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IMPLEMENTAZIONE ISTRUTTORIA OFFICIOSA NEL GIUDIZIO ABBREVIATO: DUBBI COSTITUZIONALI DI UNA DISTOPIA – DI FABRIZIO COSTARELLA E OTTAVIO PORTO

IMPLEMENTAZIONE ISTRUTTORIA OFFICIOSA NEL GIUDIZIO ABBREVIATO: DUBBI COSTITUZIONALI DI UNA DISTOPIA – DI FABRIZIO COSTARELLA E OTTAVIO PORTO

COSTARELLA-PORTO – IMPLEMENTAZIONE ISTRUTTORIA OFFICIOSA NEL GIUDIZIO ABBREVIATO- DUBBI COSTITUZIONALI DI UNA DISTOPIA.PDF

di Fabrizio Costarella* e Ottavio Porto**

  

  1. Giudizio abbreviato e poteri istruttori officiosi nella evoluzione giurisprudenziale – 2. Processo e verità – 3. Perimetrazione dei poteri istruttori officiosi, terzietà del Giudice e ragionevolezza della norma – 4. Implementazione probatoria officiosa e (impossibilità di) recesso dal rito.

 

 

  1. Giudizio abbreviato e poteri istruttori officiosi nella evoluzione giurisprudenziale:

Il tema della implementazione istruttoria officiosa nel giudizio abbreviato, disciplinato dall’art. 441 comma 5 c.p.p., ha visto il succedersi di opposti orientamenti giurisprudenziali, i quali hanno finito con il fornire interpretazioni difformi – se non addirittura antitetiche – della norma processuale. Un percorso tortuoso, approdato ad una conclusione che appare contrastante rispetto alla ratio della Legge 475/99, sollecitando riflessioni interdisciplinari, finanche sul topos della “verità”.

Il rito abbreviato, infatti, è caratterizzato da una “prova contratta”, che le parti accettano di porre a base della regiudicanda, attribuendo valore probatorio agli atti di indagine preliminare e rinunciando alla raccolta di nuove prove attinenti alla ricostruzione del fatto processuale o alla sua riconducibilità all’imputato[1].

Il Giudice, allora, dovrebbe gestire tale potere istruttorio, eccezionale al principio dispositivo della prova, come extrema ratio e mai in funzione di mera supplenza rispetto all’iniziativa delle parti, nei confronti delle quali egli deve tenere un atteggiamento di neutralità, “dovendo accogliere, secondo le proprie valutazioni, le sollecitazioni provenienti da ognuna di esse, evitando di perseguire proprie ipotesi accusatorie autonome”[2].

Su tale dato normativo, un primo, corposo orientamento giurisprudenziale, formatosi prima della riforma legislativa dettata dalla Legge 479/99 e successivamente riproposto, ha ripetutamente affermato che il “giudizio allo stato degli atti” non sarebbe compatibile con l’acquisizione di ulteriori elementi probatori, ove direttamente collegati alla ricostruzione storica del fatto ed alla attribuibilità del reato all’imputato[3].

Tale orientamento è stato poi oggetto di un revirement della giurisprudenza di legittimità[4], che ha dettato una nuova e più elastica lettura dell’art. 441, comma 5 c.p.p., alla luce di una diversa interpretazione della riforma introdotta dalla c.d. “Legge Carotti”.

Si è ritenuto coerente, infatti, prevedere che il Giudice possa acquisire elementi ulteriori, con i soli limiti della non eccentricità dell’integrazione probatoria rispetto alle indagini espletate dalle parti e della necessità della stessa ai fini della decisione.

In buona sostanza, si è deciso di concedere l’utilizzo di questo strumento giuridico, anche in tema di ricostruzione empirica del fatto (il cui autore sarebbe l’imputato): ciò al fine di “ovviare ad una situazione di stallo determinata da insufficiente esplorazione degli elementi raccolti nel corso dell’indagine, tale da impedirgli di rendere una decisione sul merito dell’accusa, così che solo dopo il completamento dell’indagine anche su quegli aspetti le cui potenzialità non fossero state esaminate fino in fondo, gli sia possibile valutare la sufficienza o meno del quadro probatorio”[5].

