Sez. II, Sent. n. 26286 del 27 giugno 2007; Sez. V, Sent. n. 2242 del 12 dicembre 2005, in C.E.D. Cass. n. 233025; Sez. IV, Sent. n. 30328 del 21 giugno 2005, ivi, n. 232027). Orientamento che non può essere pretermesso in ragione dell’individuazione di una più organica e coerente lettura della disciplina della materia, restando, tuttavia, ben delineato il contesto in cui inerisce lo specifico quesito interpretativo rimesso. Né si può tralasciare quella presa di posizione secondo cui si è giunti a sostenere che un interesse ad impugnare sarebbe riconoscibile laddove il pubblico ministero dovesse devolvere al giudice superiore non direttamente la «questione sulla (in)competenza ma il diverso e preliminare tema dei requisiti del provvedimento cautelare, ritenuti (dal primo giudice) – con decisione contestata sul punto – insussistenti nel caso sottopostogli e capaci, pertanto, di far venire meno la necessaria competenza a provvedere» (cfr. Sez. un., Sent. n. 42030 del 17 luglio 2014, cit.). Situazione che – seppur differente da quella del caso di specie sottoposto al supremo Consesso – sarebbe configurabile qualora il giudice cautelare non si dichiari incompetente a provvedere, perché individua la competenza di altro giudice, bensì a seguito di una valutazione di merito attinente all’esistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato per il quale la misura era stata richiesta. In quanto la relativa decisione solo formalmente sarebbe di incompetenza, ma andrebbe qualificata come di rigetto (cfr. Sez. V, Sent. n. 2453 del 17 aprile 2000, in C.E.D. Cass. n. 216544; Sez. I, Sent. n. 2576 del 28 maggio 1993, ivi, n. 194636).

 

Sez. Un., 27 febbraio 2020 (dep. 9 aprile 2020), n. 11803, Presidente Carcano, Relatore Caputo.

Misure cautelari personali – Riesame – Partecipazione dell’interessato – Termine per la presentazione della richiesta – Individuazione.

La persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa della possibilità di partecipare all’udienza camerale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza stessa solo se ne ha fatto richiesta, tramite il difensore, con l’istanza di riesame, ferma restando la facoltà di chiedere di essere sentita su specifici temi con l’istanza di differimento ai sensi dell’art. 309, comma 9-bis, cod. proc. pen.

È stato così composto il contrasto giurisprudenziale sulla questione delle modalità di esercizio del diritto di partecipazione all’udienza di riesame del soggetto sottoposto a restrizione della libertà, avuto riguardo al limite temporale della richiesta, a seguito della modifica dell’art. 309 c.p.p., per effetto dell’art. 11 della Legge 16 aprile 2015 n. 47. Il comma 6 dell’art. 309 c.p.p. prevede che, con la richiesta di riesame, «l’imputato può chiedere di comparire personalmente», mentre il comma 8-bis dispone che «l’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente». Modifica che ha inteso rafforzare il diritto dell’interessato a comparire al procedimento de libertate, a fronte di un sistema che ex ante, lo riconosceva esclusivamente in favore del soggetto detenuto o internato nell’ambito della circoscrizione, per il rinvio operato dal previgente comma 8 dell’art. 309 c.p.p. al modulo dell’udienza camerale ex art. 127 c.p.p.

Secondo un indirizzo ermeneutico, recentemente consolidatosi, in tema di procedimento di riesame, il diritto della persona sottoposta a restrizione della libertà a partecipare all’udienza non è sottoposto a limitazioni o decadenze, quando la relativa richiesta sia stata tempestivamente inviata, in modo da consentire il regolare svolgimento del procedimento di cui all’art. 309 c.p.p. (cfr. Sez. II, Sent. 36160 del 3 aprile 2017, in C.E.D. Cass. n. 270683, che ha annullato senza rinvio l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva rigettato la richiesta dell’indagato di partecipare all’udienza, ritenendola tardiva, perché non formulata con il ricorso de libertate, ma al momento della notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza).

Nell’alveo di tale orientamento si colloca Sez. VI, Sent. n. 24894 del 7 marzo 2019, in C.E.D. Cass. n. 275887, in base alla quale: «il diritto della persona sottoposta a restrizione della libertà di partecipare all’udienza non è sottoposto a limitazioni o decadenze, purché la relativa richiesta, qualora avanzata in epoca successiva all’atto introduttivo dell’incidente cautelare, pervenga in tempo utile per organizzare la tempestiva traduzione, dovendo altrimenti essere disattesa con adeguata motivazione (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva rigettato la richiesta dell’indagato di partecipare all’udienza ritenendola tardiva, perché formulata contestualmente alla richiesta di differimento dell’udienza ex art. 309, comma 9-bis, cod. proc. pen.)».

In senso conforme Sez. VI, Sent. n. 21779 del 22 marzo 2019, in C.E.D. Cass. n. 275674 che evidenzia come il richiamo operato dall’art. 309, comma 8-bis, c.p.p. alla richiesta formulata ai sensi del comma 6, laddove sembra correlare la proposizione della richiesta di comparire al momento della presentazione dell’istanza di riesame, non sia vincolante, avuto riguardo, per un verso, all’uso della formula “può, in luogo di “deve, che avrebbe avuto funzione predicativa della obbligatorietà della richiesta contestuale e, per l’altro, alla mancanza di statuizioni puntuali su tempi e forme della richiesta di presenziare. Sostanzialmente, alla stregua di tale assunto, il legislatore non avrebbe inteso stabilire un limite temporale tassativo, ma, piuttosto, concedere al soggetto in vinculis la possibilità di manifestare la volontà di partecipare all’udienza già nell’atto introduttivo del procedimento cautelare, seppur non necessariamente in concomitanza con esso.

