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DAL ‘POPULISMO GIUDIZIARIO’ AL ‘POPULISMO PENALE DI GOVERNO’ di Nicola Mazzacuva

DAL ‘POPULISMO GIUDIZIARIO’ AL ‘POPULISMO PENALE DI GOVERNO’ di Nicola Mazzacuva

di Nicola Mazzacuva

Costituisce segnalazione ormai del tutto ricorrente quella volta ad evidenziare che il ruolo e i contenuti assunti oggi dal sistema penale costituiscono motivo di forte preoccupazione per chi ancora attribuisca rilievo ai canoni del diritto penale liberale (e costituzionale): canoni sempre più contraddetti dalla ‘deriva punitivista’, dalla ‘nevrosi punitiva’[1] che connota l’odierna stagione della nostra materia.

E, a questo riguardo, bisogna ricordare che un’associazione, ormai così importante come l’Unione delle Camere penali, ha sentito proprio l’esigenza di redigere un ‘Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo’ in puntuale attuazione di quanto indicato nel programma del Candidato che è stato, poi, eletto presidente all’ultimo Congresso ordinario (quello, appunto, elettivo).

Si riscontrava la presenza di un quadro politico inedito ed allarmante, costituito dalla intesa raggiunta tra due forze politiche aventi la medesima vocazione ‘populista’ secondo una definizione che, lungi dall’essere respinta come spregiativa o immeritata, veniva anzi espressamente rivendicata.

Sulle singole clausole del cd. ‘contratto di governo’ – all’epoca stipulato – si concentravano le maggiori ambizioni politiche dei due partiti della precedente maggioranza e la materia penale – sia sostanziale, sia processuale – costituiva la principale ‘brama’ operativa dei nuovi governanti: riforme immediate ‘a costo (economico) zero’ (altra cosa è il costo civile!) costituenti salutare medicina da somministrare al popolo bisognoso di rassicurazione.

Si assisteva, così, al passaggio dal ‘populismo giudiziario’ al ‘populismo penale di governo’.

L’affermarsi, cioè, di una idea politica che concepisce – come già autorevole dottrina aveva evidenziato – “la legge penale e la pena come armi per combattere ‘i nemici del popolo’ di volta in volta individuati come tali”.

Per questo – sempre a livello programmatico – si diceva di voler ‘dare [con il Manifesto] voce, forza e forma alle idee liberali della giustizia penale in Italia’(progetto per vero, a mio avviso, valido non solo per l’Italia) e in particolare ci si proponeva di stimolare la mobilitazione delle energie accademiche, intellettuali, istituzionali e politiche per la definizione e la riscrittura dei principi della giustizia penale liberale proprio perché, nell’esperienza storica, l’esigenza di definire e compendiare le connotazioni ideali di un movimento politico o culturale nasce sempre in momenti di forti modificazioni del contesto di riferimento.

Come accade, appunto, oggi.

Proprio in una sede accademica così prestigiosa come quella dell’Università Statale di Milano (nella mitica aula 208 di quell’ateneo è stato, appunto, presentato il nostro Manifesto), ancora qualche tempo fa il Maestro dei penalisti tedeschi – Claus Roxin, insignito della laurea honoris causa – delineava nella sua lectio magistralis i ‘compiti futuri della scienza penalistica[2] ponendo in primo piano la necessità della difesa delle ‘tradizioni liberali e illuministiche’.

Occorrerà – diceva Roxin – anche in futuro “salvaguardare le fondamenta spirituali sulle quali è sorto il diritto penale moderno. Da un punto di vista storico, la scienza giuridica dell’Europa continentale ha un debito decisivo verso quella italiana: nel diritto penale, per quanto riguarda l’influenza del pensiero illuministico. Il libro “Dei delitti e delle pene” di Beccaria viene ancora oggi continuamente ristampato in Germania”[3].

Giustamente ci si sofferma sul sintagma ‘diritto penale’ evidenziando i profili di garanzia di un lemma (‘diritto’) di siffatta denominazione.

