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IL COMING OUT  DELLA CASSAZIONE:  IL PROCESSO ACCUSATORIO A PARTI DISUGUALI – DI BARTOLOMEO ROMANO

IL COMING OUT  DELLA CASSAZIONE: IL PROCESSO ACCUSATORIO A PARTI DISUGUALI – DI BARTOLOMEO ROMANO

ROMANO – IL COMING OUT DELLA CASSAZIONE- IL PROCESSO ACCUSATORIO A PARTI DISUGUALi.PDF

di Bartolomeo Romano*

Ha suscitato un certo dibattito la sentenza Cass. Sez. III, 18 febbraio 2020, n. 16458, sulla maggiore “credibilità” del consulente della pubblica accusa rispetto a quello della difesa. La piena attuazione del processo accusatorio ed un serio ed effettivo rispetto dell’art. 111 della Costituzione (da tanti invocata, ma non seriamente attuata) non possono che passare da una vera parità fra le parti, garantita da un giudice terzo ed imparziale. Perché in futuro non si debbano più leggere sentenze come quella qui richiamata.

 

In tempi di coming out, leggere Cass. Sez. III, 18 febbraio 2020, n. 16458, depositata il 29 maggio 2020, ma divenuta “famosa” in questi giorni[1], è quasi un piacere, sia pure agrodolce.

Sono molti anni che noi avvocati ci accorgiamo, nelle aule (che, tenacemente, chiamiamo) di giustizia, che i giudici hanno un occhio più benevolo nei confronti dei consulenti tecnici del pubblico ministero, rispetto agli omologhi consulenti della difesa[2].

Sono molti anni che parte della dottrina, penalistica[3] e processualpenalistica[4], cerca di dimostrare che il processo di stampo accusatorio impone una sostanziale parità tra le diverse parti.

Sono molti anni (a partire dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, fortemente voluta dall’UCPI) che l’art. 111 della Costituzione scolpisce, con secca precisione, che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge»; che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a giudice terzo e imparziale»; e, persino, che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova».

Ora, (purtroppo, ma) finalmente, dopo tutti questi anni, e tutto quanto è stato scritto e prodotto, anche in termini di riforme legislative, la Cassazione rende esplicito ciò che probabilmente aveva pensato da molto tempo (se non da sempre), a prescindere da tutto: le parti, anche nel processo (tendenzialmente…) accusatorio vigente dal 1989, non sono uguali, né sono poste ad un livello paritetico.

Già la partenza dell’assunto motivazionale della sentenza della Terza Sezione della Cassazione è significativa, laddove, nel “ritenuto in fatto”, ci si riferisce alla «perizia» (sconfortantemente, proprio così!) «disposta dal PM». Ma dove la Cassazione raggiunge vertici argomentativi, absit iniuria verbis, da processo farsa – dimentichi non solo dell’entrata in vigore di quello che ancora qualcuno di noi chiama il “nuovo” codice di procedura penale (evidentemente, non tanto a torto, se sembra ancora essere ignorato…), ma soprattutto dell’art. 111 Cost. – è nel (sic!) “considerato in diritto”.

Considerano, infatti, i giudici di Cassazione, sulla scia di un richiamato precedente (stranamente, ma forse per pruderie, non massimato: Sez. II, 24 settembre 2014, n. 42937) – cadendo, però, in una contraddizione persino terminologica – che il «ruolo precipuo rivestito dall’organo dell’accusa» e il suo «diritto/dovere di ricercare anche le prove a favore dell’indagato, come stabilito dall’art. 358 c.p.p.», porrebbero lo stesso su una sorta di piedistallo. Dalla cui altezza, a cascata, per il ruolo di ausiliario dell’organo che lo ha nominato, discenderebbe la qualifica di pubblico ufficiale del consulente nominato dal PM nel corso delle indagini preliminari.

In un crescendo rossiniano, la Corte, dopo avere (penso, malvolentieri, visto il tenore della sentenza) riconosciuto che l’elaborato del consulente tecnico del pubblico ministero non può «essere equiparato alla perizia disposta dal giudice del dibattimento», afferma però che detto elaborato «è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale» (proprio così: “giurisdizionale”), «che perciò non corrisponde appieno a quella del consulente tecnico della parte privata». La conclusione, alla luce delle premesse, è scontata: «gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 cod. proc. pen. rivestono perciò, proprio in ragione della funzione ricoperta dal Pubblico Ministero che, sia pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte, una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio».

Ho voluto riportare per esteso, contrariamente alle mie abitudini, la motivazione della sentenza perché la “confessione” dei Giudici di Cassazione rende credibile (nel senso di corrispondente al vero) ciò che, invece, frutto di una mia parafrasi, sarebbe potuto risultare esito di una malevola interpretazione.

Alla luce delle loro stesse considerazioni, mi sembra di potere concludere che il coming out dei giudici della Cassazione rivela il reale pensiero di fondo: i p.m. e i loro consulenti abitano piani più alti dei difensori e dei loro consulenti.

Forse, la separazione delle carriere non è, da sola, la soluzione in grado di assicurare la parità delle parti davanti al giudice, perché «le buone riforme non basteranno, finché permarrà una cultura improntata alla disparità»[5].

Ed al riguardo, voglio qui sottolineare che considero da sempre l’art. 358 c.p.p. una delle norme peggiori dell’intero codice di procedura penale: una norma o perfettamente inutile o ipocritamente rassicurante.

È perfettamente inutile se si limita a chiarire che «il pubblico ministero deve presentare al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio» (art. 125 disp. att. c.p.p.). E ciò perché il p.m. deve valutare prudentemente quanto ha in mano per sostenere efficacemente l’accusa.