Nella richiamata pronuncia si evidenzia, inoltre, come il diritto di partecipazione personale all’udienza camerale in cui si discute delle ragioni fondanti lo status detentionis, costituendo per il soggetto in vinculis espressione del diritto di difesa, non possa essere recessivo di fronte ad esigenze organizzative dell’ufficio, tenuto ad assicurare il servizio di traduzione, pur se la finalità sia quello di evitare disparità di trattamento connesse alle disomogeneità delle realtà territoriali, giudiziarie e penitenziarie.

Questa scelta ermeneutica trova conforto nella sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 17 gennaio 1991, che, in relazione al procedimento di riesame, ha riconosciuto l’assoluta importanza del contraddittorio e del diritto alla presenza dell’interessato in udienza, quale presupposto dell’oralità, cardine del sistema processuale accusatorio. Come pure nell’art. 6, comma 3, lett. e), d), e), della Convenzione EDU e nell’art. 14, comma 3, lett. d), e), f), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Previsioni normative che, nell’affermare il diritto di ogni accusato di difendersi personalmente, di esaminare o fare esaminare i testimoni e di farsi assistere gratuitamente da un interprete, richiedono la presenza dell’imputato anche nel giudizio camerale.

Il suddetto indirizzo ermeneutico, nel bilanciamento tra l’esigenza del legislatore di individuare un momento preciso per la proposizione della richiesta di comparire e la valenza difensiva del diritto di partecipare all’udienza, ritiene, dunque, che quest’ultimo non possa essere compresso, limitandone l’esercizio alla presentazione dell’atto di riesame, a fronte della possibile fluidità delle strategie difensive.

Ne discende che la richiesta di partecipazione può essere formulata anche a seguito della notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, purché pervenga in tempo utile per consentire all’ufficio, nell’interesse del soggetto in vinculis, di approntare la traduzione, senza pregiudicare il regolare e celere svolgimento dell’iter procedimentale ex art. 309 c.p.p. Ragione per cui l’indebita violazione del diritto a partecipare – laddove la traduzione non venisse disposta o eseguita – determinerebbe una nullità assoluta e insanabile, ai sensi e per gli effetti dell’art. 179 c.p.p., sia dell’udienza camerale che della successiva pronuncia del tribunale del riesame.

In base all’opposto indirizzo interpretativo, più risalente nel tempo, invece, la partecipazione personale del soggetto gravato da misura restrittiva della libertà è subordinata a specifica richiesta, da formulare esclusivamente con l’istanza di riesame (anche dal difensore, se il gravame sia dallo stesso presentato).

In tal senso Sez. I, Sent. n. 49882 del 6 ottobre 2015, in C.E.D. Cass. n. 265546, ha affermato il principio di diritto secondo cui: «Nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, per effetto della modifica dei commi 6 e 8-bis dell’art. 309 cod. proc. pen., operata dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, il soggetto sottoposto a misura privativa o limitativa della libertà personale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, nell’istanza di riesame, mentre non sono più applicabili le disposizioni di cui agli artt. 127, comma terzo, cod. proc. pen. e 101 disp. att. cod. proc. pen., che prevedono il diritto dell’interessato detenuto o internato fuori dal circondario ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza».

Alla stregua di tale approccio ermeneutico, il novum normativo ha ribadito il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, ancorché detenuto o internato fuori distretto, fissandone, tuttavia, l’esercizio ad un dato obiettivo ed incontrovertibile. Assunto rispondente al tenore dell’art. 309, comma 8-bis, c.p.p., altrimenti svilito a norma inutiliter data, nonché consono al procedimento di riesame, contraddistinto da ritmi snelli e serrati, giacche’, oltre a sottrarre alla discrezionalità del giudice l’apprezzamento della tempestività della richiesta di partecipazione ed a superare incertezze applicative, inibisce atteggiamenti dilatori od ostruzionistici da parte del soggetto sottoposto a vincoli restrittivi.

Né, diversamente, sarebbe ipotizzabile una significativa lesione dei diritti di difesa, attesa l’esigua distanza temporale che separa l’udienza di riesame dall’interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p. Atto la cui matrice difensiva fa sì che la partecipazione, pochi giorni dopo, all’udienza cautelare abbia una modesta pregnanza.

In tale ambito si collocano Sez. IV, n. 12998 del 23 febbraio 2016, in C.E.D. Cass. n. 266296, e Sez. II, Sent. n. 13707 dell’11 marzo 2016, ivi, n. 266519 (in base alla quale «Nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, per effetto della modifica dei commi 6 e 8-bis dell’art. 309 cod. proc. pen., operata dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, il soggetto sottoposto a misura privativa o limitativa della libertà personale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, nell’istanza di riesame, mentre non sono più applicabili le disposizioni di cui agli artt. 127, comma terzo, cod. proc. pen. e 101 disp. att. cod. proc. pen., che prevedono il diritto dell’interessato detenuto o internato fuori dal circondario ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza»), in cui, pur riconoscendo la portata garantistica della Legge n. 47 del 2015, nell’attribuire ad ogni soggetto in vinculis pieno ed identico diritto di comparire all’udienza di riesame, senza distinzioni correlate al luogo di detenzione, si sostiene che tale diritto deve essere esercitato in tempi definiti, con richiesta non successiva all’istanza di riesame.

E, ancora, Sez. II, Sent. n. 12854 del 15 gennaio 2018, in C.E.D. Cass. n. 272467, che – pur condividendo l’assunto del contrapposto indirizzo in base al quale il diritto-dovere del giudice di sentire personalmente l’indagato/imputato ed il diritto di questi di essere ascoltato, da chi dovrà decidere, sono espressione del contraddittorio nella declinazione dell’oralità, che rinviene la sua ratio fondante nell’art. 111 Cost., che nell’art. 6 della Convenzione EDU – ribadisce che, solo se attivato attraverso una legittima e tempestiva istanza, tale diritto possa trasformare il ristretto in un soggetto a “partecipazione necessaria“, la cui omessa traduzione comporta la nullità del procedimento de libertate, fermi restando gli effetti dell’ordinanza applicativa della misura custodiale.

