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LA BUGIA CONTAGIOSA – DI ROBERTO DE VITA

LA BUGIA CONTAGIOSA – DI ROBERTO DE VITA

Articolo pubblicato su De Vita Law e concesso per la pubblicazione anche su questo sito.

Distanziamento sociale e responsabilità penale

Di fronte alla recrudescenza della pandemia (che troppo frettolosamente ed irresponsabilmente era stata rimossa dal monito pubblico e dai comportamenti sociali virtuosi), la responsabilità penale torna ad essere protagonista della reazione alle condotte antisociali che mettono a repentaglio la salute collettiva.

Se è possibile difendersi da chi non indossa la mascherina, molto più difficile (se non impossibile) proteggersi da chi mente sulla propria condizione di salute o di rischio, esponendo le collettività (di lavoro, scolastiche, di trasporto, sanitarie) al contagio.

Non si tratta solo di mentire quando si compila un modulo, ma anche quando il presupposto di una attività di potenziale contatto con altri sia l’assenza di sintomi e di rischio specifico: dal prendere un autobus, all’andare a scuola, al partecipare ad una riunione, all’andare in un ristorante.

Ecco perché quella distinzione tra bugie innocenti e menzogne cade di fronte alle “bugie contagiose”, quelle di chi mentendo alla collettività espone gli altri al contagio, alla malattia, alla morte.

Nei primi mesi di pandemia si è assistito a numerosi comportamenti contrari alle disposizioni anti-contagio, nei confronti delle quali si è attivata una risposta sanzionatoria di differente gravità. Epidemia colposa o dolosa, omicidio, lesioni, false dichiarazioni, semplici sanzioni amministrative: nella confusione dell’emergenza, la casistica è varia e complessa.

E se nei mesi di lockdown più stringente la differenza tra lecito ed illecito, bianco e nero era più evidente, oggi tutto appare più sfumato, preda dell’interpretazione (anziché della responsabilità) del singolo. Ogni situazione quotidiana vive il rischio di trasformarsi in dramma a causa di comportamenti individuali: da locali in Costa Smeralda che si trasformano in focolai di contagio a concorsi messi a rischio da soggetti “positivi”, rendendo pericolosi i luoghi di lavoro, studio, cura e aggregazione.

LA VIOLAZIONE DELLE MISURE DI CONTRASTO AL COVID-19 TRA FATTISPECIE PENALI E CASI CONCRETI
Il decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020, convertito con modificazioni in legge n. 35 del 22 maggio 2020, ha introdotto diverse modifiche al regime sanzionatorio inizialmente previsto per le violazioni delle misure di contrasto all’epidemia da COVID-19. Dopo l’iniziale ricorso allo strumento di natura penalistica, l’indirizzo è mutato, aprendo la strada al ricorso alla sanzione amministrativa.

In precedenza, l’art. 4, comma 2 del DPCM 8 marzo 2020 aveva previsto infatti l’applicazione (salvo che il fatto costituisse un più grave reato) dell’art. 650 del codice penale, rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, alla condotta di chi non rispettasse gli obblighi previsti dal medesimo decreto.

In seguito, si sono succeduti diversi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che hanno modificato e poi mitigato le misure di contrasto al diffondersi dell’epidemia. Tuttavia, il mutamento del regime sanzionatorio non è stato una conseguenza della graduale “riapertura” del Paese; al contrario, già nel corso del periodo di lockdown, le citate condotte sono state depenalizzate, con l’art. 4 del decreto-legge n. 19 del 2020.

Il primo comma della disposizione prevede che “Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, commi 1 e 2, ovvero dell’articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 1.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’articolo 3, comma 3. Se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo la sanzione prevista dal primo periodo è aumentata fino a un terzo.” È altresì prevista la sanzione amministrativa della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni in caso di violazione delle disposizioni riguardanti la chiusura di luoghi di aggregazione.

In ragione di tale previsione, attualmente per ogni soggetto “negativo” [1] (o presunto tale) che semplicemente non rispetti le disposizioni anti-contagio (dagli obblighi di utilizzo della mascherina al distanziamento sociale) non vi sarebbero altre fattispecie penalmente rilevanti.

Naturalmente, la sanzione amministrativa vigente si applica in luogo della sanzione penale anche per chi era stato denunciato ex art. 650 c.p. prima dell’entrata in vigore del d.l. 19/2020, dato che la depenalizzazione ha effetti retroattivi e investe anche le condotte precedentemente poste in essere [2].