Tale interpretazione estensiva riposa sulla considerazione che la limitazione del thema probandum, proposta dal più risalente orientamento, non sarebbe rinvenibile nella struttura del giudizio speciale, al quale l’imputato accederebbe con la piena consapevolezza sia delle proprie possibilità che di quelle che l’ordinamento concede ad ognuno dei protagonisti impegnati nella ricerca della “verità”.

Ovverosia, dovrebbe essere cosciente dell’esistenza – oltre alla ipotesi di proporre una integrazione di parte, tale da superare eventuali lacune riscontrate nell’indagine del Pubblico Ministero – del “rischio” di subire un intervento ulteriore, in qualsivoglia direzione, a seguito della autonoma valutazione del giudicante[6].

E, tuttavia, non si è mancato, a fronte delle obiezioni della Dottrina[7], di evidenziare come l’integrazione probatoria officiosa non possa spingersi sino al punto di alterare la concorrente funzione del processo penale, quale processo di parti a struttura accusatoria, con la conseguenza che il ricorso ai poteri ex art. 441 c.p.p. comma 5, richiederebbe “non la totale assenza di informazione probatoria, al cui cospetto alcuna integrazione sarebbe ammissibile, ma esclusivamente l’incompletezza di essa, le cui lacune debbano essere colmate per l’acquisizione non di un qualsiasi elemento ma solo di quelli necessari per decidere”[8].

In definitiva, l’interesse dell’imputato ad essere giudicato, allo stato degli atti, in base ad un compendio probatorio che il giudice ritenga non completo, “dovrebbe sempre soccombere rispetto all’interesse dello Stato alla ricerca della verità, anche a costo di sacrificare l’ulteriore interesse statale alla rapida definizione del processo, perseguito incentivando la scelta del rito abbreviato” [9].

  1. processo e verità:

L’impostazione sembra soffrire di una distopia di fondo.

Il tema – epistemologico – della “ricerca della verità” incrocia, da sempre, quello della funzione del processo penale.

Ma è sul concetto di verità, nel particolare ambito processual-penalistico, che occorre intendersi, per attribuire un minore o maggiore grado di correttezza giuridica ai diversi orientamenti giurisprudenziali evidenziati.

L’approccio del giudice al processo non deve essere di tipo euristico o, almeno, non dovrebbe più esserlo dopo il tramonto del sistema inquisitorio, nel quale il contraddittorio nella formazione della prova si instaurava solo con l’accusa, mentre la difesa rivestiva un ruolo del tutto marginale e quasi ancillare.

In quel contesto inquisitorio, il giudice poteva legittimamente, come lo storico, ambire alla conoscenza della verità come ontologia, l’aletheia intesa come disvelamento del mito, quella adaequatio intellectus et rei nella quale – lungamente – si è cullato il pensiero occidentale, alla ricerca della concordanza della rappresentazione pensante con la cosa[10].

Si tratterebbe, in questa ipotesi, della c.d. “verità del processo”, da perseguire chiedendosi “che cos’è la verità”, secondo il quesito che Ponzio Pilato formulò a Gesù, nel corso di un processo archetipico del modello inquisitorio.

E, quindi, porsi come novelli interpreti della Verità assoluta, di quella monade, intangibile, tautologica, coincidente con l’empirica e semplicistica ricerca delle azioni e degli accadimenti.

Ma il processo accusatorio, seguendo un modello tutt’altro che eracliteo di ricerca spirituale e assolutistica[11], tende all’accertamento di una “verità seconda” o minore, formale, convenzionale[12].

Seguendo un approccio ermeneutico o epistemologico, che postula il rispetto di regole probatorie e criteri normativi di giudizio, non sempre funzionali al vero sostanziale, la ricerca della verità potrebbe essere suffragata solo da prove raccolte attraverso tecniche prestabilite normativamente.

Una verità, quindi, solamente probabile e opinabile[13] – come ricavabile anche dalla regola di giudizio del dubbio ragionevole – alla quale non potrebbe che riconoscersi un carattere essenzialmente pratico, non logico-conoscitivo, in quanto il giudice è sottoposto a limiti di tempo e di prova che lo storico ed il filosofo ignora e l’accertamento giudiziale non sempre è condotto con tutti i mezzi materialmente disponibili[14].