In tal senso, si afferma che «nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, il soggetto sottoposto a misura privativa o limitativa della libertà personale, che intenda esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale ai sensi dell’art. 309, comma 8-bis, cod. proc. pen., deve formularne istanza, personalmente o a mezzo del difensore, nella richiesta di riesame» (Sez. II, Sent. n. 12854 del 15 gennaio 2018, in C.E.D. Cass. n. 272467).

Nell’individuare le modalità di presentazione della richiesta di partecipazione, la richiamata decisione valorizza il dettato dell’art. 309 c.p.p., osservando che, laddove la manifestazione della volontà partecipativa non soggiacesse a limiti, la tutela di un diritto fondamentale dipenderebbe dalla capacità organizzativa dell’ufficio giudiziario, ossia da competenze amministrative ed aspetti logistici disomogenee sul territorio. Per converso, l’avere individuato un termine, nella presentazione dell’istanza di riesame, realizza un equilibrato bilanciamento tra la tutela del diritto di partecipazione e l’esigenza acceleratoria caratterizzante il procedimento di riesame, nell’osservanza del principio costituzionale di eguaglianza.

 

Sez. un., Sent. n. 17274 del 26 marzo 2020 (dep. 5 giugno 2020), Presidente Cammino, Relatore Piccialli.

Misure cautelari personali – Rigetto da parte del G.I.P. della richiesta del P.M. di applicazione di misura coercitiva – Applicazione da parte del Tribunale del riesame in accoglimento dell’appello del P.M. – Interrogatorio di garanzia non necessario.

In caso di applicazione di una misura cautelare coercitiva da parte del tribunale del riesame in accoglimento dell’appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del giudice per le indagini preliminari, non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia a pena di inefficacia della misura suddetta.

È stato così composto il contrasto ermeneutico manifestatosi nella giurisprudenza della giurisprudenza di legittimità.

In base ad un primo orientamento, espresso dalla Sezione rimettente, sin dal 2013, «qualora il Tribunale, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del g.i.p., applichi una misura cautelare coercitiva, non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia, in quanto il provvedimento emesso in sede di appello cautelare è preceduto dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, finalizzato ad approfondire anticipatamente tutti i temi dell’azione cautelare anche attraverso i contributi forniti dalla difesa» (Sez. VI, Sent. n. 50768 del 12 novembre 2013, dep. 3 dicembre 2014, in C.E.D. Cass. n. 261538).

A fondamento di tale assunto si è sostenuto che la necessità di procedere, in tempi normativamente contingentati, all’interrogatorio di garanzia, all’esito dell’applicazione della misura cautelare, deve ritenersi correlata all’esigenza di garantire all’indagato, in forza dell’immediato contatto con il giudice, la possibilità di prospettare elementi, in fatto e diritto, idonei ad incidere sulla portata della gravità indiziaria ed a consentire il riesaminare le originarie motivazioni sottese all’intervento coercitivo. Mettendo così il decidente nella condizione di rivalutare la persistenza delle ragioni alla base della misura, in esito a siffatto contatto chiarificatore. Necessità che si è ritenuta assorbita laddove, per la specifica dinamica processuale che porta al provvedimento cautelare, l’interrogatorio abbia perso il ruolo di imprescindibile prerogativa difensiva. Situazione ravvisabile, per espressa previsione normativa, quando la misura sia stata applicata una volta aperto il dibattimento, giacché in questo caso il contraddittorio assorbe in toto e rende indifferenti gli spazi difensivi che giustificano l’interrogatorio nell’intervento cautelare.

Nondimeno, la superfluità dell’interrogatorio è stata riscontrata nei casi di rinnovazione della misura cautelare a seguito di caducazione, per ragioni meramente formali e di rito, di un precedente provvedimento coercitivo in relazione agli stessi fatti, per cui vi era stato l’interrogatorio. Di qui l’insussistenza dell’esigenza di disporre l’interrogatorio di garanzia allorquando il provvedimento applicativo di una misura cautelare sia emesso, sempre nel corso delle indagini, non secondo l’ordinaria ipotesi del contraddittorio differito, bensì dal giudice dell’appello cautelare, ai sensi dell’art. 310 c.p.p., avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza cautelare emessa dal G.I.P.

Ipotesi, questa, in cui il provvedimento è anticipato dall’instaurazione del contraddittorio, finalizzata ad approfondire le tematiche fondanti l’azione cautelare.

Segnatamente, la finalità dell’interrogatorio appare anticipata dalla trattazione, nel contraddittorio, della pretesa cautelare. Ragione per cui l’imposizione dell’atto dopo la concessione della misura finirebbe per ingenerare una superfetazione difensiva, assurgendo a formalità superflua, in quanto assorbita dalla dinamica dell’antecedente attività processuale.