Ma occorre proprio anche ricordare come la denominazione “diritto penale”, incentrata sulla pena come sanzione inflitta dallo Stato al reato, si è affermata soltanto agli inizi del XIX secolo. Oggi è prevalente nei Paesi dell’Europa continentale (ad es., Germania, Spagna, Portogallo, Austria, Svizzera). All’inverso, quella di “diritto criminale” è utilizzata nei Paesi di common law. In epoca precedente l’espressione usuale era appunto quella di “diritto criminale”, che poneva in risalto l’altra componente essenziale della nostra disciplina: appunto, il crimine.

Occupandoci della situazione attuale della ‘legalità penale‘ del principio di ‘riserva di legge’ si può senz’altro convenire sul fatto che l’ordinamento vigente si regga oggi su di un canone, se non quasi evanescente, senz’altro fortemente traditore della sua connaturale istanza di garanzia: ciò in quanto il nostro sistema positivo risulta letteralmente sommerso da un’incontrollabile moltitudine di norme incriminatrici che rende impossibile non solo conoscere tutti i reati ‘legalmente’ previsti, ma financo calcolarne l’esatto numero.

Mi riferisco, appunto, all’enorme quantità di figure criminose che connota ormai l’immensa (neppure precisamente ‘quantificabile’) parte speciale del diritto penale.

Anche e proprio per il suo ‘gigantismo’ può oggi essere ribadito che, in effetti, la parte speciale rappresenta il ‘vero e proprio diritto penale[4]: tutt’altro che minimo; tutt’altro che extrema ratio.

E indubbiamente la continua proliferazione di reati costituisce importante fattore – assieme ad altri – non solo di perdita di ‘legalità’, ma di crescita abnorme del numero dei procedimenti penali.

Risulta, altresì, agevole notare come l’ampliamento del diritto penale derivi anche dagli esiti cui si perviene nella fase applicativa.

Se davvero il primato della libertà costituisce la regola, mentre il divieto penalmente sanzionato rappresenta l’eccezione, diviene difficile giustificare l’odierna dilatazione (anche) ‘interpretativa’ dell’intervento punitivo.

Perché di questo, anzitutto, si tratta: l’attività interpretativa meritevole di riflessione è proprio quella che (in sede giurisprudenziale) comunque ‘estende’ il diritto penale legislativo[5].

Sia che si operi surrettiziamente mediante il ricorso (vietato) all’analogia, sia che si operi tramite la (consentita) interpretazione estensiva, il risultato applicativo spesso consiste, appunto, nell’ampliamento delle possibilità di punizione offerte dal tipo normativo di volta in volta considerato.

Si fa ormai riferimento ad “un nuovo idolo: il diritto vivente[6].

Vecchie istanze riduzioniste del diritto penale vengono, così, contraddette assieme al principio di precisione che deve connotare la norma incriminatrice. Sembra essere davvero fuori tempo la (condivisibile) osservazione che rinviene nel principio di certezza del diritto anche l’esigenza che il sistema penale sia preciso e determinato nel suo complesso; che l’area dell’illecito penale sia contenuta e ristretta entro un numero davvero limitato di fatti legislativamente descritti e rappresentati. Invero, quanto più si infoltisce la gamma dei reati anche in chiave interpretativa, tanto meno il cittadino è posto in condizione di discernere il lecito dal penalmente illecito, nonché la stessa tipologia dei comportamenti puniti ovvero – secondo un nuovo, emergente ‘canone’ – di prospettarsi la ‘prevedibilità’ di un successivo mutamento interpretativo giurisprudenziale di tipo punitivo[7].

Del tutto inattuale e comunque scarsamente significativa risulta, per converso, l’interpretazione analogica (senz’altro legittima) ovvero ‘estensiva’ nella prospettiva del favor rei: oggi al diritto penale si richiede, infatti, sempre maggiore punizione e ciò impone che siano bandite (deplorevoli) soluzioni ermeneutiche di ‘depenalizzazione’.

Il fenomeno costituito dall’interventismo penale applicativo trova un fondamento anche nella ‘incertezza’ dei nuovi tipi legislativi e nella (sempre più) evidente ‘precarietà’ della norma incriminatrice.