Una “verità nel processo”, da ricercarsi chiedendosi “qual è la verità”, tra le varie prospettate e prospettabili che, secondo le regole di formazione della prova e quelle di valutazione della stessa, possa essere accettata come ipotesi più aderente ai fatti nella loro dimensione processuale, non storica (Jaeger si spingerà a dire, anche, sofistica[15]).

Ed il processo accusatorio deve muoversi intorno ai quattro pilastri fondanti, che costituiscono altrettante proposizioni assiomatiche di riferimento del nulla poena, nulla culpa sine iudicio; nullum iudicium sine accusatione; nulla accusatio sine probatione; nulla probatio sine defensione[16].

Un sistema di garanzia che, quanto alla formazione della prova, trova la propria regola generale nel principio dispositivo dell’art. 190 c.p.p., esplicazione dinamica della garanzia di terzietà del giudice, che, a sua volta, trova espressa copertura costituzionale nell’art. 111 Cost.

La verità processuale, dunque, non è altro che il risultato dell’accertamento valido, cioè realizzato nel rispetto di determinate regole di diritto positivo. Il sistema processuale, in quanto sistema normativo, introduce una forma di conoscenza vincolata che assume valore tipico proprio in quanto ottenuta secondo le modalità prestabilite[17], dialettiche.

Così da esprimere un giudizio di conformità tra asserzioni decisorie fattuali e asserzioni probatorie fattuali[18], secondo il modello tarskiano[19].

Quella concezione corrispondentista della verità, che ci mostra “come possa prospettarsi la corrispondenza con la realtà, non cioè come dato immediatamente osservabile, quanto piuttosto come criterio di verificazione degli enunciati fattuali che devono essere provati”[20].

Del resto, anche il Giudice delle Leggi, dopo alcune sentenze che avevano valorizzato la funzione quasi euristica del processo penale, enfatizzando il fine di ricerca della verità, platonicamente intesa, ha finito – sia pure non stabilmente – con il perimetrare in modo meno ambizioso i compiti cognitivi della giurisdizione penale, affermando che scopo del processo è l’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità[21].

  1. Perimetrazione dei poteri istruttori officiosi, terzietà del Giudice e ragionevolezza della norma:

Fuori da una impostazione gius-filosofica, poi, è anche vero che tale interpretazione estensiva, consentirebbe la sostanziale assenza di limiti all’attività officiosa di integrazione probatoria, facendo sì che la norma (che pure ha superato indenne un sindacato di costituzionalità, quanto al potere di integrazione, tout court considerato[22]) presti il fianco a censure di ordine sistematico.

Ritenere che il Giudice non abbia vincoli nella implementazione probatoria officiosa (se non quello di istruire ipotesi accusatorie mai formulate) conduce a qualificare l’istituto processuale del giudizio abbreviato come una sorta di modello accusatorio “impuro”, nel quale, soccorrendo alle deficienze istruttorie del PM, ci si possa spingere a ricercare non “quale sia la verità” tra quelle prospettate dalle parti, ma – addirittura – a domandarsi “che cosa sia la verità”[23].

Visione certo non conforme alla ratio dell’istituto processuale, nella sua dimensione costituzionalmente orientata, che non era e non è solo quella, per l’imputato, di ottenere uno sconto di pena – la cui intangibilità giustificherebbe, secondo la giurisprudenza, qualsiasi successiva implementazione della piattaforma probatoria – a fronte di una formazione extra-dibattimentale della prova.

Ma, insieme al fine deflattivo, permane quello di assicurare il consapevole esercizio del diritto abdicativo alla prova dibattimentale, da parte dell’accusato, come scelta del campo dialettico nel quale sostenere le proprie ragioni, anche in termini “distruttivi”.

Chi adisce il rito abbreviato, infatti, rinuncia al diritto a che la prova si formi nel contraddittorio tra le parti, che costituisce uno dei corollari del giusto processo.

A fronte di una tale negoziata compressione dei diritti difensivi, non convince il riconoscimento di poteri istruttori illimitati in capo al giudice, fondato sulla fragile teoria dell’”accettazione del rischio”, in forza della quale il trattamento premiale compenserebbe l’imputato dell’alea di una successiva, imprevista ed imprevedibile, implementazione della piattaforma probatoria officiosa.