Il sesto comma dell’art. 4 del medesimo provvedimento, invece, introduce un’espressa sanzione penale, tramite un richiamo ad una norma incriminatrice di legge speciale: “Salvo che il fatto costituisca violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 2, lettera e), è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7”.

La violazione della norma di cui al Testo unico delle leggi sanitarie riguarda il “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, perché risultate positive al virus […]”.

L’intervento normativo descritto sembrerebbe aver limitato fortemente il ricorso allo strumento sanzionatorio penale, da un lato prediligendo la (presunta) maggiore efficacia ed effettività della sanzione pecuniaria, dall’altro rinunciando ad “ingolfare” le Procure della Repubblica con un’innumerevole sfilza di procedimenti contravvenzionali per 650 c.p..

D’altra parte, il precedente approfondimento “Quarantena e responsabilità penale” [3] , aveva già evidenziato la singolare scelta di ricorrere ad un reato contravvenzionale dallo scarso impatto dissuasivo: e ciò non solo rispetto alla sanzione che il trasgressore rischia di subire, ma anche in relazione all’assenza di immediati strumenti cautelari e precautelari che possano essere utilizzati nei confronti dei trasgressori più pericolosi.

Tuttavia, l’ulteriore riduzione del ricorso alla fattispecie penale non pare essere la soluzione più adeguata, ancor più nell’attuale momento storico, in cui l’iniziale timore diffuso per la salute individuale e collettiva ha lasciato il posto a numerosi atteggiamenti irresponsabili e rischiosi.

Ciononostante, al di fuori delle norme citate, è tuttora possibile rinvenire ulteriori norme incriminatrici applicabili ad altri casi di violazione delle misure di contrasto al diffondersi del virus Sars-Cov-2, come indicate già in precedenza.

In primo luogo, è evidente che per i soggetti c.d. “non positivi” non rispettare gli obblighi previsti dal d.l. 19/2020 o da disposizioni che richiamano le medesime sanzioni non comporta l’integrazione di fattispecie penali. Ad esempio, si applica la sanzione amministrativa succitata a chi viola l’obbligo di indossare la mascherina dalle 18:00 alle 06:00 nei luoghi all’aperto, dove si possano formare assembramenti di persone [4], oppure a chi debba comunicare l’ingresso nel territorio nazionale dopo aver soggiornato nei 14 giorni precedenti in Stati considerati a rischio secondo gli allegati del DPCM 7 agosto 2020.

I casi più delicati, tuttavia, riguardano le violazioni degli obblighi di quarantena per i soggetti risultati “positivi” e di isolamento fiduciario per i soggetti “sospetti” (ad esempio in seguito all’insorgenza di sintomi, oppure di contatti con soggetti positivi o a rischio): l’art. 4, comma 1 del d.l. 19/2020 contiene una clausola di salvaguardia che esclude l’intervento della sanzione amministrativa in presenza di una fattispecie di reato (“salvo che il fatto costituisca reato”).

Come accennato in precedenza, per quanto riguarda il caso del soggetto positivo, l’art. 4, comma 6 del d.l. 19/2020 prevede che, salvo che il fatto integri la fattispecie dell’art. 452 c.p. o di altro più grave reato, si punisca la violazione della quarantena da parte di tale soggetto secondo l’art. 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265, Testo unico delle leggi sanitarie.

Tale disposizione, come da ultimo modificata, prevede che sia punito con l’arresto da tre mesi a diciotto mesi e con l’ammenda da euro 500 a euro 5000 chiunque non osservi un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo [5]. Viene inoltre prevista un’aggravante ad effetto comune per il caso in cui il fatto sia commesso da chi eserciti una professione o un’arte sanitaria.

La norma penale in parola è anch’essa una contravvenzione – categoria di reato meno grave rispetto al delitto – per la cui sussistenza non è necessario l’accertamento della natura dolosa o colposa dell’elemento psicologico. È altresì un reato di pericolo, posto a tutela della salute pubblica e della collettività.

