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GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 2/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 2/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU 2-2020.PDF

A cura dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane

2/2020

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PAIXÃO MOREIRA SÁ FERNANDES C. PORTUGAL, SENTENZA 25 FEBBRAIO 2020, RIC. N. 78108/14

La Corte di Strasburgo ha rilevato la violazione dell’art. 6, § 1 CEDU per il caso di un ricorrente, avvocato, condannato, per la prima volta, in sede di appello.

La Corte ha rilevato l’iniquità del contraddittorio e la mancanza di imparzialità dell’organo giudicante.

In particolare, in sintesi, il fatto: il ricorrente, avvocato e cittadino portoghese di Lisbona, venne accusato e processato per violazione della privacy e aver prodotto una registrazione illegale. Nel 2006, infatti, il ricorrente si incontrò con un uomo d’affari, che tentò di corromperlo per influenzare l’operato del fratello, all’interno del consiglio comunale di Lisbona. Il ricorrente, in tale sede, si premunì di registratore e trasmise il contenuto alla procura. La stessa nel 2012 condannò l’imprenditore per il delitto di corruzione. Nel mentre, anche il ricorrente finì sotto accusa per la registrazione illegale: in primo grado venne assolto, ma in sede di appello, senza assunzione di nuove prove, venne condannato. Nel 2014, il ricorrente presentò quindi ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando di non essere stato sottoposto ad un processo equo in fase di gravame e per essere stato condannato senza nuove prove, né elementi nuovi rispetto al primo grado; lamentava anche un’iniquità della decisione per mancanza di imparzialità da parte dell’organo giudicante.

La Corte EDU ha ritenuto sussistere una piena violazione dell’art. 6, § 1 CEDU, in quanto in primo grado il ricorrente era stato sentito e la prova si era formata sulla base di una testimonianza e dell’assunzione diretta della prova; in secondo grado, invece, pur mutando il verdetto, la Corte non ha proceduto alla assunzione diretta di alcuna prova. Il ricorso è stato, inoltre, accolto anche rispetto alla denunciata mancanza di imparzialità del Collegio, ritenendo che le precedenti dichiarazioni del ricorrente sulla stampa avessero creato un clima ostile per una decisione imparziale da parte dei giudici.

La Corte ha condannato, quindi, lo Stato al pagamento di 3.000 euro per danni non patrimoniali e 1.632 euro per le spese.

Per leggere la sentenza, clicca qui.

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, HAFEEZ C. REGNO UNITO, RICORSO N. 14198/20

Il 24 marzo 2020 è stato comunicato alle parti il ricorso di un sessantenne con diverse patologie quali diabete ed asma, che è stato oggetto di richiesta di estradizione verso gli Stati Uniti per rispondere di varie accuse di traffico internazionale di stupefacenti. Il Regno Unito ha accolto la richiesta estradizionale, ragion per cui l’interessato ha interposto ricorso a Strasburgo lamentando la violazione dell’art. 3 Cedu. In particolare, dai quesiti rivolti alle parti, risulta come la Corte intenda approfondire il caso sotto il duplice profilo del rischio concreto – qualora fosse eseguita la già concessa estradizione -che il ricorrente sia condannato ad una pena perpetua senza possibilità di riesame e possa essere esposto a condizioni di detenzione inumane e degradanti al suo arrivo, anche in considerazione della pandemia da coronavirus.

Per una visione della comunicazione con i quesiti alle parti, clicca qui.

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SENTENZA 19 MARZO 2020, FABRIS E PARZIALE c. ITALIA, RICORSO N. 41603/13

Con tale sentenza la Corte di Strasburgo ha dichiarato all’unanimità la non violazione dell’art. 2 CEDU, sotto entrambi i profili, sostanziale e procedurale.

Il caso riguardava la morte di un detenuto, tossicodipendente con disturbi fisici e mentali – che già in precedenza era stato sorpreso a “sniffare” gas – deceduto dopo aver deliberatamente inalato il contenuto delle bombolette fornite ai detenuti per cucinare.

Il procedimento penale per omicidio colposo era stato archiviato per intervenuta prescrizione.

La Corte ha deciso per l’insussistenza della violazione dell’obbligo sostanziale di proteggere la vita del congiunto dei ricorrenti poiché non si è accertato che le autorità penitenziarie italiane avessero saputo o avrebbero dovuto sapere che c’era un pericolo reale e immediato per la vita del defunto ovvero, comunque, che non avessero posto in essere quelle misure che ragionevolmente era possibile attendersi che dovessero essere assunte: il detenuto era stato costantemente sorvegliato dal personale medico del carcere, tempestivamente sottoposto a cura farmacologica di disintossicazione e a terapia psicologica, non aveva mostrato segni di disagio fisico o mentale nei giorni precedenti alla sua morte e i suoi livelli di inalazione di gas della bomboletta, che erano sempre stati paragonabili a quello degli altri prigionieri, non erano aumentati in quel periodo.