Specie se si considera che un simile esercizio incondizionato dei poteri istruttori, se finalizzato a colmare lacune investigative, potrebbe poi   vulnerare la terzietà del giudice[24], altro corollario del giusto processo, che costituisce “un modo di essere della giurisdizione”[25],  una “esigenza obiettiva ed irrinunciabile dell’ordinamento”[26], insieme a quelli di imparzialità, autonomia ed indipendenza.

Rispetto ai quali, tuttavia, non rappresenta una endiade[27], ma un autonomo fine ordinamentale, che gode, oltre che di espresso riconoscimento costituzionale, anche di copertura convenzionale nell’art. 6.1 CEDU.

Mentre i concetti di autonomia ed indipendenza attengono alla disciplina istituzionale della funzione giurisdizionale, secondo il principio di separazione tra poteri dello Stato, quelli di terzietà ed imparzialità si riferiscono alla concreta attività giusdicente.

Il Giudice è terzo quando si pone in una posizione di assoluta indifferenza e di effettiva equidistanza dalle parti contendenti, anche quanto alle rispettive iniziative istruttorie, regolate dal principio dispositivo.

Perchè quando il Giudice “diventa attore sulla scena probatoria a venire messa in discussione è l’idea stessa di giustizia, che ha nel valore dell’imparzialità la sua qualità immanente e che esprime il modo di essere dell’organo deputato a renderla”[28].

Infatti, mentre il diritto alla prova ed il principio di terzietà del giudice trovano copertura costituzionale nell’art. 111 Cost., non così è per i poteri istruttori officiosi, né per il “fine di verità” (sostanziale), che dovrebbero dunque considerarsi recessivi, non plusvalenti, rispetto ai primi.

Specie se si pone a mente che, nella prassi e, in particolare, nei processi con imputazioni associative, l’esercizio dei poteri di cui all’art. 441, comma 5 consegue alle sollecitazioni della parte pubblica ad acquisire, dopo la scelta del rito, atti e, soprattutto, verbali di altri procedimenti penali.

Fonti di prova rispetto alle quali, peraltro, la norma riconosce al giudice un sindacato preventivo debole, limitato alla sola “necessità” ai fini del decidere, contrariamente a quanto avviene in altre ipotesi di esercizio di poteri istruttori officiosi, disciplinati dall’art. 422, comma 3 (per l’udienza preliminare), dell’art. 507 (per il dibattimento di primo grado), dell’art. 603 (per il giudizio di appello) c.p.p.

Mentre la prima disposizione, data la natura e la funzione dell’udienza preliminare, non è sicuramente assimilabile a quella in esame (basti pensare che l’integrazione probatoria è, in udienza preliminare, circoscritta alla sola prova a discarico), quelle applicabili al dibattimento di primo grado e per il giudizio di appello assolvono alla medesima funzione dell’art. 441, comma 5 c.p.p., pur se presuppongo un giudizio di “assoluta necessità”, ai fini della decisione, dell’incremento istruttorio.

Non vi è dubbio, quindi, che, aderendo alla interpretazione giurisprudenziale dell’art. 441, comma 5 c.p.p., che riconosce pieni poteri istruttori officiosi al giudice, le tre disposizioni codicistiche finirebbero per disciplinare in modo difforme fattispecie invero simili, che rispondono ad una eadem ratio, ovvero quella di consentire al Giudice, in assenza di un quadro probatorio utilmente valutabile ai fini di una decisione rispondente al corretto esercizio della giurisdizione, di implementare la piattaforma probatoria resa disponibile dalle parti.

Ma se gli istituti sono simili, un trattamento processuale difforme, per non essere ritenuto contrario a Costituzione e, segnatamente, all’art. 3 della Legge fondamentale, deve rispondere al principio di ragionevolezza.

La ragionevolezza, che trova copertura nell’art. 3 Cost., è un criterio ermeneutico elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, ed avallato dalla dottrina[29], in virtù del quale, ogniqualvolta è necessario operare una ponderazione ed un bilanciamento tra valori ed interessi contrastanti e costituzionalmente protetti, il fondamento di siffatta ponderazione deve rinvenirsi nella non arbitraria compromissione di un diritto a vantaggio di un altro; in altri termini, la ragionevolezza si connota per essere un parametro di giudizio che consente di valutare, in primo luogo, le scelte operate dal legislatore in sede di politica del diritto (scelte, ragionevolezza a parte, insindacabili); ed, in secondo luogo, la ponderazione tra due o più diritti potenzialmente in contrasto tra loro, sì da non operare una ingiustificata compressione di una situazione giuridica soggettiva a favore di un’altrettanta ingiustificata espansione di un’altra.