Il riferimento sanzionatorio introdotto consente di perseguire la semplice trasgressione degli obblighi di quarantena imposti al “positivo” (e non dell’isolamento fiduciario imposto al soggetto “a rischio”): tuttavia, qualora dalla violazione di quarantena od isolamento fiduciario derivi il contagio di altri soggetti, gli autori della condotta potranno altresì essere perseguiti per il reato di lesioni ex art. 582 c.p. (o, nei casi più gravi, di omicidio). È infatti doveroso – ancor più in una fase dinamica, dove alla limitazione degli spostamenti è stato preferito il distanziamento tra gli individui, rimesso in parte al senso di responsabilità individuale – perseguire chi metta a repentaglio l’incolumità personale (o addirittura la vita) di altri soggetti, inconsapevolmente esposti al contatto con chi viola la quarantena o, ancor peggio, con chi è certamente affetto dal virus e, quindi, contagioso.

Tuttavia – e come già diffusamente analizzato nel precedente approfondimento [6] – la differente condizione soggettiva del “positivo” rispetto al soggetto “a rischio” (o “sospetto”), si riverbera sull’effettiva volontà e consapevolezza di quest’ultimi di nuocere al prossimo con cui vengono a contatto: in caso di effettivo contagio di un terzo, il primo potrà essere agevolmente accusato di lesioni volontarie (quantomeno in termini di dolo eventuale); al secondo, invece, appare più complesso attribuire un coefficiente volontaristico doloso, in quanto è più probabile che lo stesso sia accusato di lesioni colpose ex art. 590 c.p.. Di contro, qualora l’evento non si sia verificato, l’ipotesi di delitto tentato potrà evidentemente configurarsi solo nel caso delle lesioni volontarie (cui è applicabile l’arresto facoltativo ex art. 381 c.p.), stante l’assoluta incompatibilità tra la figura del tentativo ex art. 56 c.p. e la colpa.

Diversamente, il delitto di cui all’art. 452 c.p. (epidemia colposa) – citato dall’art. 4, comma 6 – prevede la reclusione da 3 a 12 anni (nell’ipotesi aggravata dell’art. 438 c.p.) o da 1 a 5 anni (nell’ipotesi base dell’art. 438 c.p.) e consente alle forze dell’ordine di avvalersi dell’arresto facoltativo ex art. 381 c.p.p. [7].

Il quadro normativo e giurisprudenziale analizzato rende evidente la distinzione tra le “mere trasgressioni” dei soggetti “negativi” (o presunti tali) alle regole poste in materia di distanziamento sociale – secondo quanto previsto dal DPCM 7 agosto 2020, la cui efficacia è stata prorogata al 8 ottobre 2020 dal DPCM 7 settembre 2020 – e condotte penalmente rilevanti dei soggetti “positivi” (più gravi) e dei “sospetti” (per i quali la non piena consapevolezza della propria condizione di malattia esclude l’applicazione di talune fattispecie).

D’altra parte, l’analisi di alcuni esempi – basati su alcuni recenti casi concreti – consentirà di meglio comprendere i confini normativi entro cui noi tutti ci muoviamo in questa delicata fase.

Tra i fatti di cronaca, ha destato attenzione la vicenda della aspirante studentessa che avrebbe tentato di sostenere il test d’ingresso per la facoltà di Medicina, a Bologna, dopo essere risultata positiva al tampone. In tale caso, la giovane sarebbe stata denunciata per il reato di epidemia colposa, poiché probabilmente, entrando a contatto con un rilevante numero di persone, avrebbe potuto contribuire al diffondersi dell’epidemia, cagionando potenzialmente numerosi contagi [8].

Tuttavia, una simile condotta potrebbe configurare maggiormente una ipotesi di epidemia dolosa, seppur sorretta da dolo eventuale, vista la piena conoscenza della propria condizione di malattia e della facilità con la quale, in un contesto come quello di un concorso, si possa entrare a contatto con una molteplicità di altri soggetti, esponendoli ad un elevato rischio, data la notoria ed elevata contagiosità della COVID-19.

Viceversa, qualora la studentessa avesse violato la quarantena senza entrare a contatto con nessun altro soggetto, ad esempio uscendo di notte per una passeggiata, tale condotta avrebbe potuto integrare la sola fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 4, comma 6 del d.l. 19/2020.

Una vicenda simile sembrerebbe essersi verificata di recente presso il Tribunale di Roma, dove due avvocati si sarebbero recati presso gli uffici giudiziari pur consapevoli del proprio status di soggetti positivi al virus [9]. Anche in questa circostanza sarebbe importante capire se vi siano state delle conseguenze in termini di contagi, poiché da questo, come nel caso sopra citato, deriverebbe una differente configurazione del fatto.