La Corte, inoltre, ha valutato come non sia ascrivibile allo Stato italiano alcuna responsabilità nemmeno in considerazione dell’obbligo procedurale di condurre un’effettiva indagine sulla morte del detenuto. Le autorità inquirenti italiane, infatti, avevano operato con la necessaria diligenza e i ricorrenti erano stati adeguatamente coinvolti nelle indagini, non essendo sufficienti i ritardi a determinare la violazione della Convenzione.

Per leggere la sentenza, clicca qui.

Per la visione della traduzione in italiano del Ministero della Giustizia, clicca qui.

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SENTENZA 31 MARZO 2020, ANDREEA-MARUSIA DUMITRU c. ROMANIA, RICORSO N. 9637/16

La Corte di Strasburgo nel caso di specie si è occupata dei limiti dell’uso della forza letale da parte delle autorità pubbliche e delle forze di polizia, dichiarando all’unanimità (nel caso dell’uccisione di una donna, da parte di un ufficiale di polizia) la violazione, sostanziale e procedurale dell’art. 2 CEDU.

Nei fatti: la sig.ra Andreaa-Marusia Dumitru, cittadina rumena, ai tempi dei fatti, aveva 15 anni; quel giorno era in compagnia della madre, con cui stavano attraversando la stazione ferroviaria di Bujoru, quando la madre venne raggiunta da un colpo di pistola. Si trattava di un’azione della polizia intenta a disperdere un gruppo di rom, nei pressi della stazione. Secondo le ricostruzioni del Governo e della polizia, anche le due signore facevano parte del gruppo criminale dedito al furto di metalli. Le stesse in seguito vennero anche indagate per il furto; ma poi l’accusa venne archiviata. A sua volta, la donna accusò l’ufficiale di polizia di tentato omicidio, senza però ottenere alcun risultato.

La Corte ha ritenuto sussistere la violazione dell’art. 2 CEDU ricordando come, già in precedenti occasioni, la Romania fosse stata segnalata per una legislazione sulle armi non conforme agli standard europei (così: Corte EDU, Soare e altri c. Romania, sent. 22 febbraio 2011; Corte EDU, Gheorghe Cobzaru c. Romania, sent. 25 giugno 2013). All’epoca dei fatti, inoltre, la Romania non aveva una legislazione per regolamentare l’uso delle armi da fuoco da parte della polizia. Durante quel periodo, in particolare, le operazioni di polizia intorno alle stazioni ferroviarie erano note, tanto che la zona era controllata, di tal che la Corte ha reputato che le autorità rumene avessero omesso di adoperarsi per ridurre l’uso delle armi, anche a tutela delle vite umane delle persone coinvolte. La Corte EDU ha ravvisato, nello specifico, anche una violazione di ordine processuale, per l’assenza di indagini effettive sui danni subiti dalla ricorrente.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SENTENZA, 2 APRILE 2020 UKHALASHVILI AND OTHERS C. GEORGIA, RICORSO NN. 8938/07 41891/07

Con tale sentenza, la Corte edu ha accolto il ricorso dei ricorrenti, familiari di cittadini georgiani morti durante un’operazione anti-sommossa condotta dalle autorità il 27 marzo 2006: all’unanimità si è rilevata la violazione dell’art. 2 CEDU, per mancanza di indagini effettive circa l’uso della forza da parte dello Stato sui cittadini (violazione dell’art. 2 CEDU, procedurale).

Il ricorso è stato presentato dai familiari di tre detenuti reclusi presso il carcere di Tbilisi, i quali persero la vita durante un’operazione delle forze dell’ordine volta a smantellare i collegamenti tra esponenti della criminalità organizzata all’interno dell’istituto di pena: sulla base di tali notizie, in carcere iniziarono i primi disordini. Durante le rivolte in carcere, 7 detenuti persero la vita, mentre 22 rimasero feriti.

I familiari dei ricorrenti riuscirono ad ottenere documentazione sanitaria dall’amministrazione penitenziaria da cui risultava che i detenuti erano morti per colpi di arma da fuoco.

Secondo la Corte edu, lo Stato è da ritenersi responsabile, in primo luogo, per la carenza di indagini effettive circa l’uso di armi da fuoco da parte della polizia all’interno del carcere: infatti, le autorità interne aprirono ufficialmente delle inchieste solamente nel giugno 2006, troppo tardi tenuto conto della gravità della situazione; in un primo tempo, poi, le stesse autorità si rifiutarono di aprire un’indagine, che comunque venne condotta dalla stessa autorità responsabile degli agenti.

Ma non solo. Secondo la Corte di Strasburgo, oltre che il profilo procedurale, è stato violato anche il profilo sostanziale dell’art. 2 CEDU: sussistono infatti numerosi documenti, anche internazionali che provano come diversi detenuti subirono, in quel contesto, maltrattamenti e trattamenti disumani.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, quindi, ha condannato lo Stato al pagamento di 40.000 euro, ai primi due ricorrenti, e 32.000 euro al terzo, a titolo di danno non patrimoniale.

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