Siffatta esigenza riposa sul basilare principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone non un generalizzato egualitarismo, bensì esige che il Legislatore e, più in generale, ogni soggetto investito del potere di incidere le altrui situazioni giuridiche soggettive, tratti le varie situazioni emergenti al livello della realtà sociale senza discriminazioni arbitrarie o irragionevoli[30].

La ragionevolezza, peraltro, è ormai un canone valutativo assolutamente pervasivo nell’ambito dei giudizi di costituzionalità, come tale sganciato dai singoli articoli della Carta Costituzionale, e rinveniente, per contro, la propria base giustificativa nella complessiva architettura costituzionale, comprensiva non tanto e non solo della costituzione in senso formale, ma anche della costituzione c.d. vivente o materiale.

Più in particolare, la ragionevolezza viene indicata, nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, come una forma di razionalità pratica[31], contrapposta ad una razionalità astratta di stampo meramente formalistico e logico-deduttivo. Detto altrimenti, il canone di ragionevolezza serve per parametrare la bontà, sotto questo specifico profilo, delle scelte legislative nella ponderazione degli interessi coinvolti, alla luce non solo delle circostanze del caso concreto (ché, altrimenti, il giudizio di costituzionalità si trasformerebbe in un sindacato sul fatto), bensì alla luce dell’incidenza della disposizione censurata sulla realtà sociale su cui ricade, dell’impatto della normativa nel complessivo assetto concreto degli interessi sul tappeto.

Ancora, sempre nell’ottica della ragionevolezza, la Corte ha, altresì, affermato che le scelte legislative devono tendere alla tutela dei diritti in maniera sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro[32]. Pena, altrimenti, l’irragionevolezza della scelta operata, in sede di politica del diritto, dal legislatore e, di conseguenza, delle norme che costituiscono il frutto di tale scelta.

Illuminante, al riguardo, risulta un passaggio della Sentenza n. 1130/1988, in cui il Giudice delle Leggi ha affermato che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti”.

Nel caso concreto, non è dato cogliere alcun elemento di ragionevolezza in una disposizione che, a differenza delle altre, non contempla il canone della “assoluta necessità” della prova officiosa ai fini del decidere, se a tale flessione delle garanzia di piena terzietà non fa da contrappeso una limitazione del thema probandum, secondo quanto delineato dal più risalente degli orientamenti giurisprudenziali esaminati.

  1. implementazione probatoria officiosa e (impossibilità di) recesso dal rito abbreviato:

Altro aspetto problematico riguarda la possibilità o meno, per l’imputato, di revocare la richiesta di giudizio abbreviato.

L’art. 441-bis c.p.p., difatti, prevede che l’imputato possa revocare l’adesione al rito speciale e chiedere di essere giudicato con le forme ordinarie nella sola ipotesi in cui, espletata l’attività probatoria integrativa, di parte (ai sensi dell’art. 438, comma 5 c.p.p.) o officiosa (ai sensi dell’art. 441, comma 5 c.p.p.), il PM proceda alla modifica della imputazione, ai sensi dell’art. 423 c.p.p.

La ratio della norma discende dal carattere “negoziale” della scelta del rito abbreviato e tende a garantire che l’imputato, alla luce di fatti sopravvenuti, sia messo nelle condizioni di esprimere nuovamente, re melius perpensa, il proprio consenso che, altrimenti, potrebbe rimanere viziato dalla esistenza di circostanze non conosciute, né conoscibili, all’atto della primigenia scelta, perché risultanti dalla integrazione probatoria successiva alla ammissione del rito.

Se così è, davvero non può cogliersi ragionevolezza nella scelta legislativa che consente il recesso dal rito e la regressione del processo in ipotesi di modifica della imputazione a seguito della integrazione probatoria richiesta dall’imputato, ex art. 438 comma 5 c.p.p., e, di contro, la nega in ipotesi di nuove prove a carico, acquisite su istanza del PM o d’ufficio, pure queste non conosciute né conoscibili dall’imputato e, quindi, idonee a viziarne il consenso.