Si osserva, infatti, che l’idea illuministica della legge come norma stabile, della legge come codificazione dei valori e dei principi sarebbe decisamente tramontata. La norma, anche penale, nasce come un manufatto da elaborare, da verificare: diventa sì vigente, ma viene poi affidata alla realtà pratica per il suo rodaggio. La legge nasce già come sperimentale e si affida all’inevitabile verifica pratica[8].

Risulta, così, davvero molto delicato il rapporto tra legge (penale) e magistrato/interprete (penale) in quanto non è solo il giudice, ma – per vero – sempre più spesso il pubblico ministero e la stessa polizia giudiziaria che segnalano, già nella fase, divenuta ormai cruciale, delle indagini preliminari, i nuovi possibili canoni interpretativi ritenuti adeguati al comune sentire che non si vede trasfuso (presente) nella norma incriminatrice di volta in volta considerata.

Da ultimo si assiste, altresì, proprio ad una nuova rincorsa verso la pena carceraria (quale possibile – se non certo – ‘derivato’ di interventi legislativi aventi ad oggetto spesso soltanto il trattamento sanzionatorio).

Un diffuso incremento delle pene edittali connota, infatti, le soluzioni oggi prescelte dalla ‘politica’ sempre bisognosa di ottenere (già ovvero soltanto) per questa via consenso ‘popolare’. E i nuovi (più elevati) moduli sanzionatori provocano necessariamente ulteriori applicazioni di pena carceraria: sia quale custodia preventiva, sia quale pena definitiva.

Altro che progetti ovvero proposte di eliminazione della pena carceraria perpetua (ergastolo); altro che progetti (basta ricordare il cd. ‘Progetto Grosso’ del 2000) di riduzione dei ‘massimi’ delle pene detentive così come delineati nel codice Rocco: sistema normativo evidentemente ritenuto oggi financo ‘mite’ nelle commisurazioni edittali della pena tanto da imporre – nei più diversi settori oggetto di recenti riforme legislative – soluzioni ‘in pejus’ connotate, appunto, dall’innalzamento dei limiti (minimi e massimi) del trattamento sanzionatorio.

Soprattutto negli ultimi anni il legislatore è intervenuto in modo apertamente strumentale a contingenti declinazioni politiche della questione criminale.

Si è parlato, di recente, di vere e proprie ‘pene elettorali’ riferendosi all’impronta sempre maggiormente punitiva che ha connotato e contraddistingue i manifesti programmatici dei più diversi schieramenti politici, messi continuamente alla prova dalle ricorrenti tornate elettorali: e la materia penale costituisce ormai uno dei migliori prodotti da offrire al pubblico al momento del voto.

In ambito dogmatico si parla a ragione di un diritto penale che ormai vive ‘un rapporto nevrotico con il sistema politico’: ciò in quanto l’impiego del diritto penale viene, appunto, ormai sempre modellato in chiave ‘populista’ per ottenere facile consenso, piuttosto che essere ispirato ad istanze razionali di politica criminale.

Soluzioni orientate ad una maggiore punizione contraddistinguono ormai anche il diritto penale applicato nel momento di commisurazione della pena.

La ‘pena concreta’ ha costituito, invero, proprio l’ultimo bastione della resistenza giurisprudenziale alle spinte irrazionali mosse dall’allarme sociale (indotto o reale) rispetto ai più diversi illeciti. Forse condizionata anche dalla dottrina penalistica e dagli studi criminologici, che non hanno mai mancato di segnalare limiti e vizi (anche molto gravi) della pena detentiva, la magistratura è stata spesso abbastanza cauta nella determinazione della misura dell’effettiva sanzione da applicare.

È stata abbastanza cauta, per l’appunto.

Credo, purtroppo, che l’avvitamento repressivo si stia producendo oggi anche in ordine all’entità concreta della pena (di volta in volta) inflitta. Si criticano, e persino si processano, i cattivi “punitori” (cioè i magistrati ‘responsabili’ di non aver inflitto pene severe), di modo che risulta sempre più difficile (giuridicamente/politicamente) anche per il giudice seguire soluzioni dettate da un approccio razionale o scientifico divenendo, invece, sempre più ‘facile’ assecondare le più diverse istanze di maggiore severità punitiva.