Un altro caso che ha interessato l’opinione pubblica è quello che ha visto protagonista il Presidente della SSC Napoli Aurelio De Laurentiis. Su tale episodio sono emerse diverse versioni, tuttavia il Codacons avrebbe deciso di presentare un esposto contro l’imprenditore, denunciando addirittura la sussistenza della fattispecie di epidemia dolosa [10].

Si potrebbe ipotizzare, in generale, che qualora un soggetto dovesse presentare dei sintomi e si esponesse volontariamente al contatto con altre persone, si dovrebbe valutare con attenzione l’elemento psicologico alla base dell’azione. Infatti, qualora questi avesse ragionevolmente motivo di sospettare la propria condizione di positività, la condotta potrebbe essere sorretta da dolo eventuale, nella misura in cui l’agente scelga di accettare il rischio di esporre al contagio le persone con le quali entri in contatto.

Diversamente, nel caso in cui il soggetto abbia motivo di escludere o ritenga con elevato grado di certezza che i propri sintomi siano dovuti ad altra causa, sarebbe più agevole rinvenire l’elemento soggettivo della colpa, seppur cosciente.

In ogni caso, dovrebbe essere esaminato con attenzione a tali fini il contesto in cui si inserisce l’azione. Infatti, non può essere secondaria la considerazione in ordine agli elementi offerti in valutazione al soggetto agente, tra cui l’ambito di emergenza epidemiologica nel quale si presentano i sintomi, che assumono una rilevanza differente e meritano una attenzione rafforzata rispetto ad un contesto ordinario. Inoltre, alla consapevolezza del rischio per soggetti terzi dovuta ai sintomi si accompagna l’eventuale scelta di entrare a contatto con gli stessi in un ambiente chiuso e per un periodo di tempo prolungato, aggravando la probabilità di cagionare nuovi contagi.

Può accadere, infine, che un soggetto “sospetto” (poiché affetto da sintomi compatibili con la COVID-19) acceda in un ospedale per essere sottoposto ad un intervento chirurgico e nasconda la sua condizione per ottenere comunque la prestazione medica desiderata, rappresentando falsamente il proprio reale stato di salute [11]; oppure, che quest’ultimo – accedendo in pronto soccorso per altra causa – taccia al medico l’esistenza di taluni sintomi legati alla COVID-19.

Sono ancora più gravi, invece, eventi simili a quelli riportati sulla stampa nazionale e che avrebbero interessato il personale del Billionaire Porto Cervo, il noto locale fondato da Flavio Briatore. Da quanto emerso, sembrerebbe che la notizia di possibili contagiati tra i dipendenti fosse nella disponibilità dei gestori, che avrebbero consentito la prosecuzione delle attività programmate nonostante un elevato rischio di contagio per lavoratori e avventori. Il focolaio che ne sarebbe derivato ha spinto la Procura della Repubblica di Tempio Pausania ad iscrivere un procedimento penale e ad avviare le indagini sui fatti.

In una situazione di tal genere, si sarebbe verificata una violazione delle disposizioni del DPCM 7 agosto 2020 rivolte alle attività commerciali, comportando l’attivazione della sanzione amministrativa pecuniaria e la sanzione della chiusura dell’esercizio. Dal punto di vista penale, invece, si potrebbe ipotizzare il concorso in epidemia dolosa per i soggetti coinvolti. Infatti, è fuor di dubbio che in un locale molto affollato, nel quale siano organizzate anche attività per festività quale il Ferragosto, sia altamente probabile che la presenza di personale contagiato possa dare luogo ad un focolaio epidemico – come sembra sia avvenuto.

A prescindere dall’eventuale effettiva diffusione del virus (e – di conseguenza – dai reati che possano essere contestati), occorre verificare se la falsa dichiarazione al medico del pronto soccorso integri di per sé un illecito, quale ad esempio un delitto contro la fede pubblica.

Ed infatti, il medico riveste a tutti gli effetti la qualifica di pubblico ufficiale e l’atto dallo stesso redatto, anche sulla base delle rappresentazioni di sintomi e di origine degli stessi da parte del paziente, è un atto pubblico. Perciò, quid iuris laddove un “sospetto” ometta di riferire i propri sintomi, ne dissimuli la reale consistenza ovvero ometta di riferire elementi potenzialmente ad essi collegati, quale la sua provenienza geografica degli ultimi 14 giorni?

