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LA CULTURA DELLA PENA ALLA PROVA DEL CONTAGIO. RIFLESSIONI SU CARCERE E VIRUS. – DI RICCARDO DE VITO

LA CULTURA DELLA PENA ALLA PROVA DEL CONTAGIO. RIFLESSIONI SU CARCERE E VIRUS. – DI RICCARDO DE VITO

di Riccardo De Vito*

1. Sound of Silence. 2. Due mondi, un destino. 3. Dalle nostre parti. 4. Con uno sguardo oltreoceano. 5. Curare il carcere.

1.     Sound of Silence.
 
Mi chiedo che senso abbia prendere carta e penna per scrivere ancora di carcere e pandemia. La politica snocciola soddisfatte cifre irrisorie in termini di contrasto al sovraffollamento – i cinquanta detenuti scarcerati grazie al ‘Cura Italia’ – e il silenzio dei grandi giornali ricopre i muri delle galere.
Inevitabile, dunque, chiedersi perché ci si debba ostinare a disturbare il suono del silenzio.
È la domanda, in fondo, che nel toccante capolavoro di David Linch, The Elephant Man, si poneva il dottor Frederick Treves, alle prese con la cura del deforme Joseph Merrick. Il bivio è morale: da un lato il tentativo e la volontà di poter smuovere le acque, cambiare le cose; dall’altro, di fronte alla frustrazione dell’inerzia, l’illusione consolotaria della coscienza a posto.
Tutto sommato, però, la motivazione viene proprio dalle parole di Merrick, l’uomo dalla testa mostruosa nascosta nella cella di un sacchetto bucato: “la gente ha paura di ciò che non riesce a capire”.
Ecco, per le prigioni vale la stessa cosa. Collocate sempre più spesso fuori della mappa dei centri urbani, un po’ come i lazzaretti ai tempi del Santo di Assisi, esse sono oggetto di una rimozione collettiva, di una rinuncia a vedere e capire. Quando il discorso pubblico lambisce il carcere e i suoi ospiti, dunque, quasi sempre riesce a iniettare paura: c’è un noi buono fuori che va protetto da (e a scapito di) un “loro cattivo” dentro. È lo slogan che circola e sentiamo ripetere anche in questi giorni: in periodi di pandemia, ci mancano pure i delinquenti in giro per le strade.
Questo tipo di racconto rende l’acqua torbida e non favorisce l’intelligenza delle cose. E, allora, scrivere può contribuire almeno a erodere un po’ le incomprensioni, le paure e a far avvicinare due mondi, liberi e reclusi, che non devono e non possono rimanere separati.
 
 
2.     Due mondi, un destino.
 
È stato detto più volte. Porsi il problema della tutela della vita e della salute dei detenuti ai tempi del coronavirus non significa solo stare con i piedi ben saldi nel solco tracciato dall’art. 27 della Costituzione. Sarebbe un motivo sufficiente, sia chiaro. L’esecuzione penale moderna – il carcere disciplinare ancora dominante – può (purtroppo) minare l’anima dei detenuti, lambire il corpo con la durezza dei regimi differenziati, ma non può prendersi la vita e la salute dei ristretti, né può esporli a trattamenti inumani e degradanti.
I pozzi della coscienza collettiva, però, sono avvelenati dai germi del populismo rancoroso, fuoriusciti dagli stabulari del consenso elettorale. Per questo motivo si è costretti a riaffermare che preoccuparsi del carcere, oggi, vuol dire anche prendersi cura della salute e della vita di tutta la popolazione, non solo di quella carceraria.
Qualora le parole dei giuristi non bastassero, si potrebbe ricorrere con vantaggio a quelle limpide e risolutive  dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, Regional Office for Europe, Prepardness, prevention, and control of Covid-19 in prisons and other places of detention, Interim Guidance, 15 marzo 2020[1]): «l’esperienza dimostra che carceri, prigioni e altri ambienti dove le persone sono costrette alla promiscuità possono funzionare da fonte di infezione, amplificazione e diffusione delle malattie infettive all’interno e all’esterno del carcere». E ancora: «Prison health is therefore widely considered as public health»: la salute in carcere è salute pubblica.
Questo concetto sembra ormai diffondersi a ogni latitudine geografica e politica.  Dell’Iran, con i suoi circa novantamila ristretti scarcerati per prevenire il contagio dentro e fuori il carcere, già sappiamo. La stessa cosa accade in India, dove lo scorso 23 marzo la Corte Suprema ha ordinato a tutte le istituzioni competenti di valutare il rilascio in libertà vigilata dei detenuti con condanne inferiori a sette anni. In quest’ordine di idee, il 29 marzo la direzione del carcere di Tihar, Nuova Delhi, ha rilasciato oltre quattrocento detenuti (i primi di un totale di tremila previsti) nel tentativo di decongestionare una delle più grandi prigioni dell’Asia meridionale.
Dalle colonne di Ahval, il giudice Yavuz Aydin, esiliato a Bruxelles, ha annunciato che il legislatore turco si sta affrettando a scrivere un testo di legge per liberare circa un terzo delle trecentomila persone detenute all’interno delle prigioni della Turchia (lasciando colpevolmente fuori dal raggio di azione, e dunque dentro, i detenuti politici).
La stessa cosa, con numeri minori, accade in Libia, nelle carceri di Tripoli.
Anche il Presidente Donald Trump, nell’America campione dei numeri dell’imprigionamento, sta valutando la liberazione dalle prigioni federali dei detenuti più anziani, vulnerabili e meno pericolosi, dopo che il virus ha fatto ingresso nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn.
L’imperativo di prevenire il dilagare del virus in carcere, dunque, sembra ben presente alle classi dirigenti a livello mondiale, indipendentemente dalla forma di Stato nella quale si trovano ad operare.
Cosa accade, invece, dentro i nostri confini? 
 