A tale criterio interpretativo è seguita una pronuncia antitetica, in cui sempre la sezione sesta ha affermato che, in caso di applicazione di una misura cautelare da parte del tribunale investito dell’appello del p.m. ex art. 310 c.p.p., avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione di un provvedimento coercitivo, è necessario fissare l’interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a misura, salvo che non sia già iniziato il dibattimento. Con la conseguenza che, in caso di mancata o tardiva celebrazione dello stesso, la misura cautelare perde efficacia (Sez. VI Pen., Sent.  n. 6088 del 20 novembre 2014, non massimata). Alla base di tale indirizzo si è evidenziato che l’art. 294, comma 1, c.p.p. dispone che: «fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, il giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura cautelare, se non vi ha proceduto nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo di indiziato di delitto, procede all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia, salvo il caso in cui essa sia assolutamente impedita». Nonché il successivo comma 1-bis in cui si prevede che «se la persona è sottoposta ad altra misura cautelare, sia coercitiva che interdittiva, l’interrogatorio deve avvenire non oltre 10 giorni dalla esecuzione del provvedimento dalla sua notificazione”; ed il comma 1-ter recita che «l’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare deve avvenire entro il termine di 48 ore se il pubblico ministero ne fa istanza nella richiesta di custodia cautelare». A cui è correlato l’art. 302, comma 1, prima parte, c.p.p., secondo cui «a custodia cautelare disposta nel corso delle indagini preliminari perde immediatamente efficacia se il giudice non procede all’interrogatorio entro il termine previsto dall’art. 294».

Peraltro, si è sottolineato come la Consulta, con la sentenza n. 95 del 2001, abbia dichiarato costituzionalmente illegittima la previsione de qua, nella parte in cui non prevede che tale meccanismo caducatorio sia applicato anche a misure diverse da quelle custodiali.

Dalle richiamate previsioni, si è desunto che ogni qual volta il giudice emetta un provvedimento limitativo della libertà personale è tenuto ad interrogare la persona sottoposta alla misura e tale incombente processuale è doveroso e sanzionato a pena di inefficacia della misura, salvo che vi abbia già provveduto all’atto della convalida del provvedimento precautelare, o sia avviata la fase dibattimentale, nell’ambito della quale l’imputato ha facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio, nel contraddittorio fra le parti.

Si è altresì evidenziato che nessuna eccezione è prevista nel caso in cui l’ordinanza di custodia cautelare sia stata emessa dal tribunale a seguito di appello del pubblico ministero avverso il provvedimento del g.i.p., reiettivo della richiesta ex art. 291 c.p.p. Ipotesi in cui, salvo che il giudice non abbia rigettato la richiesta di emissione del provvedimento coercitivo dopo avere celebrato l’interrogatorio in udienza di convalida dell’arresto o del fermo, o che sia già stata dichiarata l’apertura del dibattimento, non può che valere la regola generale secondo la quale l’interrogatorio di garanzia è doveroso a pena di inefficacia della misura cautelare.

Si è, inoltre, rilevato che l’assunto trova conforto nella previsione dell’art. 302, comma 1 seconda parte, c.p.p., che impone, in caso di caducazione della misura cautelare, per omessa o intempestiva celebrazione dell’interrogatorio di garanzia, la rinnovazione dell’interrogatorio a piede libero, a riprova, appunto, dell’inderogabilità dell’incombente processuale, pena l’inapplicabilità del provvedimento coercitivo.

Vieppiù che l’interrogatorio di garanzia costituisce un momento processuale assolutamente imprescindibile per consentire al destinatario del provvedimento restrittivo della libertà personale di rendere la propria versione dei fatti innanzi al giudice e, quindi, di svolgere appieno la propria difesa. Invero, nell’espletamento dell’interrogatorio il giudice deve osservare le regole e dare gli avvertimenti previsti dall’art. 64 c.p.p.

In base a quanto stabilito poi dall’ art. 65 c.p.p., si deve contestare in forma chiara e precisa il fatto attribuito, rendere noti alla persona indagata gli elementi di prova esistenti e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, comunicare alla medesima le fonti. E, ancora, deve invitare la persona ad esporre quanto ritiene utile per la propria difesa e porre direttamente le domande, cui la persona può rifiutarsi di rispondere. Del resto, l’interrogatorio ha una finalità non istruttoria, ma difensiva, per consentire al giudice di verificare, nell’interlocuzione con il sottoposto a vincoli, la sussistenza ab origine e la persistenza delle condizioni di applicabilità della misura. Ciò a conferma dell’inderogabilità dell’incombente processuale.

Nella richiamata pronuncia si è sottolineato come, alla celebrazione dell’interrogatorio di garanzia non possa di certo sopperire la facoltà della persona di rendere dichiarazioni spontanee, nell’ambito dell’udienza camerale di discussione dell’appello cautelare. Al riguardo rimarcando che le dichiarazioni spontanee rappresentano un momento processuale eventuale ed implica la scelta dell’interessato di partecipare alla udienza camerale, mentre l’interrogatorio postula la fissazione di un’udienza ad hoc, dedicata ad assumere le dichiarazioni dell’indagato/imputato, a fronte delle specifiche contestazioni dei fatti e degli elementi probatori posti a carico. Come pure che, diversamente da quanto accade per l’interrogatorio, nel caso delle dichiarazioni spontanee, il giudicante non provvede alle ammonizioni previste nell’art. 64 c.p.p. e non procede alla contestazione del fatto reato attribuito, degli elementi di prova e delle relative fonti ai sensi dell’art. 65 c.p.p. Ed infine che le dichiarazioni spontanee sono rese in libertà dall’interessato, secondo un proprio percorso logico argomentativo e scegliendo liberamente i contenuti, mentre l’interrogatorio – laddove l’indagato/imputato intenda sottoporvisi e rispondere alle domande poste dal giudice – si svolge secondo lo schema tracciato idealmente dal giudicante, alla stregua delle emergenze probatorie o indiziarie a carico, sollecitando chiarimenti a difesa. In altri termini, si tratta di atti ontologicamente differenti, che non si possono ritenere tra loro equivalenti, così da consentire ad uno di surrogare l’altro. Tanto più che le dichiarazioni spontanee – che l’interessato ha facoltà di rendere nel procedimento incidentale de libertate ex art. 310 c.p.p. – intervengono in un momento in cui si sta discutendo del ricorso dell’organo d’accusa avverso il provvedimento del g.i.p. reiettivo della richiesta di applicazione della misura cautelare, dunque in un contesto in cui, sebbene vi sia stata una piena discovery degli elementi a carico e delle imputazioni provvisorie, la cautela personale non è in atto e costituisce solo un’ipotesi, seppure concreta e da contrastare. Mentre l’interrogatorio di garanzia è reso a seguito dell’emissione di un provvedimento applicativo della misura cautelare. Ragione per cui l’interessato può confrontarsi, anziché con la richiesta unilaterale ex art. 291 c.p.p., ossia con l’ipotesi dell’accusa e con gli elementi raccolti che la sorreggono, direttamente con le imputazioni provvisorie stimate fondate dal giudicante, anche se unicamente ex art. 273 c.p.p., nonché con gli elementi valorizzati a fondamento del titolo coercitivo. In tale fase, egli è chiamato a svolgere la sua difesa in relazione, non ad una mera ipotesi di restrizione, bensì ad un titolo coercitivo già in esecuzione. Nondimeno si è rilevato come, fra l’applicazione della misura cautelare da parte del tribunale del riesame ex art. 310 c.p.p. e l’esecuzione della misura cautelare, intercorra uno iato temporale, dipendente dai tempi di celebrazione del ricorso per cassazione che paralizza l’esecutività dell’ordinanza coercitiva.