La giurisprudenza di legittimità ha di sovente affrontato il tema delle false dichiarazioni al medico del pronto soccorso, con particolare riferimento alla falsa indicazione dell’origine delle lesioni riportate dall’avventore (ad esempio, lesioni subite in ambiente lavorativo in luogo di lesioni subite in ambiente domestico, oppure lesioni da sinistro stradale in luogo di lesioni derivanti da altra causa) [12]: le discettazioni hanno riguardato la più giusta qualificazione giuridica del fatto ed il conseguente trattamento sanzionatorio – si tratta di falso ideologico del pubblico ufficiale in atto pubblico ex art. 479 c.p. [13] tramite induzione in errore da parte del privato ex art. 48 c.p. [14], oppure falsità ideologica del privato in atto pubblico ex art. 483 c.p. [15]? – senza tuttavia dubitare della rilevanza penale della condotta.

A ben vedere, alla luce dell’attuale situazione emergenziale, è evidente che dalle dichiarazioni rese dal paziente al medico del pronto soccorso possano derivare rilevanti conseguenze in ordine alle modalità di trattamento previste dall’istituto, nonché ai “percorsi” logistici di separazione tra soggetti “negativi”, soggetti “sospetti” e soggetti “positivi”. D’altro canto, il rischio che vi sia confusione (indotta dal mendacio del paziente) tra soggetti potenzialmente affetti dal virus e soggetti affetti da altre patologie potrebbe innescare una vera e propria “bomba epidemica” all’interno di strutture sanitarie che, per definizione, ospitano soggetti particolarmente a rischio.

Un’altra situazione che è potenzialmente foriera di grande confusione – oltre che di un elevato rischio – riguarda il controllo dei genitori sullo stato di salute dei figli che devono recarsi a scuola. Infatti, è stato previsto il coinvolgimento di genitori e tutori per misurare la temperatura agli stessi e per verificare l’insorgenza di eventuali altri sintomi rilevanti da COVID-19. Tuttavia, è possibile che tali controlli siano omessi o che, addirittura, si nasconda volontariamente la possibile malattia del figlio. In questo caso, la semplice violazione di tali disposizioni (contenute nell’Allegato 21 al DPCM 7 agosto 2020) potrebbe portare all’applicazione della sanzione amministrativa già citata in precedenza. Ma, anche qui, una condizione di palese violazione consapevole dell’obbligo unita alla condizione di positività successivamente riscontrata, aprirà spazi sempre più significativi di responsabilità penale.

E nel caso in cui venga espressamente richiesto ai genitori, come accaduto in Piemonte, di certificare la temperatura rilevata a casa sul diario dello studente o su un apposito modulo? In questo caso, trattandosi di una dichiarazione rivolta ai docenti scolastici, che sono a loro volta pubblici ufficiali [16], la condotta dei genitori potrebbe avere rilevanza penale, in particolare ex art. 495 c.p. – “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri” [17] – o ex art. 496 c.p. – “False dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o di altri” [18].

Inoltre, in taluni casi, si è resa evidente la paura diffusa di rappresentare il proprio status di soggetto sintomatico alle autorità sanitarie. Le motivazioni sottese possono essere le più varie, dal timore di non poter lavorare fino alle difficoltà derivanti dal sensazionalismo attribuito ad ogni notizia di positività. In particolare, visto il facile panico generato dalla notizia di un tampone “positivo” all’interno di una comunità – lavorativa, scolastica, istituzionale – è fin troppo semplice rischiare di essere additati come dei manzoniani “untori” che hanno introdotto la malattia in quel contesto, anche se incolpevolmente contagiati.

Mentre l’orizzonte dei vaccini e delle cure salvifiche rimane ancora incerto e comunque distante, l’unica protezione sociale possibile è contenere il contagio attraverso comportamenti virtuosi o, quantomeno, rispettosi delle regole di distanziamento sociale (tra cui, prima fra tutte, l’obbligo assoluto di non esporre altri al contatto in presenza di sintomatologia o rischio rilevante). Ma, ancor prima, è necessario non mentire a sé stessi e, soprattutto, alla collettività, non solo quando sia richiesta la compilazione di un modulo diretto al pubblico ufficiale, ma anche quando il presupposto della socialità sia la mancanza di sintomi e di rischio.

Di fronte alla pandemia non esistono bugie innocenti e i bugiardi, così come coloro che non rispettano le regole di protezione e di distanziamento, vanno puniti severamente per evitare che le bugie diventino sempre più contagiose.

