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LA METAMORFOSI DELLA MAGISTRATURA: DA ORDINE A POTERE – DI GIUSEPPE GARGANI

LA METAMORFOSI DELLA MAGISTRATURA: DA ORDINE A POTERE – DI GIUSEPPE GARGANI

GARGANI – LA METAMORFOSI DELLA MAGISTRATURA DA ORDINE A POTERE.PDF

di Giuseppe Gargani*

Alcuni principi fondamentali, come la concezione del reato, la potestà dello Stato di infliggere la pena con un processo giusto, il significato della pena erano consolidati nella nostra tradizione giuridica e trascritti nella Costituzione. Perché sono stati superati? La risposta è complessa ma diamo una spiegazione sintetica partendo dal valore della legislazione e del ruolo che in questi anni ha assunto il magistrato.

Qualche giorno fa il prof. Giovanni Fiandaca ha pubblicato un lungo articolo con una analisi puntuale sulla questione giustizia e in particolare sul “magistrato da combattimento”. Fiandaca tocca il cuore del problema della magistratura e con argomentazioni incontestabili sostiene che il “modello di magistrato da combattimento è un modello estremistico in senso oltranzista sino al punto di sollevare problemi di compatibilità con la stessa funzione di magistrato”, perché “il dogmatismo accusatorio e il fanatismo repressivo, che caratterizzano l’opera giudiziaria di questo tipo di pubblici ministeri come il Di Matteo” e altri, “porta ad esternazioni pubbliche contro quanti non condividono lo stesso estremismo antimafioso”.

L’autore aggiunge che “l’anima del diritto contemporaneo è un bilanciamento tra valori, diritti ed esigenze di tutela spesso in conflitto, che viene disconosciuta da settori politici e dalla magistratura soprattutto in quella più impegnata nel contrasto alla criminalità, “per cui non vi è più una diversità fisiologica tra il ruolo del giudice e il ruolo di accusatore, ma addirittura una divergenza di veduta che riguarda il modo di concepire i principi basilari dell’ordinamento penale”.

Lo scritto di grande rilevanza merita un commento adeguato perché contiene una diagnosi puntuale dell’evoluzione e al tempo stesso della involuzione del diritto e non solo in Italia, della crisi della norma che non riesce più a regolare fattispecie astratte e generali, per cui la scienza del diritto e i canoni sacrosanti che hanno regolato la sua applicazione, attraverso il dettato formale della legge, vengono completamente stravolti.

Eppure quei principi fondamentali, come la concezione del reato, la potestà dello Stato di infliggere la pena con un processo giusto, il significato della pena erano consolidati nella nostra tradizione giuridica e trascritti nella Costituzione.

Perché è avvenuto tutto questo?

La risposta è complessa ma diamo una spiegazione sintetica partendo dal valore della legislazione e del ruolo che in questi anni ha assunto il magistrato.

La novità principale riguarda la funzione, appunto, del giudice nella società moderna, profondamente diversa da quella prevista dalla Costituzione che non si identifica più con “l’ordine autonomo” ma con un vero e proprio “potere”. Il giudice è andato acquisendo, e non solo in Italia, un potere che non appartiene alla tradizione dello stato di diritto, perché il significato nuovo e assorbente della giurisdizione ha di fatto superato il dettato costituzionale che indicava la magistratura come, “bocca della legge”.

Il rapporto istituzionale si è rotto perché il potere legislativo non è stato in grado di prendere atto delle profonde modifiche che effettivamente sono intervenute nel campo della giustizia e di intervenire per regolare quel potere, perché il tradizionale “ordine neutro” è inadeguato a chi opera per la assoluta preminenza della giurisdizione.

La espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio dei poteri così come l’aveva concepito Montesquieu, come netta separazione.

Il Parlamento approva leggi sempre più e generiche e vuote assegnando di fatto un ruolo di supplenza alla magistratura, la quale non si sente più sottoposta alla legge ma in qualche modo si pone davanti alla legge.

Quando i Costituenti scrissero la Costituzione la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo nel senso che la certezza del diritto garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità dalle passioni politiche.

L’accresciuto rilievo della giurisdizione nelle democrazie moderne è un fenomeno nuovo ed è doveroso prenderne atto per determinare un nuovo equilibrio e quindi un rinnovamento reale dello Stato: bisognerebbe modificare la Costituzione, ma questo è un altro discorso.