Ragione per la quale solo l’esperimento dell’interrogatorio, dopo l’esecuzione della misura, entro i termini ex art. 294 c.p.p., può garantire quel controllo del giudice in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura cautelare, non solo ab origine, ma anche nell’attualità.

A conforto di tale orientamento, precedenti pronunce hanno specificato che, in caso di applicazione della misura cautelare da parte del tribunale della libertà, adito ex art. 310 c.p.p. dal pubblico ministero, la cui istanza era stata precedentemente rigettata dal giudice, competente a procedere all’interrogatorio dell’indagato è sempre il g.i.p. (Sez. I Pen., Sent.  n. 2761 del 10 giugno 1992, in C.E.D. Cass. n. 191383; Sez. I Pen., Sent. n. 3608 del 28 settembre 1992, ivi, n. 192079). Assunto che implica, quale imprescindibile antecedente logico-giuridico, che l’interrogatorio di garanzia sia celebrato anche in caso di emissione del provvedimento coercitivo da parte del tribunale del riesame a seguito di appello del p.m. Ma che ha trovato smentita, in una recente pronuncia, adesiva al contrapposto indirizzo ermeneutico (Sez. II Pen., Sent. n. 38828 del 25 maggio 2017, in C.E.D. Cass. n. 271135).

 

 

Sez. Un., Sent. n. 12778 del 27 febbraio 2020 (dep. 23 aprile 2020) Presidente Carcano, Relatore Rago.

Notificazioni – All’imputato detenuto – Elezione o dichiarazione di domicilio – Obbligo di notificazione presso il luogo di detenzione – Sussistenza – Notifica al domicilio dichiarato o eletto – Conseguenze – Nullità a regime intermedio.

 

Le notifiche all’imputato detenuto, anche qualora abbia dichiarato o eletto domicilio, vanno eseguite presso il luogo di detenzione, con le modalità di cui all’art. 156 c. 1 c.p.p., mediante consegna di copia alla persona. La notifica al detenuto eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto dà luogo ad una nullità a regime intermedio, soggetta alla sanatoria prevista dall’art. 184 c.p.p.

È stata così composta la contrapposizione tra due distinti orientamenti interpretativi sulla questione di diritto relativa all’ambito di applicazione dell’art. 156 c.p.p. e dell’art. 161 c.p.p.

Secondo un primo indirizzo ermeneutico deve ritenersi nulla la notificazione effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto dall’imputato detenuto, il cui sopravvenuto stato di detenzione sia conosciuto dal giudice procedente (cfr. Sez. VI, Sent. n. 18628 del 31 marzo 2015, in C.E.D. Cass. 263483)

Sempre in base a tale assunto, si è affermato che la notificazione all’imputato detenuto ex art. 156 c.p.p., del decreto di citazione deve avvenire nel luogo di detenzione. Ciò in quanto l’ufficio giudiziario procedente, prima di effettuare la notificazione, deve svolgere le dovute ricerche in ordine allo status libertatis alla data della notificazione del decreto (Sez. V, Sent. n. 37135 del 10 giugno 2003, in C.E.D. Cass. n. 226664).

Si è inoltre sostenuto che non è valida la notificazione effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto dall’imputato detenuto, il cui sopravvenuto stato di detenzione sia noto al giudice procedente (Sez. I, Sent. n. 13609 del 9 luglio 2013, in C.E.D. Cass. n. 259594, in cui la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza, all’esito di udienza in camera di consiglio, il cui avviso era stato notificato al domicilio dichiarato dall’imputato che, nel frattempo, era stato sottoposto a misura cautelare coercitiva, la cui perdurante applicazione risultava agli atti del procedimento).

Militano a favore di tale tesi l’applicabilità dell’art. 161 c.p.p. solo all’imputato o indagato libero, come pure il contenuto e la funzione del decreto di giudizio immediato, che avvisa l’imputato della facoltà di chiedere i riti alternativi e dalla cui notificazione, “a mani proprie“, all’imputato detenuto decorrono i termini per la proposizione della relativa richiesta.