RIFERIMENTI:
Si intenda per soggetto negativo l’individuo che non risulti positivo all’infezione da Sars-Cov-2
Art. 2, comma 2 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali”.
“Quarantena e responsabilità penale – Violazioni delle misure dei DPCM COVID-19 e fattispecie penali(Dalla inosservanza dei provvedimenti dell’autorità all’omicidio preterintenzionale, passando per le lesioni volontarie, fino a giungere alle ipotesi di epidemia dolosa e colposa)”. https://www.devita.law/quarantena-e-responsabilita-penale/
Ordinanza 16 agosto 2020 del Ministro della Salute, http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=5022.
La dottrina ritiene che quella introdotta dall’art. 4, comma 6 del d.l. 19/2020 sia una vera e propria figura autonoma di reato, che rimanda alla contravvenzione ex 260 R.D. 1265/1934 esclusivamente quoad penam. Cfr. Giurisprudenza Penale n. 4 del 2020, Matteo Grimaldi, “Covid-19: la tutela penale del contagio”.
nota n. 3: “La condotta in parola è in astratto compatibile con il reato di lesioni personali dolosedi cui all’art. 582 c.p. il quale prevede, al primo comma, che “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.” È questa una fattispecie di delitto a forma libera, che si perfeziona al momento della causazione di una malattia fisica o mentale, il cui trattamento sanzionatorio (e regime di procedibilità) è calibrato innanzitutto in relazione alla gravità della lesione causata, oltre che alla sussistenza di ulteriori aggravanti. Inoltre, il nostro ordinamento prevede anche un’ipotesi delittuosa di lesioni colpose, ai sensi dell’art. 590 c.p.”.
Quest’ultimo costituisce la forma colposa del delitto previsto dall’art. 438 c.p. e prevede che “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo. Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte]” (quest’ultima sostituita all’interno delle disposizioni che la prevedevano con la pena dell’ergastolo). Si tratta di un reato posto a tutela dell’integrità pubblica e della salute della collettività, che si integra laddove alla condotta di diffusione dei germi patogeni segua un’epidemia. Quest’ultima è integrata da una “facile trasmissibilità della malattia ad una cerchia ancora più ampia di persone” [Cass. Sez. I, n. 48014 del 26.11.2019, Talluto]. Si consuma nel momento in cui alla condotta della diffusione segua l’epidemia. Nel diritto penale e nella giurisprudenza della Cassazione, il fenomeno epidemico viene definito come “una malattia contagiosa con spiccata tendenza a diffondersi, sì da interessare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, un numero rilevante di persone, una moltitudine di soggetti, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e agevole propagazione del contagio, un pericolo di infezione per una porzione ancora più vasta di popolazione” (Ibidem) [ “Quarantena e responsabilità penale” cit.].
https://bologna.repubblica.it/cronaca/2020/09/11/news/positiva_al_covid_va_al_test_di_medicina_a_bologna-266922611/
https://www.agi.it/cronaca/news/2020-09-26/avvocati-positivi-covid-infettano-coronavirus-tribunale-roma-9770917/
https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/09/13/news/coronavirus_il_codacons_denuncia_de_laurentiis_per_edpidemia_dolosa-267187930/?refresh_ce
https://torino.repubblica.it/cronaca/2020/03/16/news/aosta_tace_i_sintomi_del_coronavirus_durante_la_rinoplastica_e_contagia_tutta_l_e_quipe_chirurgica-251466854/?refresh_ce
Cass. Sez. V n. 37971 del 28.07.2017, Cass. Sez. V, n. 32759 del 29.05.2014.
479 c.p.: “Il pubblico ufficiale che ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell’art. 476.”
48 c.p.: “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.
483 c.p.: “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni. Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre mesi.”
Come statuito più volte dalla Cassazione, l’insegnante scolastico è un pubblico ufficiale e “l’esercizio delle sue funzioni non è circoscritto alla tenuta delle lezioni, ma si estende alle connesse attività preparatorie, contestuali e successive (…)” (Cass. pen., Sez. V, 3 aprile 2014, n. 15367).
495 c.p.: “Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni. La reclusione non è inferiore a due anni:1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile;2) se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali è resa all’autorità giudiziaria da un imputato o da una persona sottoposta ad indagini, ovvero se, per effetto della falsa dichiarazione, nel casellario giudiziale una decisione penale viene iscritta sotto falso nome.”
496 c.p.: “Chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli precedenti, interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell’altrui persona, fa mendaci dichiarazioni a un pubblico ufficiale o a persona incaricata di un pubblico servizio, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.”