Irragionevolezza che appare evidente laddove si consideri che la norma consente il recesso non solo in caso di contestazione di un reato connesso o di una circostanza aggravante, ma anche in caso di un fatto diversamente qualificato sia dal punto di vista giuridico (nuova sussunzione), sia materiale (ad esempio, indicazione di nuovi o diversi segmenti di condotta; persino difforme specificazione del tempus o del locus commissi delicti).

Sicchè l’ordinamento accorda una sorta di jus poenitendi sul rito all’imputato che, all’esito dell’istruttoria svolta su sua richiesta, abbia subito una variazione migliorativa della imputazione, ma non all’imputato che, soggetto di nuove prove a carico, non abbia tuttavia visto una modifica della imputazione.

E la denunciata irragionevolezza risiede proprio nell’ancorare la disparità di trattamento, pure in astratto legittima a fronte di situazioni processualmente diverse, ad un atto del procedimento rimesso alla iniziativa di una parte e totalmente sottratto al controllo ed al potere dell’imputato.

Il Legislatore, in estrema sintesi, in presenza del medesimo presupposto fattuale e giuridico (ammissione del rito abbreviato e successiva integrazione probatoria a carico dell’imputato), ha ancorato il diritto dell’imputato a recedere dal rito ad una attività processuale (modifica della imputazione) non solo eventuale, ma altresì rimessa alla insindacabile iniziativa del Pubblico Ministero, con ciò rendendo l’applicazione stessa della norma incerta ed irragionevole.

In analogo contesto, notissima è la sentenza 393/06 della Corte Costituzionale, che, nel dichiarare la illegittimità costituzionale della norma transitoria contenuta nella Legge c.d. ex Cirielli, stigmatizzò la irragionevolezza insita nell’approntare trattamenti diversi a situazioni simili, sul solo discrimine di una attività processuale (la data di dichiarazione dell’apertura del dibattimento), disancorata da qualsiasi dato certo e rimessa, sostanzialmente, al caso.

Così come rimessa, nella sostanza, al caso è la scelta del PM di procedere a modifica della imputazione, quando il fatto risulti fattualmente diverso da quello contestato, in termini di esatta ricostruzione della condotta rimproverata.

Per questo, la Dottrina ha osservato che l’imputato sarebbe comunque costretto a prestare un consenso preventivo su un oggetto variabile in violazione dell’art. 111 comma 5 Cost.[33], prospettando la possibilità di sollevare incidente di costituzionalità del comma 5 dell’art. 441 c.p.p. nella parte in cui non prevede in capo alla difesa, a seguito della ordinanza integrativa officiosa, la facoltà di rinunciare alla richiesta di rito abbreviato[34].

La deduzione è peraltro coerente con i principi generali dell’ordinamento, secondo i quali la rinuncia preventiva rispetto ad una situazione giuridica futura è ammissibile solo a condizione che, al momento della scelta abdicativa, l’oggetto della dismissione sia determinato o, comunque, determinabile.

Considerazione che – unitamente al carattere premiale del rito – ha indotto la Corte EDU a rigettare plurime istanze tese all’accertamento della illegittimità convenzionale del giudizio abbreviato, sia pure sotto il limitato angolo prospettico della violazione dell’art. 6.3 lettera d) della Convenzione Europea di Diritti dell’Uomo.

La CEDU, nelle decisioni assunte, ha fatto salvo il meccanismo deflattivo delineato dagli artt. 438 e ss c.p.p., sul presupposto che, decidendo di essere giudicato nelle forme speciali, l’imputato abbia consapevolmente accettato, da un lato, la utilizzabilità degli atti contenuti nel fascicolo del PM e, dall’altro, abbia altrettanto consapevolmente rinunciato a controesaminare i testi.

In particolare, nella decisione di irricevibilità Kwiatkowska c. Italia (30 novembre 2000) la Corte pone l’accento sull’importanza della consapevolezza dell’indagato di rinunciare a certe prerogative procedurali quali l’udienza pubblica, la richiesta di nuove prove, la convocazione di testimoni, ritenendo infine che tale rinuncia, se inequivoca e, appunto, consapevole non si ponga in contrasto con alcun interesse pubblico[35].