E, ancora, l’art. 457 c.p.p., in cui si prevede che, dopo il decorso di tali termini, può procedersi alla formazione del fascicolo per il dibattimento, da trasmettersi per la prosecuzione del giudizio. Vieppiù nel caso in cui l’imputato sia detenuto in relazione al procedimento per cui deve essere eseguita la notificazione, tale status risulta ex actis e non è suscettibile di essere ignorato. Ragione per cui, in caso di inosservanza dell’art. 156, comma 1, c.p.p., dovrebbe ritenersi omessa la notificazione, con le conseguenze che ne discendono.

Alla stregua del combinato disposto degli artt. 156, 157 e 161 c.p.p., può dirsi che lo stato di detenzione non rappresenta, come evidenziato dalla Sezione rimettente, “un volontario mutamento di domicilio o di residenza rispetto a quello dichiarato o eletto da cui può derivare l’effetto latu sensu sanzionatorio ex art. 161 c.p.p. collegato all’omessa comunicazione del mutamento“. Piuttosto “è l’effetto legale dell’esecuzione del provvedimento dell’autorità giudiziaria e determina di conseguenza l’applicazione dell’art. 156 c.p.p. in relazione al luogo certo in cui si trova l’indagato o l’imputato, al fine di procedere alla notifica a mani proprie. Non può essere pertanto considerato un elemento fattuale, ma l’effetto legale dell’esecuzione dell’ordinanza emessa dall’autorità giudiziaria, né lo stato di detenzione nel processo può essere assimilato al comportamento di chi viola l’obbligo di collaborazione con l’autorità giudiziaria assunto con la dichiarazione o elezione di domicilio ex art. 161 c.p.p..

E, ad ulteriore conforto, si richiama l’art. 161, comma 3, c.p.p., laddove prevede che l’imputato o l’indagato detenuto che deve essere scarcerato per causa diversa dal proscioglimento definitivo, all’atto della scarcerazione ha l’obbligo di fare la dichiarazione di domicilio. Previsione che non avrebbe ragion d’essere nel caso in cui l’elezione di domicilio, precedente allo stato di detenzione, avesse ancora effetto. A tale proposito, si osserva che le Sezioni unite (con la sentenza n. 41280 del 17 ottobre 2006, in C.E.D. Cass. n. 234905), avevano già affermato il principio secondo cui in tema di notificazioni la dichiarazione di domicilio prevale su una precedente elezione di domicilio, pur non espressamente revocata, in relazione all’ipotesi l’indagato, al momento della scarcerazione per applicazione degli arresti domiciliari, aveva dichiarato il domicilio nel luogo di abitazione, senza revocare la precedente elezione di domicilio presso il difensore). Ciò a riprova che la detenzione, seppur sopravvenuta, renderebbe applicabile l’art. 156 c.p.p.

Secondo un diverso orientamento, però, è valida la notifica eseguita presso il domicilio eletto dall’imputato detenuto e non presso il luogo di detenzione noto all’autorità procedente, atteso che anche l’imputato detenuto ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.p. (Sez. VI, Sent. n. 20532 del 1° marzo 2018, in C.E.D. Cass. n. 273420, in cui si è affermato che l’elezione di domicilio, avendo natura di dichiarazione di volontà a carattere negozial-processuale, che necessita per la propria validità del rispetto di determinate formalità, può essere superata, unicamente in forza di un atto formale di revoca e non in ragione di elementi fattuali). Si ritiene, dunque, valida la notifica eseguita presso il domicilio eletto dall’imputato detenuto e non presso il luogo di detenzione. Ciò in quanto anche l’imputato detenuto ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.p.  Tanto più che la previsione di cui all’art. 156 c.p.p., in base alla quale le notificazioni all’imputato detenuto debbono essere eseguite nel luogo di detenzione, non contiene una disciplina derogatoria rispetto a quella generale in tema di notificazioni. Ragione per la quale anche all’imputato detenuto è consentito avvalersi della facoltà di dichiarare o eleggere domicilio ex art. 161, comma 1, c.p.p. (Sez. VI, Sent. n. 42306 del 7 ottobre 2008, in C.E.D. Cass. n. 241877. In senso conforme Sez. II, Sent. n. 15102 del 28 febbraio 2017, ivi, n. 269863, che ha, altresì, puntualizzato come l’elezione di domicilio, avendo natura di dichiarazione di volontà a carattere negozial-processuale necessitante, ai fini della sua validità, del rispetto di determinate formalità, possa essere superata, esclusivamente in forza di un atto formale di revoca e non in ragione di elementi fattuali. E, ancora, Sez. II, Sent. n. 21787 del 4 ottobre 2018, in C.E.D. Cass.  n. 275592, nonché’ Sez. III, n. 42223 del 6 febbraio 2015, ivi, n. 264963, relativa alla notifica del decreto di rinvio a giudizio eseguita presso il difensore di ufficio domiciliatario, in cui si è sottolineato che anche in tale ipotesi può ritenersi instaurato un legame di affidamento tra l’indagato ed il difensore.

Sez. Un., Sent. n. 14273 del 19 dicembre 2019, (dep. 12 maggio 2020), n. 14273, Presidente Carcano, Relatore Ciampi.

Patrocinio a spese dello Stato – Istanza di ammissione – Dichiarazione sostitutiva di certificazione del reddito – Falsità o incompletezza delle indicazioni contenute nella dichiarazione – Redditi effettivi inferiori ai limiti stabiliti dalla legge per l’ammissione al patrocinio – Rilevanza ai fini della revoca – Esclusione.

La falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dall’art. 79 c. 1 lett. c) d.p.r. 115 del 2002, qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, non comporta la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 95 e 112 d.p.r. 115 del 2002.

 

È stato composto il contrasto ermeneutico circa la possibilità che la falsità o l’incompletezza dell’autocertificazione allegata all’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato ne determini l’inammissibilità e, conseguentemente, la revoca, in caso di intervenuta ammissione, anche nell’ipotesi in cui i redditi effettivi non superino il limite di legge.