E così si perviene ad un singolare esito neppure immaginabile nella stagione ‘progressista’ del diritto penale orientato ai valori e ai principi costituzionali. 

Lungi dal muoversi nella prospettiva del diritto penale minimo (ovvero – se si vuole – della riserva di codice), l’attuale fase ben si può definire come quella del ‘diritto penale massimo’ capace di raggiungere sempre nuovi traguardi come quelli rappresentati – da ultimo – dall’incremento dei termini di prescrizione (con buona pace del principio costituzionale e convenzionale di ragionevole durata del processo) e dall’estensione delle misure di prevenzione, emblematico settore espressione – da sempre – del cedimento di ogni pur minima garanzia.

Ma sono le generali e fondamentali ‘stutture’[9] del diritto penale ad essere completamente ribaltate.

Dal ‘diritto penale minimo’ si è appunto, giunti al ‘diritto penale massimo[10]; dalla tipicità/tassatività/legalità del fatto previsto come reato alla norma ‘elastica’ da affidare al diritto penale giurisprudenziale; dalla predeterminazione del fatto previsto come reato alla (mera) ‘prevedibilità’ del fatto-reato; dalla presunzione di innocenza alla ‘presunzione’ di colpevolezza; dall’in dubio pro reo all’in dubio pro repubblica’; dalla pena proporzionale alla pena fissa e alla sua inevitabile ‘certezza’; dalla pena non perpetua a quella (perpetua) ‘fino alla morte’; dalla funzione rieducativa della pena a quella soltanto afflittiva in carcere, luogo di marcescenza; dalla colpevolezza alla ‘responsabilità senza colpa’; dalle cause di estinzione del reato a nessuna estinzione per amnistia o prescrizione, ma soltanto ‘per morte del reo’; dalle leggi di depenalizzazione a quelle di incremento del numero dei reati.

Le odierne politiche penali populiste non si preoccupano di eventuali garanzie per il reo (altro che diritto penale come ‘Magna Charta del reo’ come voleva von Liszt[11]), ma tendono proprio a sacralizzare la vittima. Lo stato non si sostituisce più alle vittime, ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi ‘complicità’ sospetta con il reo; mentre proprio il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico è avvenuto proprio attraverso la cd. ‘neutralizzazione’ della vittima: anzi “senza la neutralizzazione della vittima non vi sarebbe nemmeno lo stato moderno[12].

Ma, conclusivamente, occorre senz’altro rimarcare il totale abbandono di ogni prospettiva di (assolutamente necessaria e sempre attuata) lettura ‘integrata’ dal diritto penale, coniugato, appunto, con gli altri saperi (anzitutto quelli criminologici e sociologici) che trattano la ‘questione criminale’.

Ne deriva che la criminalità “cessa sempre più di essere oggetto di conoscenza in una prospettiva causale e quindi, alla fine, cessa di essere oggetto di conoscenza tout court (…) dalla criminalità quindi non ci si difende sconfiggendone le cause, per la semplice ragione che l’azione criminale non è l’effetto di alcuna causa in particolare, personale o sociale che sia. Dalla criminalità – come realtà nociva – ci si difende (…) neutralizzando selettivamente i «nemici»”.

È indubitabile che l’ideologia della neutralizzazione selettiva, e soprattutto preventiva, sia costretta sovente a fare ricorso ad “una lettura del criminale come «altro», come assolutamente ‘diverso’ (…) nei cui confronti viene bandito sia ogni sentimento di comprensione, sia ogni scrupolo garantista nella repressione (…) accanto quindi ad una ‘criminologia della vita quotidiana’, si sviluppa anche una ‘criminologia dell’altro’, un discorso sul criminale come nemico la cui pericolosità non può essere in altro modo ‘gestita’ se non attraverso la sua neutralizzazione; e per metterlo nella condizione materiale di non nuocere, alla fin fine non necessita neppure conoscerlo più di tanto”.

E, in ultima istanza, il passaggio nella politica criminale da un modello inclusivo ad uno esclusivo è segnato dal negare progressivamente alla criminalità la dimensione stessa di “questione”: “nulla di problematico, quindi, che debba essere studiato, capito ed eventualmente risolto aggredendone la cause”. Non esiste infatti “alterità possibile alla normalità del presente disordine sociale. Accettato aprioristicamente questo ultimo, la criminalità è solo un inevitabile costo sociale che va combattuto ‘militarmente’”.