L’organizzazione politica non riesce a rappresentare e a soddisfare le istanze sociali, sempre più complesse, molteplici e differenziate, e il potere giurisdizionale prevale su quello politico. Carl Schmitt, si chiedeva se ponendosi i magistrati come “custodi della Costituzione” così come in l’Italia si vuole che sia, non si rischiasse di produrre non una qualche giurisdizione della politica ma una “politicizzazione della giurisdizione”!

Il fatto è che questa nuova funzione del magistrato è priva di quel controbilanciamento culturale e normativo che è proprio di uno Stato forte che garantisce i diritti attraverso la legge, a cui fa riferimento Fiandaca.

Questo processo non è limitato all’ Italia, ma è presente in Europa e fuori Europa, tant’è che Robert H. Bork dell’Università di Yale conclude il suo libro “Il giudice sovrano“ con queste parole: “la rivoluzione politica porta con sé una rivoluzione culturale: leggendo le opinioni di molti giudici sembrerebbe che essi ormai credono che la propria missione sia quella di proteggere la civiltà… L’attivismo giudiziario, per le sue caratteristiche, incrina le fondamenta su cui sono basate le democrazie occidentali. Se non comprendiamo il deterioramento della funzione giudiziaria a livello mondiale, non potremo capire la portata della rivoluzione politica che sta avvenendo in tutte le nazioni occidentali e che sta portando alla graduale ma incessante sostituzione del Governo dei rappresentanti eletti con quello dei giudici nominati”.

Dunque questa problematica riguarda la magistratura nella sua funzione fondamentale e nel suo rapporto con gli altri poteri dello Stato, ma si riferisce in particolare al pubblico ministero.

Nel vecchio processo penale italiano il pm aveva un ruolo diverso da quello attuale: istruiva il processo inquisitorio nel senso che raccoglieva le “prove” e portava il suo elaborato, il suo fascicolo, al giudice; nella concezione del “nuovo” (si fa per dire!) processo accusatorio il pm è dominus dell’accusa, ma gli indizi che raccoglie se consistenti e univoci debbono diventare “prove” nel contraddittorio, dinanzi al giudice. La dialettica processuale colloca il pm in posizione dialettica rispetto allo stesso giudice, lo individua come “parte” e dà rilevanza al giudice “terzo”, al di sopra delle parti.

Questa l’impostazione del codice a cui demmo vita alla fine degli anni ‘80 e che regolammo sotto la guida del grande giurista Vassalli, ma alle prime esperienze dimostrò la sua debolezza, per la impreparazione dei protagonisti nel processo ma soprattutto per il “contributo” della Corte Costituzionale che io denunziai sin dal 1998 in un libro che aveva un titolo molto significativo “ In nome dei pubblici ministeri”, dove scrivevo “che il processo ha acquistato un valore diverso, né accusatorio né “nquisitorio; un ibrido”

“Le sentenze della Consulta hanno demolito il codice “Vassalli”: stabilendo, in sostanza, che le regole che determinano la formazione della prova non sono uguali nella fase preliminare e in quella processuale. Viene ribadita la rigidità procedurale della determinazione della prova nel dibattimento, ma si sostiene che, nella fase istruttoria, qualunque “progetto di prova”, qualunque testimonianza, anche quella de relato, vale come prova, proprio perché propedeutica al dibattimento.

Questa valutazione diversa della prova è diventato il cavallo di Troia su cui si sono allargate a dismisura le maglie per i provvedimenti restrittivi, perché “per arrestare l’indiziato, ogni valutazione della prova, rispetto alle regole cogenti del dibattimento, è un progetto di prova, ed è “quasi prova”. Questo ha consentito un appannamento delle garanzie individuali ed è stato il prodotto finale della strategia giudiziale: relativizzare la prova contraddice il significato più profondo della codificazione.

A mio avviso anche per questa ragione il pm ha maturato un ruolo diverso e preminente nel processo mettendo in qualche modo in ombra la funzione del giudice, perché non è spinto dalla “notizia criminis” a fare le indagini, ma è il “ricercatore” delle notizie di reato per indagini a tutto campo, tutelato dalla obbligatorietà dell’azione penale che naturalmente gli lascia il massimo della discrezionalità.

Questo ha determinato, una confusione con le funzioni del giudice che si è acuita in un periodo di scontri tra la magistratura e i partiti della maggioranza governativa nel lungo periodo di “Mani Pulite”.