Ma la norma è ipocritamente rassicurante, ed anzi dannosa, se dipinge un p.m. che aiuta, sorregge e bilancia l’eventuale inadeguatezza difensiva: meglio un p.m. aggressivo, ma corretto, che un soccorritore ipotetico della parte avversa, cavallo di Troia per scardinare subdolamente il processo di parti, id est il processo accusatorio.

Occorre, allora, lavorare in profondità, per cambiare le norme e mutare le mentalità di tutti. La separazione delle carriere è il presupposto di una cultura improntata alla parità delle parti. E bene fa l’Unione delle Camere Penali a perseguire coerentemente, e con decisione, tale importante obiettivo.

La piena attuazione del processo accusatorio ed un serio ed effettivo rispetto dell’art. 111 della Costituzione (da tanti invocata, ma non seriamente attuata) non possono che passare da una vera parità fra le parti, garantita da un giudice terzo ed imparziale.

Perché in futuro non si debbano più leggere sentenze come quella qui richiamata, che, se hanno il pregio della chiarezza, hanno anche il grande difetto di percorrere strade incompatibili con un moderno Stato di diritto.

*Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Palermo

[1] Anche per qualche raro e meritorio eco nella stampa generalista: M. Malpica, Choc in Cassazione: “I periti dell’accusa devono avere priorità”, ne il Giornale.it, 4 ottobre 2020.

[2] E qui valgano le lucide riflessioni di G.D. Caiazza, Per la Cassazione valgono più i consulenti dell’accusa che della difesa? ne Il Dubbio, 11 ottobre 2020, e le caustiche considerazioni di L. Zilletti, Apologetica dell’incomparabile, in www.dirittodidifesa.eu, 13 ottobre 2020.

[3] Sia consentito il rinvio a B. Romano, La subornazione. Tra istigazione, corruzione e processo, Giuffrè, Milano, 1993, 81 ss.; Id., Delitti contro l’amministrazione della giustizia, 6ª ed., Giuffrè, Milano, 2016, 173 ss. In materia, è emblematica la complessa vicenda che, sul versante penalistico, ha visto, nonostante le mie ripetute (e, purtroppo, sostanzialmente isolate) prese di posizione contrarie, accostare il consulente tecnico del pubblico ministero al perito, piuttosto che al consulente tecnico della difesa, come invece da me suggerito. Tale ultima tesi era stata accolta dalle Sezioni unite della Cassazione, le quali hanno rimesso il caso alla Corte costituzionale, come da me espressamente suggerito: Cass. S.U., 27.6.2013, in Cass. pen., 2014, 452, ed ivi (462) note di B. Romano, L’istigazione nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero: Le sezioni unite investono la Corte costituzionale, e P. Bartolo, La ‘subornazione’ del consulente del pubblico ministero tra istigazione alla corruzione e intralcio alla giustizia, ivi (897) ed in www.penalecontemporaneo.it, 2 aprile 2014, con nota di G. Oss, Situazioni analoghe, pene differenti: le Sezioni unite chiedono l’intervento della Corte costituzionale. Qualche riflessione sulle discrasie dell’ordinamento penale e sul principio di ragionevolezza. Tale decisione fa séguito all’ordinanza della Sez. VI, 14.3.2013, in Cass. pen., 2013, 1313, preceduta (ivi, 1304) da un mio commento: B. Romano, Istigare un consulente tecnico del pubblico ministero a predisporre una falsa consulenza costituisce reato? Alle Sezioni unite vecchie certezze e nuovi dubbi. Tuttavia, la Corte ha dichiarato inammissibile la relativa questione: C. cost. 163/2014, in Cass. pen., 2014, 3222, seguìta (ivi, 3230) da mie considerazioni B. Romano, La Corte costituzionale e la “subornazione” nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero: ancora in nuce il processo di parti? ed in Giur. cost., 2014, 2602, con osservazioni di R.E. Kostoris, La pretesa vocazione testimoniale del consulente tecnico investigativo dell’accusa, tra codice, Costituzione e diritto europeo (ivi, 2614) e di M. Scoletta, La legalità ‘corrotta’: la punibilità della subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero tra analogia e manipolazione delle norme incriminatrici (ivi, 2621). A commento della sentenza, cfr. altresì L. Romano, Condotta allettatrice del consulente tecnico del p.m.: la Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione sollevata dalle Sezioni Unite, in www.penalecontemporaneo.it, 1° luglio 2014, e A. M. Piotto, Il consulente tecnico del pubblico ministero tra intralcio alla giustizia ed istigazione alla corruzione. La corte costituzionale “decide di non decidere”, in www.penalecontemporaneo.it, 26 settembre 2014. Infine, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno, con una decisione non convincente, sostenuto che l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza integri il delitto di cui all’art. 377 in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 373: Cass. S.U., 22.11.2014, in Cass. pen., 2015, 1022, ed ivi (1028) nota critica di B. Romano, Il consulente tecnico del pubblico ministero non è perito, ma testimone: nella (ri)lettura delle Sezioni unite il rito inquisitorio esce dalla porta, ma rientra dalla finestra.

[4] R.E. Kostoris, I consulenti tecnici nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1993, passim, ma soprattutto 319 ss. Proprio a commento di Cass. Sez. III, 18 febbraio 2020, n. 16458, cfr. R.E. Kostoris, Una grave mistificazione inquisitoria: la pretesa fede privilegiata del responso del consulente tecnico dell’accusa, in Sistema penale, 28 settembre 2020, nonché G. Bergamaschi, La parità delle parti e quel minus habens del consulente dell’imputato, ne Il penalista, 1° ottobre 2020.

[5] F. Giunta, I consulenti delle parti sono uguali davanti al giudice (ma quello del PM è più credibile), in Discrimen, 6 ottobre 2020.