 
3.     Dalle nostre parti. Con uno sguardo oltreoceano.
 
La risposta della politica nazionale all’emergenza carcere è stata deludente. La soluzione del decreto ‘Cura Italia’ – una detenzione con più paletti dell’esecuzione della pena presso il domicilio per gli ultimi diciotto mesi, agganciata peraltro alla disponibilità di braccialetti elettronici ancora da distribuire (o da costruire?) – consentirà la scarcerazione di pochissimi detenuti, lasciando intatto il problema.
All’inerzia della politica fa fronte in parte il lavoro di avvocati e magistrati, che ogni giorno chinano la testa sul “caso per caso” e provano, attraverso l’interpretazione del panorama normativo attuale, a rendere il carcere meno affollato e più conforme alle esigenze di prevenzione e cura.
Di un carcere con meno numeri, infatti, hanno bisogno gli operatori del penitenziario italiano – direttori, agenti, educatori, sanitari, volontari – che, giorno dopo giorno, entrano negli istituti e con determinazione ammirevole gestiscono l’emergenza di un sistema in precario equilibrio tra una capienza effettiva di quarantasettemila posti e una popolazione di cinquantanovemila persone.
Soltanto adeguando le presenze ai posti realmente disponibili, ossia riportando lo stato di fatto allo stato di diritto, si potranno adottare le misure strategiche per evitare la diffusione del contagio all’interno delle strutture detentive. Preme evidenziare ancora una volta quali siano: mantenimento del necessario distanziamento fisico e delle regole di igiene; precoce individuazione dei casi sospetti e diagnosi dei positivi; isolamento dei primi e quarantena dei secondi; ampliamento delle piante del personale sanitario (possibilmente dotato, come gli altri operatori del carcere, di dispostivi individuali di protezione); intensificazione della capacità di cura, con particolare riguardo alle malattie respiratorie.
C’è poi da dire che la responsabilità della Repubblica nei confronti dei detenuti non si esaurisce nella garanzia di cure del medesimo livello di quelle rivolte a tutti i cittadini. La vulnerabilità, anche psichica, di un paziente rinchiuso in prigione è di gran lunga maggiore rispetto a quella di un soggetto libero e anche di questa maggiore fragilità occorre farsi carico attraverso tutti i supporti possibili, dalla piena informazione sull’adozione di restrizioni a tutela della salute all’incremento degli strumenti audiovisivi di comunicazione, dalla possibilità di ricevere notizie dall’esterno alle visite delle autorità garanti della legalità all’interno del carcere. Insomma, la tutela della salute deve andare a braccetto con la tutela dei diritti fondamentali, perché il rischio di trattamento inumano o degradante è sempre dietro l’angolo.
Anche per questo in carcere servono spazi e serve che le risorse siano destinate a un lavoro efficace e di qualità (parola che, purtroppo, in galera entro poco).