Ma se facciamo un passo indietro registriamo una dialettica molto vivace  all’interno della stessa magistratura, con approfondimenti culturali proprio in riferimento alle cose prima descritte, che ha dato vita ad una corrente di sinistra, “magistratura democratica”, che aveva cominciato a teorizzare una funzione diversa del giudice per la funzione diversa della giustizia, per la evoluzione che la società aveva avuto, per la natura stessa delle leggi che delegavano sempre più al magistrato una funzione di supplenza.

Da allora il rapporto tra il potere politico e il potere giudiziario non ha avuto valore istituzionale ma ha accentuato gli aspetti politici e partitici che voglio qui approfondire.

La corrente di Magistratura democratica è nota come corrente “politica” molto autorevole e capace di contestare, come fece al Pci negli anni ’80, la mancanza di controllo politico e di una opposizione reale nei confronti dell’esecutivo, il che ha determinato come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. “Il controllo giurisdizionale – diceva nei vari proclami la rivista “Quale Giustizia” – istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all’accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato, per una molteplice serie di motivi, perché è stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale”.

“È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall’intervento giudiziario” per cui succede che spesso l’unica attività di controllo sia rappresentata dal controllo giudiziario, che si trasforma in controllo politico nella misura in cui ha come conseguenza di incidere sulla via politica dello Stato”.

Queste “teorizzazioni” le ho ricordate varie volte perché, con l’esperienza di tutto quello che è accaduto negli anni successivi, costituiscono il manifesto per l’intera magistratura che ha consentito un suo ruolo in qualche modo antisistema.

Alle motivazioni più generali si aggiungono quelle più peculiari che hanno conseguenze sul significato del processo e sul ruolo della giustizia che hanno prodotto varie inchieste da quella di “Mani Pulite” a quella sulla trattativa tra lo Stato e la Mafia.

Tutto arriva in capo ai magistrati ed il giudice diviene inevitabilmente riferimento etico non giuridico, ha il compito di garantire la legalità, come si legge di sovente e stabilire che cos’è il bene e che cos’è il male, fuori dalle fattispecie giuridiche. Funzione questa molto pericolosa e anomala del giudice e ancora di più del pubblico ministero perché entrambi non garantiscono la legalità ma sono chiamati a reprimere la illegalità.

Il ruolo di supplenza della magistratura è diventato negli anni vistoso man mano che la politica ha perduto prestigio e consenso e ha delegato, nella impossibilità di decidere.

Di tutto questo hanno approfittato i partiti di sinistra e il PCI in particolare, i quali attraverso una strategia giudiziaria avevano intravisto la possibilità di sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riusciti a ridimensionarli attraverso il confronto elettorale.

Il PCI spinto dagli eventi internazionali nel 1984 e dalla crisi del blocco sovietico cominciò ad andare in crisi sul piano ideologico e organizzativo, e scoprì la “questione morale” di cui si fece paladino facendola diventare una questione politica.

Il leader del PCI Enrico Berlinguer voleva utilizzare il rigore morale come leva contro la corruzione: era lo stesso obiettivo della corrente di magistratura democratica che formava i magistrati per “lottare” contro la corruzione, contro la mafia, contro il potere politico.

Il PCI ma anche altri ambienti interessati ad un cambiamento politico hanno accompagnato e esaltato quest’evoluzione della magistratura che da “ordine autonomo”, è diventato “potere”.

È questa la ragione che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere su di sé una sorta di arbitraggio della questione sociale e tutelare appunto le ragioni delle parti sociali in antagonismo tra loro.

Il magistrato si immedesima nelle lotte sociali e la giurisprudenza si sostituisce alla legge, che è incerta e approssimativa e non riesce a dare indicazioni precise e quindi delega al “potere giudiziario”.

Ormai anche nelle requisitorie o nelle sentenze è valsa l’abitudine di fare valutazioni non riferite all’indagato o all’imputato ma al “sistema” delle amministrazioni e della politica per cui la condanna è alla corruzione, alla devianza, e l’attività giurisdizionale è finalizzata, a far vincere il bene sul male!

La magistratura ha perduto un po’ della sua indipendenza, che è garanzia democratica del sistema e della divisione dei poteri, e ha accentuato la sua autonomia e la sua separatezza.

La conseguenza inevitabile è che l’azione penale viene svolta con il consenso del popolo e quindi il giustizialismo trionfa alimentato dalla propaganda e dalla stampa.

Il contatto diretto tra magistrati e opinione pubblica è infatti enfatizzato oltre misura dalla stampa e rischia di modificare profondamente il senso di giustizia e il rapporto con la giustizia nella nostra società.

