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“DIECI BRACCIA DI DISTANZA”: FRANCESCO CARRARA E LA DISTANZA DAL PROCESSO – DI LORENZO ZILLETTI

“DIECI BRACCIA DI DISTANZA”: FRANCESCO CARRARA E LA DISTANZA DAL PROCESSO – DI LORENZO ZILLETTI

di Lorenzo Zilletti

Diciamocelo apertamente: questo maledetto virus, oltre alla terribile scia di morti e malati che sta seminando, rischia di coronare un sogno. Si culla da tempo, in qualche laboratorio giudiziario o legislativo, l’idea di tenere lontano l’imputato dal suo processo. E con lui, il sodale difensore, reo di rallentare con la propria opera il virtuoso corso, dall’inconfutabile verità delle indagini, verso la consacrazione dell’attesa condanna.  Agitata già con veemenza da Orlando, la Durlindana del processo a distanza potrebbe dilagare nel rito penale, profittando delle minorate difese cagionate dalla pandemia. L’emergenza di oggi, trasformarsi nella pigra abitudine di domani. I pericoli per la salute possono giustificare sacrifici limitati e temporanei di diritti, ma una volta che i primi siano auspicabilmente cessati, si impone il ripristino della normale dialettica processuale. La distanza non garantisce processi giusti e chi ne sottovaluta l’insidia, confidando nelle meraviglie della tecnologia o sminuendo l’importanza della compresenza fisica di tutti i protagonisti del rito (giudici, parti, testimoni, ecc.), volga lo sguardo all’indietro: nelle pagine del Maestro lucchese sono contenute tutte le risposte.

Si trattava di una questione “vitale”, che toccava “il diritto fondamentale”: la comunicazione tra patrono e assistito, durante il dibattimento, sì che il primo “faccia tale o tal’altra interrogazione ad un teste, o chieda tale o tal’altra cosa alla Corte”.

Esisteva o no il diritto dell’avvocato ( “e direi meglio il dovere perché da niun’altri che dall’accusato può il difensore sperare instruzioni e chiarezze sui fatti e sulle persone dei testimoni”) d’interpellare il proprio assistito “per sapere se il teste è o no veridico su ciò che ha detto; se vi sono circostanze in questo detto le quali abbisognino di chiarimento; se vi sono contestazioni da fare o altre domande da inoltrare; e via così discorrendo?

Nessuno doveva sognarsi di disattendere “il diritto di libera comunicazione [che] è parte integrante della difesa”.

Eppure, qualche provvedimento, “a prima vista insignificante e semplicemente materiale”, rendeva “meno liberi e più angustiati” i difensori, nel momento “dello esercizio del sacro ministero alla pubblica udienza”.  Che cosa “inceppava” la difesa, “nell’ora più interessante della sua azione”?

Nientemeno che la distribuzione delle parti nella sala di udienza: collocato il patrono -per prassi invalsa nelle corti d’assise della Toscana- a fisica distanza dagli assistiti, dinanzi alla “necessità urgentissima di chiedere al giudicabile una notizia”, sorta “all’improvviso per qualche circostanza narrata dal testimone”, il legale era costretto ad “alzarsi, traversare la sala per accostarsi allo accusato ed averne ciò che desidera”.

A sua volta, “il giudicabile”, se voleva “suggerire una qualche interrogazione al patrono”, doveva chiamarlo a sé e “obbligarlo una seconda volta a traversare la sala”.

Questo fatto “urta le convenienze”, perché “fa senso il vedere quei movimenti mentre il Presidente sta interrogando un testimone”. I difensori venivano, dunque, onerati di fare istanza “di potersi alzare e accostarsi allo stallo dei rei per qualunque breve parola” che volessero scambiarsi tra loro.

La conseguenza era che gli imputati, pur presenti in udienza, venivano figuratamente (“in certo modo”) “ricondotti in una segreta, dove il patrono non può accedere senza licenza dei superiori”.

Non facendo istanza, l’avvocato sarebbe incorso “nelle solite reprimende” del giudicante.

Un sistema ingiusto e irrazionale: perché se il Presidente negava il permesso “nasce una disputa che disturba il corso della istruzione; se invece l’accorda è necessità logica che … sospenda l’interrogatorio, e stia inerte a disposizione del giudicabile e del patrono. Né d’altronde si può pretendere che il patrono e il giudicabile aspettino la fine dell’esame del testimone per ottenere o dare quella dilucidazione la quale può essere urgentissima, e che ritardata costringerà in sostanza … a ricominciare l’esame”.

L’idea, di certi Presidenti, che i difensori dovessero aspettare il termine dell’interrogatorio per chiedere chiarimenti, anziché farlo “nel momento opportuno quando appunto il testimone ha narrato la circostanza che bisogna chiarire”, era nient’altro che “un concetto autocratico”.

Insomma, “una parola scambiata fra giudicabile e patrono senza muoversi dal loro posto supplisce al bisogno senza nessuna interruzione o disturbo. Ma questa parola è impossibile scambiarla se mi avete posto a dieci braccia di distanza dal mio cliente”.

Correva l’anno 1877[1], ma Francesco Carrara aveva già capito tutto del processo penale.

Di qualsiasi processo penale. E come “piccolissime cause producono spesso effetti grandissimi”.


[1] F. CARRARA, La legge è uguale per tutti, in Progresso e regresso del giure penale nel nuovo Regno d’Italia, vol. IV, che costituisce il vol. VII degli Opuscoli di diritto criminale, Prato, tip. Giachetti, 1880, p. 69 e s.