Del resto, nel leading case Hermi c. Italia (Grande Camera, 18 ottobre 2000), il Giudice Europeo aveva ritenuto che, nell’ambito del giudizio abbreviato, la produzione di nuove prove fosse “esclusa, poichè la decisione deve essere presa, salvo eccezioni, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo della procura”.

Ed anche il Giudice delle Leggi ha evidenziato, in più pronunce, che la “scelta di valersi del giudizio abbreviato (che) è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali”[36], può avvenire solo nella misura in cui “l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti”.

Solo in tal modo, l’imputato sarebbe “libero di valutare, secondo la propria strategia processuale, se sia conveniente chiedere il rito alternativo, consentendo al giudice di porre a base della sua decisione il materiale probatorio formato dalla parte pubblica, o accedere invece al giudizio ordinario, nel corso del quale le prove unilateralmente raccolte dal pubblico ministero potranno essere confutate attraverso il contraddittorio”[37].

Ragionando diversamente, si finisce inevitabilmente per cristallizzare scelte processuali caratterizzate da vizio del consenso, spesso qualificabile in termini di errore conosciuto dalla controparte processuale, se non addirittura di dolo.

Vizio che inficia il corretto esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, che non possono certo essere sacrificati sull’altare della Verità, quale categoria ontologica.

“Quid est veritas”, che cos’è la verità, peraltro, è domanda alla quale neanche Ponzio Pilato ricevette risposta.

Si è sostenuto[38], suggestivamente, che Gesù tacque, consegnandosi inerme al suo giudice, perché Lui stesso era la risposta (“est vir qui adest”, anagramma di “quid est veritas”, significa “(la Verità) è l’uomo che hai davanti”).

Ma quello, finalizzato al martirio di un imputato sostanzialmente indifeso, non rappresenta certo il modello di processo immaginato dal Legislatore.

15.05.20

*Componente Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione UCPI

**Componente Osservatorio giovani UCPI

[1]L. Degl’innocenti – M. De Giorgio, Il giudizio abbreviato, Giuffrè, 2013

[2]N. Mani, “I percorsi della prova nel giudizio abbreviato. Limiti di sistema e adattamenti necessari”, in Archivio Penale n. 3/14.

[3]Cass., Sez. III, 16 giugno 2010, in proc. Anzaldo, in Mass. Uff. n. 33939. In motivazione la Corte ha stabilito che “Pur dopo le modifiche apportate nel tempo dal legislatore alla disciplina del giudizio abbreviato, deve comunque riconoscersi al giudice che procede secondo le forme di tale rito – il quale non ritiene di poter decidere allo stato degli atti – la facoltà di assumere, anche di ufficio, gli elementi necessari alla decisione, dovendo considerarsi preclusa, dalla scelta del rito abbreviato, solo l’acquisizione di prove concernenti la ricostruzione storica del fatto e l’attribuibilità di esso all’imputato…la scelta processuale della difesa di essere giudicata sulla scorta degli elementi raccolti dal pubblico ministero verrebbe vanificata e snaturata se il potere del giudice di integrare la prova fosse illimitato ed arrivasse al punto di poter sostituire l’organo giudicante a quello inquirente nella ricerca di elementi idonei a verificare (e non invece a confermare) se il soggetto tratto a giudizio sia effettivamente autore di un reato e se il fatto contestato integri gli estremi di un reato perseguibile”. Si veda, anche Cass. Sez. II, Sent., 05-02-2013, n. 5664

[4]Cass. Sez. V, 30 aprile 2012, in proc. Galasso, in Mass. Uff. n. 36335. In motivazione, la      Corte ha ritenuto che “quanto all’ampiezza di un tale potere, ritiene il Collegio condivisibile l’opinione che ne considera individuabili i limiti sulla base di quel criterio della decisività         allo stato degli atti, che, se in passato rappresentava il limite di ammissibilità del rito speciale, attualmente ben può costituire il parametro con cui si deve confrontare il giudice per le sue decisioni sulla necessità di autonome iniziative probatorie ai fini della decisione,    collegate quindi, ai sensi dell’art. 441 cpp, comma 5, all’oggettiva impossibilità di addivenire alla decisione nel merito sulla base delle risultanze degli elementi di prova in atti, si tratti di quelli raccolti dal Pubblico Ministero oppure di quelli risultanti dalle      richieste di integrazione cui l’imputato abbia subordinato l’accesso al rito”. Più di recente, il principio è stato nuovamente affermato da Cass. Sez. II, sentenza del 14 giugno 2017, n. 29711