E, infatti, l’efficacia delle politica criminale si misura oramai soltanto “attraverso veri e propri bollettini di guerra: quanti nemici sono stati neutralizzati (vedi l’enfasi sui tassi di carcerizzazione); quanti soldati posso mettere in campo e quanto mi costano (vedi enfasi sui costi della giustizia penale e forze di polizia); quali e quanti territori sociali e urbani ho liberato o sono stati dal nemico occupati (vedi enfasi sui tassi di delittuosità diminuiti o aumentati nella loro disaggregazione territoriale)”.

Una singolare criminologia, che “non ha più come referente organizzativo del proprio statuto di sapere, i devianti e i criminali, ma l’amministrazione – sovente solo contabile – di uno stato di belligeranza permanente[13]”. Un singolare diritto penale ‘massimo’ che diventa (anche) ‘totale’ perché “ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua” e, soprattutto, perché “è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e a ogni male sociale[14].


[1] Si tratta di espressioni ormai ‘comuni’ nell’odierno dibattito.

[2] Vedi, appunto, il testo della Sua lezione, I compiti futuri della scienza penalistica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1 e segg.

[3] In questi termini, Roxin, op. cit., p. 7.

[4] Tale definizione risale – com’è noto – a Pisapia, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Milano, 1948 ed è stata, poi, ripresa e commentata da autorevole dottrina (vedi, per tutti, Flora, Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, vol. 1, Padova, 1998; Pulitanò, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino, 2010; Cadoppi-Veneziani, Elementi di diritto penale, Parte speciale, IV ed., Padova, 2012).

[5] Anche recentemente si vuol segnalare che “la giurisprudenza ha proseguito ed anzi ha ulteriormente sviluppato quella caratteristica ormai definita gius-creativa” e “ha ulteriormente contribuito alla crisi della legalità penale” (così Manna, Il lato oscuro del diritto penale, Pisa, 2017, p. 37 con richiami della letteratura in argomento).

[6] In questi (del tutto condivisibili) termini, Insolera, Dall’imprevedibilità del diritto all’imprevedibilità del giudizio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 2001.

[7] Giustamente si osserva che “il richiamo al testo come nodo cruciale dell’interpretazione e dell’applicazione si è dissolto. Rileva la prevedibilità della decisione giudiziale sul caso concreto, e i parametri a disposizione del cittadino per prevedere quale sarà la decisione giudiziale circa la propria condotta non si esauriscono certo nel testo, ma sono eterogenei e comprendono i precedenti giurisprudenziali, il contesto normativo anche non legislativo, e perfino il sentire sociale del momento storico” (così Sgubbi, Osservando oggi il diritto penale: brevi riflessioni, in Scritti in onore di Luigi Stortoni, Bologna, 2016, p. 84). In argomento vedi, altresì, diffusamente Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale. in AA.VV., La crisi della legalità. Il sistema vivente ‘delle fonti penali’, Napoli, 2016, p. 213 e seguenti.

[8] In argomento si rinvia ai puntuali rilievi di Sgubbi, op. cit., p. 83.

[9] Penso, tra l’altro, a quelle recentemente delineate da Fiorella, Le strutture del diritto penale. Questioni fondamentali di parte generale, Torino, 2018.

[10] Mi permetto, a titolo meramente esemplificativo di rinviare al mio, Il ‘diritto penale massimo’ tra incremento dei tipi punitivi e ‘addizioni’ giurisprudenziali, in (a cura di) Cadoppi, Cassazione e legalità penale, Roma, 2017, p. 311 e segg.

[11] Principio opportunamente richiamato, da ultimo, da Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale, VIII ed., Milano, 2019, p. 8.

[12] Così Hassemer, Perché punire è necessario, Bologna, 2012, p. 233.

[13] Nei termini, così netti ed efficaci, riportati nel testo si esprime Pavarini, Carcere e fabbrica, Postfazione Bologna, 2018, p. 328-330 (passim).

[14] Così, da ultimo, Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019, p. 23.