Secondo l’obiter dictum delle Sezioni unite (cfr. Sent. n. 6591 del 27 novembre 2008, in C.E.D. Cass. n. 242152), la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione deve ritenersi connessa «all’ammissibilità dell’istanza non a quella del beneficio» e che «solo l’istanza ammissibile genera obbligo del magistrato di decidere nel merito». Da cui discende l’irrilevanza sia che il reddito dell’istante fosse, comunque, inferiore al limite reddituale stabilito dalla legge per l’ammissione al beneficio, sia che il reato di cui all’art. 95 D.P.R. n. 115 del 2002 non sia o non venga accertato (cfr. in senso conforme, Sez. IV, Sent. n. 19611 del 2012, non massimata). Invero, se la veridicità della dichiarazione è condizione di ammissibilità dell’istanza di cui al d.P.R. n. 115 del 2002, la sua falsità ne determina l’inammissibilità, che può essere rilevata originariamente o, con la revoca, in un secondo momento. Ratio fondante di tale assunto è la valorizzazione dell’obbligo di lealtà nei confronti delle istituzioni del soggetto che vuole fruire di un istituto solidaristico, funzionale al proprio diritto di difesa ex art. 24 Cost.

Questo assunto è stato valorizzato dall’orientamento giurisprudenziale che ha sottolineato che l’omessa comunicazione, anche parziale, delle variazioni reddituali determina la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nonostante il carattere occasionale e la scarsa incidenza delle stesse, tali da non far venir meno le condizioni per l’ammissione al beneficio (cfr. Sez. IV, Sent. n 43593 del 7 ottobre 2014 Cc. (dep. 20 ottobre 2014), in C.E.D. Cass. n. 260308).

Una conferma a tale assunto si rinviene nell’art. 112 del D.P.R. n. 115 del 2002, che prevede la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non solo per il superamento dei limiti reddituali, all’esito della comunicazione delle variazioni intervenute (lett. b) o in altro modo (lett. d), ma anche per la mancata comunicazione, nei termini di cui all’art. 79, comma 1, lett. d, di eventuali variazioni di limiti di reddito (lett. a).

Sostanzialmente, si ritiene dovuta la comunicazione, anche laddove le variazioni non implichino il superamento delle condizioni per il mantenimento (cfr. Sez. V, Sent. n. 13309 del 24 gennaio 2008 (dep. 28 marzo 2008, in C.E.D. Cass. n. 239387), dovendosi rendere noti i dati suscettibili di valutazione discrezionale da parte dell’Autorità, nell’adempimento di un obbligo di lealtà del singolo verso le istituzioni, la cui violazione comporta la revoca del beneficio. All’uopo segnalando come una diversa interpretazione vanificherebbe la previsione dell’ipotesi autonoma di revoca di cui alla lett. a), in quanto già ricompresa nelle successive lett. b) e d).

Conseguentemente, risulterebbe contraddittorio revocare il beneficio nei confronti di chi omette la comunicazione di variazioni reddituali, sia pure irrilevanti per il superamento delle condizioni di ammissibilità, per mantenerlo, di contro, nei riguardi di chi, sin dall’origine, ha reso dichiarazioni false ed incomplete. Revoca che, peraltro, si risolve in una reazione preventiva, tale da evitare l’intervento penale. Per questa ragione si può ritenere distonico rispetto a tale assunto l’ultimo periodo dell’art. 95, comma 2, del D.P.R. n. 115 del 2002, laddove stabilisce che, a fronte della condanna per il reato di cui alla prima parte del medesimo articolo, discende la revoca del beneficio, trattandosi di una norma di chiusura per l’ipotesi in cui la revoca del beneficio non sia stata disposta dal giudice che aveva ammesso l’interessato al patrocinio gratuito.

Secondo il difforme indirizzo interpretativo, invece, la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato può avvenire soltanto nei casi tassativamente previsti dalla legge, in quanto rimedio finalizzato a limitare e comprime la realizzazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Ne consegue che la falsità o le omissioni nella dichiarazione sostitutiva di certificazione possono comportare la revoca del beneficio solo ex art. 112 lett. d) del D.P.R. n. 115 del 2002, ove risulti provata la mancanza originaria delle condizioni di reddito, ovvero ex art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 in caso di condanna per il reato previsto. Condanna che potrebbe mancare, ad esempio, per difetto dell’elemento psicologico (cfr. Sez. IV, Sent. n. 4623 del 15 dicembre 2017 (dep. 31 gennaio 2018), in C.E.D. Cass. n., 271949).

Del resto, nel sopra richiamato arresto delle Sezioni unite, la condizione di ammissibilità dell’istanza non si rinviene nell’art. 79 d.P.R. n. 309 del 1990, da cui si desume la necessità di attestare le condizioni previste per l’ammissione, con determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini e non delle specifiche tipologie dello stesso, nonché la necessità di assumere l’obbligo di comunicare, sino al termine del processo, le variazioni dei limiti di reddito, laddove “rilevanti”.

E, infine, occorre considerare l’art. 112, comma 1, lett. a), che prevede la revoca dell’ammissione in caso di omessa comunicazione di eventuali variazioni dei limiti di redditi e non genericamente di ogni variazione reddituale, anche ininfluente, come confermato dal coordinamento con il tenore del succitato art. 79.

Sez. un. Sent. n. 14722 del 30 gennaio 2020 (dep. 12 maggio 2020), Presidente Carcano, Relatore Fumu.

Stupefacenti – Circostanza aggravante dell’ingente quantità – Individuazione – Riforma introdotta dal D.l. n. 36 del 2014 – Criteri fissati dalle Sezioni unite nella sentenza n. 36258 del 24 maggio 2012 – Persistente validità – Sussistenza.