In quest’ottica di ripristino della legalità dei numeri si muove la magistratura di sorveglianza, impegnata nel dare un senso costituzionale all’emergenza e nel continuo e meticoloso bilanciamento tra le esigenze di tutela della salute e quelle di difesa sociale. Vengono in gioco, in questa fase di presidi e di sospensione delle udienze, tutti gli strumenti offerti dall’ordinamento penitenziario (alcuni dei quali messi a punto ai tempi ustionanti[2] della sentenza Torreggiani), dalle misure alternative provvisorie all’esecuzione pena presso il domicilio, dalla flessibilizzazione dei permessi al differimento della pena per ragioni di salute nelle forme della detenzione domiciliare. Sullo stesso binario si pone la magistratura inquirente e giudicante, occupata a velocizzare le istruttorie e le valutazioni delle istanze di sostituzione delle misure di custodia cautelare in carcere.
Anche sul versante della giurisdizione, come su quello della legislazione, uno sguardo fuori dai confini nazionali può essere utile.
Il 27 marzo 2020 la U.S. District Court – Eastern District of Michigan, Southern Division[3] ha disposto il temporary release di un indagato in custodia cautelare per due motivi: il pericolo per la salute del detenuto (già gravata da sintomi simil-influenzali, glicemia, pressione alta e problemi di tiroide) costituito dal possibile diffondersi dell’epidemia all’interno del carcere della contea di Saginaw e l’impossibilità per l’imputato stesso, anche a causa della pandemia, di preparare da remoto una adeguata difesa processuale.
C’è da riflettere a leggere la decisione della Corte americana, con quel suo stile di cose denso di riferimenti a decisioni dello stesso tenore, documenti delle autorità di sanità pubblica e notizie di giornale. Permette di comprendere, prima di tutto, come per la giustizia americana la questione del rapporto tra virus e carcere non sia soltanto una questione di garantismo.
È rilevante, ad esempio, leggere che le autorità del Michigan stanno tentando di abbassare il tasso di popolazione detenuta, a partire dalla scarcerazione di quelle persone che, proprio perché dietro le sbarre, presentano un rischio più alto di contrarre il virus rispetto al resto della popolazione e di ammalarsi in forme più gravi. Allo stesso modo, nella serrata motivazione evidence-based, si legge che le strutture penitenziarie e più in genere i centri di detenzione (anche per migranti non regolari) «rappresentano sfide decisive per il controllo della trasmissione del Covid-19 tra detenuti, personale e visitatori» e, di conseguenza, per la tutela della salute di tutta la comunità.
Sarebbe bene che queste parole arrivassero anche alle orecchie della politica nostrana e a quelle degli editorialisti della certezza della pena ad ogni costo.
Vi è un altro passaggio rilevante della decisione, e non sembri un fuor d’opera metterlo in evidenza ora. Il detenuto del Michigan viene scarcerato anche perché non è in grado di approntare, con il suo avvocato, una difesa processuale adeguata: la comunicazione da remoto e via telefono, oltre a essere defatigante, non garantisce tutela della riservatezza. Sono righe che contengono un warning importante, da estendere ai tanti cantori nostrani delle meraviglie del processo penale a distanza. Un processo indispensabile ora, ma pericoloso se rilanciato come paradigma del futuro della giustizia penale liberata dalla peste.
 