[5] Cass. Sez. V, 30 aprile 2012, in proc. Galasso, in Mass. Uff. n. 36335. Cass. Sez. II, sentenza del 14 giugno 2017, n. 29711

[6] Cass. pen. Sez. V Sent., 09/01/2015, n. 10096. Più di recente, il principio è stato nuovamente affermato da Cass. Sez. II, sentenza del 15 febbraio 2019, n. 7192.

[7] L. Degl’innocenti – M. De Giorgio, Il giudizio abbreviato, Giuffrè, 2013.

[8] Cass. Sez. II, sentenza del 14 giugno 2017, n. 29711.

[9] Cass. pen. Sez. I Sent., 18/04/2013, n. 44324.

[10] M. Heidegger, La dottrina di Platone sulla verità, SEI, 1975.

[11] R. Paradisi, Il logos nel processo, Giappichelli, 2015.

[12] F. Cavalla, Prefazione a Retorica, processo, verità, in AA.VV., Retorica, processo, verità, Milano, 2007.

[13] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 1991.

[14] R. Orlandi, Verità, responsabilità e ravvedimento tra processo penale e pratiche di            mediazione, in Corte Assise, 2011.

[15] W. Jaeger, Paideia, trad.It, La Nuova Italia, Firenze, vol. I.

[16] V. Garofoli – A. Incampo, Verità e processo penale, Giuffrè, 2012.

[17] A. A. Sammarco, Metodo probatorio, Giuffrè, 2001.

[18] F. Zambuto, L’utopia della verità nel processo penale: il binomio tra verità sostanziale e verità processuale, in Camminodiritto.it, gennaio 2016.

[19] A. Tarsky, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, Milano, 1969.

[20] E. Ancona, Sul “giusto processo” ovvero della giustizia e della verità nel processo, in www.filosofiadeldiritto.it. 

[21] Corte Costituzionale, sentenza n. 361/98.

[22] Corte Costituzionale, sentenza n. 115/01.

[23] Sulla qualificazione dei poteri istruttori officiosi come di stampo inquisitorio, si veda M.   Bonetti, Il giudizio abbreviato, in I procedimenti speciali in materia penale, Giuffrè, 2003.

[24] A. Vitale, Nullità assoluta ed inutilizzabilità delle prove nel “nuovo” giudizio abbreviato, in            Giurisprudenza Italiana, 2003, pag. 735.

[25] Corte Costituzionale, sentenza n. 241 del 1999.

[26] Corte Costituzionale, sentenza n. 155 del 1996.

[27] F. Dinacci, Giudice terzo e imparziale quale elemento “presupposto” del giusto processo tra Costituzione e fonti sovranazionali, in Archivio Penale, 2017, n. 3.

[28] P. Calamandrei, Processo e democrazia, Cedam, 1954.

[29]  M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana – relazione presentata alla Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, 24-26 ottobre 2013.

[30] Corte Costituzionale, sentenza 13 gennaio 2014, n. 1.

[31] Corte Costituzionale sentenza 27 maggio 1996, n. 172.

[32] Corte Costituzionale, sentenza 28 novembre 2012, n. 264; sentenza 9 maggio 2013, n. 85.

[33] H. Belluta Imparzialità del giudice e dinamiche probatorie ex-officio, Giappichelli, 2006.

[34] D. Steccanella, Integrazione probatoria nel giudizio abbreviato: dubbi di costituzionalità? In davidesteccanella.postilla.it, 6 maggio 2011.

[35]   Principio ribadito, più di recente, in Fornataro c. Italia (19 ottobre 2017).

[36] Corte Costituzionale, sentenza n. 237 del 2012.

[37] Corte Costituzionale, sentenza n. 62 del 2007.

[38] Sant’Agostino d’Ippona, De Doctrina Christiana.