A seguito della riforma introdotta in tema di stupefacenti dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dall’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990 e che, con riferimento in particolare alle c.d. droghe leggere, la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo.

Si è così sanato il contrasto giurisprudenziale, segnalato, peraltro, dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo nella Relazione n. 59 del 30 novembre 2016, in ordine alla necessità di una nuova verifica dei presupposti per l’applicazione della circostanza aggravante della ingente quantità, alla luce dell’accresciuto tasso di modulazione normativa. In particolare il dissidio si è sviluppato intorno alla possibilità di ritenere ancora utilizzabili i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo, tabellarmente detenibile, indicati dalla sentenza delle Sezioni unite n. 36258 del 24 maggio 2012. Con la tale pronuncia si è affermato il principio secondo il quale l’aggravante dell’ingente quantità, di cui all’art. 80, comma 2, D.P.R. n. 309 del 1990, non è, di norma, ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi (c.d. valore soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006. Fatta salva la valutazione discrezionale del giudice di merito, laddove la suddetta quantità sia superata.

La sentenza de qua interveniva, però, nell’ambito di un quadro normativo diverso, ossia in epoca antecedente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, con cui sono stati dichiarati illegittimi gli artt. 4-bis e 4-vicies ter della Legge n. 49 del 2006. Invero, il decreto del Ministro della Salute del’11 aprile 2006, richiamato dall’art. 73 del D.P.R. 309/1990, nella versione antecedente alla pronuncia d’incostituzionalità, aveva fornito indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti, riferibili ad uso personale, elencate nella tabella I del Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dalla Legge 21 febbraio 2006, n. 49, ai sensi dell’articolo 73, comma 1-bis del detto Testo Unico. A fronte della richiamata pronuncia della Corte costituzionale e del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella Legge 16 maggio 2014, n. 79, in vigore dal 21 maggio 2014, si è posto, pertanto, il problema della permanenza o no della validità del criterio stabilito dal supremo Consesso, ai fini dell’aggravante in questione.

Secondo un primo indirizzo interpretativo (cfr. Sez. III, Sent. n. 1609 del 27 maggio 2015, in C.E.D. Cass. n. 265810 e Sez. III, Sent. n. 12532 del 29 gennaio 2015, ivi, n. 263001), l’impostazione accolta dalle Sezioni unite si dovrebbe ritenere superata, poiché rapportata al sistema tabellare che il D.L. n. 272 del 2005, art. 4 vicies ter, convertito con modificazioni nella Legge n. 49 del 2006, aveva introdotto nel testo unico degli stupefacenti, sostituendo alle originarie quattro tabelle, che distinguevano le droghe leggere (tabelle II e IV) dalle droghe pesanti (tabelle I e III), un’unica tabella per tutte le sostanze stupefacenti e psicotrope.

Invero, a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, il sistema tabellare, con il D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella L. 16 maggio 2014, n. 79, è stato modificato attraverso l’introduzione di quattro nuove tabelle. Ragione per cui la determinazione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante dell’ingente quantità non potrebbe prescindere da tale differente impostazione normativa. All’uopo rilevandosi come il nuovo assetto legislativo formatosi, che smentisce la ratio fondante la normativa vigente all’epoca dello sviluppo giurisprudenziale di cui sopra, risulti scarsamente compatibile con un’interpretazione pressoché aritmetica e, conseguentemente, automatica dell’aggravante dell’ingente quantità.

Secondo l’opposto orientamento (cfr. Sez. VI, Sent. n. 543 del 17 novembre 2015, in C.E.D. Cass. n. 265756; Sez. VI, Sent. n. 44596 dell’8 ottobre 2015, ivi, n. 265523; Sez. VI, Sent. n. 6331 del 4 febbraio 2015, ivi, n. 262345 e, in senso conforme, Sez. IV, Sent. n. 49619 del 12 ottobre 2016, ivi, n. 268624), i criteri elaborati dalle Sezioni unite, nella summenzionata decisione, per l’applicazione dell’aggravante dell’ingente quantità, manterrebbero, invece, validità, nella misura in cui possono essere utilizzati come criteri orientativi, individuati a fronte di un’indagine condotta su un numero cospicuo di sentenze di merito.

Indirizzo, quest’ultimo, confutato, però, dalla più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. IV, Sent. n. 49366 del 19 luglio 2018, in C.E.D. Cass. n. 274038; Sez. VI, Sent. n. 36209 del 13 luglio 2017, ivi, n. 270916) che, conformandosi all’opposto orientamento, sopra indicato, con riferimento alle cd. “droghe leggere”, riafferma come l’aggravante di cui all’art. 80, comma 2, D.P.R. n. 309 del 1990, non sia di norma ravvisabile quando la quantità di principio attivo sia inferiore a 4000 volte – e non a 2000 – il valore massimo in milligrammi (c.d. valore soglia), determinato per detta sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006. In proposito puntualizzando che l’applicazione di tale moltiplicatore s’imporrebbe per far rispettare le proporzioni e rendere omogeneo il principio affermato dalle Sezioni unite con la citata sentenza, in conseguenza dell’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, che, con riferimento alle droghe leggere, aveva innalzato il quantitativo massimo giornaliero di principio attivo detenibile, previsto dal D.M. 11 aprile 2006, nella misura di 1000,00 mg., nonché alla reintroduzione del limite previgente pari a 500 mg.

Ciò non senza riserve, laddove si afferma che, per effetto della espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, ai sensi dell’art. 75, comma 1-bis, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dalla Legge 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, per accertare la sussistenza della aggravante de qua, hanno validità i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile (cfr. Sez. IV, Sent. n. 55014 del 15 novembre 2017, in C.E.D. Cass. n. 271680).