 
4.     Curare il carcere.
 
Perché la peste passi e non causi problemi alla popolazione dei penitenziari italiani, però, al di là degli sforzi degli operatori, è necessario l’impegno della politica.
Nel rispondere alle obiezioni del governo americano sull’inopportunità del rilascio preventivo, la citata Corte del Michigan chiarisce che attendere che l’imputato sia contagiato effettivamente, o che nel carcere ove è ristretto esploda un focolaio, rischierebbe di rendere il provvedimento inutile e tardivo, con conseguenti devastanti per l’imputato stesso e con gravi problemi di salute e sicurezza per la popolazione detenuta e per la comunità in generale.
Insomma, mai come questa volta prevenire è meglio che curare, anche perché la cura potrebbe rivelarsi difficile o impossibile.
C’è da auspicare che il decisore politico italiano non resti insensibile a questo insegnamento. Tante sono le soluzioni, le proposte e le alternative efficacemente adottabili per ridurre il sovraffollamento strutturale in tempi rapidi e senza creare pericoli per la sicurezza sociale; provengono dalle associazioni, dall’avvocatura penalistica, dai professori di diritto penale, dalla magistratura. Una rapida ricognizione, non esaustiva, può servire ancora una volta: detenzione domiciliare infrabiennale previo accertamento della sola idoneità del domicilio, differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare per pene residue inferiori a tre/quattro anni; liberazione anticipata speciale, monetizzazione della liberazione anticipata[4], sospensione dei nuovi ordini di esecuzione.
Quello che occorre, tuttavia, è un passo avanti culturale. È necessario confrontarsi apertamente con l’idea che la popolazione detenuta è parte integrante della collettività di questo Paese e mai come in questo momento ne condivide il destino. Lo ha scritto, saggiamente, il Presidente della Repubblica, che per manifestare la sua attenzione all’emergenza carceraria ha scelto di rispondere a una lettera indirizzatagli dai detenuti degli istituti di Padova, Vicenza e Venezia[5].
L’intervento della politica servirebbe anche a questo: ricucire il rapporto tra interno e esterno, ridurre la distanza tra noi e l’altro e iniziare, così, a ricostruire un futuro della penalità penitenziaria nel quale i condannati non siano esiliati dall’agenda della politica e della società. Cogliere l’occasione, insomma, per capire che nella difficile opera di rieducazione la comunità dei liberi non può chiamarsi fuori.
Del resto, in questi giorni, qualcosa iniziamo a sperimentare.  Quando il nemico è esterno (si passi solo per questa volta l’odiosa e inappropriata metafora bellica) si capisce più facilmente che anche i cattivi, come i pistoleri e le prostitute di Ombre Rosse, sono fatti della stessa pasta dei buoni. Si afferra, anche, che alla logica dell’incapacitazione è preferibile quella della responsabilizzazione e della risocializzazione. È sufficiente mettere gli occhi nei reparti delle prigioni d’Italia per capire con quale moneta i detenuti ripagano: le sartorie delle carceri campane sono pronte a produrre mascherine, mentre i detenuti di Massa ne sfornano già cinquemila al giorno; a Poggioreale, così come a Imperia e Palermo, i condannati sono pronti a donare il sangue; alla Giudecca le detenute del femminile mettono da parte i loro risparmi per le terapie intensive dell’ospedale di Mestre, mentre i compagni di detenzione delle prigioni venete riconvertono la produzione di saponi in quella di gel igienizzanti e raccolgono collette per medici e sanitari; a Vercelli si rinuncia a parte del pasto in favore dei non abbienti.  Non riesco, in questo momento, a ricordare e mettere insieme tutti i contributi che arrivano dai reclusi di ogni parte d’Italia. Sono, allo stesso tempo, gesti di solidarietà e di protesta pacifica per richiamare l’attenzione sulle condizioni del carcere, drammatiche non soltanto in questi giorni di pandemia, ma in questi giorni assai più intellegibili. Scrivere ancora di carcere, dunque, può servire anche a raccontare e testimoniare questi episodi.
Ascoltiamo i detenuti di Imperia: «Ci rendiamo disponibili nel fare una donazione di sangue volontaria. Questo per ribadire la nostra attenzione solidale alla situazione d’emergenza. Restiamo però ‘disponibili’, visto che nelle nostre condizioni non possiamo fare di più. Vorremmo dimostrare il nostro impegno nell’emergenza in corso, facendo la nostra parte nel mondo e per il mondo».
Loro si sentono parte del mondo, ma il mondo, troppo spesso, sembra dimenticarsi di loro. Se volessimo trarne una lezione, scopriremo non soltanto come difendere il carcere dal contagio, ma anche come curare il crimine.     
 

 
*Magistrato di sorveglianza in Sassari, Presidente di Magistratura Democratica


[1] Il testo delle linee guida è rinvenibile in www.euro.who.int, nonché in www.fuoriluogo.it, con brevi note di commento.
[2] L’espressione, icastica, è di G. Giostra, L’emergenza carceraria non è un incendio al di là del fiume, in questa Rivista, 28 marzo 2020.
[3] L’intera decisione è pubblicata, con una nota di M. Ruotolo, in www.dirittopenitenziarioecostituzione.it , insieme ad altri importanti documenti che consentono una panoramica su come nel mondo si affronta il tema del carcere (più in genere: delle strutture detentive) ai tempi del virus.
[4] È la proposta di G. Giostra, esplicitata anche su questa Rivista.
[5] La lettera è comparsa su Il Gazzettino, 23. 3. 2020.