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“EFFETTO DOMINO” – DI FRANCESCO PETRELLI

“EFFETTO DOMINO” – DI FRANCESCO PETRELLI

L’articolo del Direttore Francesco Petrelli, pubblicato oggi su Il Riformista.

PETRELLI 27.05.20 IL RIFORMISTA.PDF

Potremmo parlare di “questione morale” se la morale c’entrasse qualcosa. Ma se per definire il contesto dovessimo scegliere fra l’iconico “è la corrente bellezza” e il più prosaico “effetto domino” che da Roma in giù governa le nomine dei capi delle procure, propenderei per quest’ultimo. Non di questione morale si tratta infatti, ma di regole fisiche che reggono il governo della magistratura italiana. Non degli effetti malsani di un correntizio “familismo amorale” ma degli inevitabili effetti di una mancata riforma ordinamentale e costituzionale della magistratura. Capita, infatti, che l’affaire giudiziario che ha coinvolto esponenti della politica e della magistratura alle prese con le scelte dirigenziali del CSM, ha mostrato le vere sinapsi che collegano l’intera rete di potere della magistratura dentro e fuori dai gangli del suo organo “autonomo” di governo. Ci ha svelato quella cosmogonia estesa e impressionante del potere giudiziario che spazza via l’ipocrita versione secondo la quale quella, venuta ed emersione sarebbe   solo l’esuberanza di singoli personaggi che si siano prestati a manovre esondanti la necessaria sobrietà del ruolo e la rituale compostezza istituzionale.

Non vi è dubbio che l’ordinamento giudiziario repubblicano, ereditato dall’esperienza di uno Stato autoritario, contrasta con le esigenze della modernità e della democrazia e risulta incompatibile con il nostro modello processuale accusatorio, del quale ha finito infatti per trasfigurare valori, natura e istituti. Quell’ordinamento “unifunzionale”, nel quale pubblici ministeri e giudici, controllori e controllati, sono collocati all’interno di un unico corpo, condividendo avanzamenti di carriere e potere disciplinare, nel cui coacervo di interessi le correnti hanno del tutto trasfigurato la loro originaria vocazione, ha mostrato definitivamente il suo limite collassando e implodendo in maniera tanto drammatica quanto prevedibile.

Ed è proprio quell’intreccio ordinamentale che ha prodotto l’esponenziale implementazione mediatica e politica delle Procure, cui non è corrisposto in alcun modo un potenziamento della figura del giudice che, al contrario, è stata progressivamente indebolita e delegittimata.  Quel che ne discende è che il “controllato” ha preso il sopravvento sulla figura del “controllore” innescando una serie di pericolosissimi slittamenti del sistema. Uno squilibrio che ha conferito ai capi delle Procure un potere di azione e di governo tanto incontrollato ed incontrollabile, così che la nomina del procuratore capo di Roma – come diligentemente spiega il dott. Palamara a Liana Milella – determina sulle altre nomine un inevitabile “effetto domino”.

Ne discende un’inevitabile bancarotta non solo del principio di separazione dei poteri, dell’indipendenza interna ed esterna della magistratura, ma anche della trasparenza meritocratica di nomine e carriere. Non, dunque, singoli ed occasionali atti di personale sviamento, ma di un intreccio di abitudini e di comportamenti evidentemente indotti dalle stesse regole ordinamentali e canalizzati dallo strapotere delle correnti della magistratura, che riguardano l’intero sistema giudiziario, e i suoi rapporti con la politica e con la stessa informazione, che di quel “potere” avrebbe dovuto essere il cane da guardia. Un intreccio che riguarda, dunque, in maniera diretta la credibilità del nostro stesso sistema democratico e dei meccanismi di garanzia propri del check and balance.

Il problema non è dunque quello che riguarda il singolo magistrato e le sue specifiche condotte più o meno eterodosse, ma è quello di realizzare al più presto una nuova collocazione della magistratura nell’ambito di una riforma ordinamentale che finalmente la modernizzi, adeguandola alle esigenza di una più matura democrazia, convincendoci che è possibile modificare gli equilibri politici della magistratura senza indebolirla, aumentandone invece al tempo stesso l’autonomia e l’indipendenza, e fondandone dunque una nuova legittimazione.

La separazione delle carriere di magistratura giudicante e requirente, di giudici e di pubblici ministeri, con la creazione di due distinti CSM, si propone oggi come l’unica e necessaria soluzione della crisi e di elaborazione di un nuovo assetto ordinamentale. Una riforma che sottraendo gli uffici delle Procure alle inevitabili aspettative “esterne” della politica, sottrae il giudice ai condizionamenti “interni” dei PM. Un riequilibrio che nessuna altra modifica dell’attuale assetto del CSM potrebbe garantire.

Si tratta di una riforma di iniziativa popolare già all’esame del Parlamento, una proposta elaborata dall’Unione delle Camere Penali raccogliendo migliaia di firme di cittadini e che si pone ora come unico e ineludibile punto di convergenza politico e culturale di chi nella crisi sistemica può cogliere l’opportunità di un vero cambiamento. Una riforma capace di restituire respiro all’intero sistema della giurisdizione, che ha evidentemente bisogno di visioni ampie e coraggiose, di trasparenza e di condivisione, e non di rimedi escogitati negli spazi chiusi di un ministero nella vana speranza di una qualche impossibile “autoriforma”.