Dunque la giustizia è ricercata in piazza, fuori dalla mediazione della norma di cui parla Fiandaca e ha uno spazio proprio di discussione.

Il grido “vogliamo giustizia” che si ripete ricorrentemente anche nelle aule dei tribunali che è il contrario della richiesta di applicare la legge rivela una richiesta irrazionale di punizione, di vendetta di una comunità civile priva di solidarietà.

Siamo in presenza di un diritto penale totale, come è stato argomentato, che elimina l’identificazione tra diritto penale e legge.

Se poi ci riferiamo esplicitamente alla strategia antimafia possiamo essere più espliciti e puntuali proprio in riferimento alle argomentazioni di Fiandaca.

La lotta alla mafia viene condotta con valutazioni politiche unilaterali o soltanto ideologiche: era il pericolo denunziato più volte da Giovanni Falcone il quale diceva che “dopo tanti sforzi spesi per far conoscere i connotati dell’organizzazione mafiosa, si finisce per mescolare nel calderone di Cosa Nostra tutto ciò che può assomigliargli: è il modo in cui, se un pentito rivela che un candidato è stata aiutato dalla mafia per interessamento di un altro esponente del suo partito, che invece risulterebbe suo avversario, la rivelazione batte la logica e si va avanti lo stesso“.

È esattamente quello che è successo a tanti imputati politici e non politici vittime di pregiudizi ideologici o più banalmente di un accanimento giudiziario alimentato da un populismo penale punitivo.

È ancora una volta la prevalenza della giurisprudenza sulla legge, e per citare ancora Falcone, ricordo che egli  immaginò sì una rilevanza al concorso esterno all’organizzazione mafiosa, ma “come passaggio di un processo nel quale contestava reati concreti di attività mafiose, un processo tutto costruito, appunto, sul culto della prova”, e quindi per lui “il concorso era un corollario, non un presupposto del processo”, e credo non gli sarebbe mai passato per la testa di arrivare a una tipizzazione penale autonoma del concorso esterno e non avrebbe mai incardinato un processo su questa unica ipotesi di reato!  Ha sempre smentito l’esistenza del “terzo livello” sul quale la procura di Palermo ha fondato i processi di Andreotti, Mannino, Contrada ecc., dove non si è accertato il fatto ma si è andati alla ricerca del fatto.

La conclusione è che il processo penale supera il “fatto” da confermare attraverso la prova e diventa un processo etico che tende a colpire la mafia la corruzione e la devianza in genere al di là dei fatti concreti e appunto delle prove.

Se tutte le condotte per essere condannate devono avere rilevanza penale, la morale pubblica e privata viene mortificata.

L’ analisi che precede è a supporto delle lucide argomentazioni di Fiandaca e spiega da un lato le ragioni più profonde delle prese di posizione di Di Matteo e del Ministro di Giustizia e di tanti altri, che in questi giorni hanno riempito le pagine dei giornali e dell’informazione in generale e dall’altro l’indifferenza e i timidi giudizi dati dalla stessa magistratura nella sua interezza.

Ho già espresso il mio pensiero su questi argomenti ma non posso non rilevare che il moralismo che caratterizza tutte le prese di posizione che abbiamo ascoltato cozza con la morale e con il necessario rigore istituzionale. La rincorsa a chi è più giustizialista e populista è stata vinta dal Ministro di Giustizia! che ha cambiato la legge per smentire e mortificare i magistrati di sorveglianza che nelle loro recenti decisioni hanno dovuto fare quel bilanciamento di interessi e di valori di cui parla Fiandaca.

Viene in evidenza la crisi tremenda del concetto di giustizia, del significato della pena, dei valori della Costituzione che la classe dirigente a qualunque livello non dovrebbe avere, perché quando questi pregiudizi sono alimentati da chi dirige la politica giudiziaria e da chi è chiamato ad applicare la legge, siamo alla grave patologia messa in rilievo da Fiandaca ed effettivamente ad una incompatibilità di ruoli e di funzioni.

Quando Bonafede dichiara che la richiesta di parere del pubblico ministero obbligatoria da parte dei giudici di sorveglianza per le loro decisioni, “garantisce che il detenuto resti in carcere” o esalta il processo perpetuo senza prescrizione come civiltà del diritto e nessuno si scandalizza, neanche in Parlamento, vuol dire che vi è una profonda crisi culturale.

La conclusione è che nei pubblici ministeri manca la “cultura della giurisdizione” che essi ritengono indispensabile per giustificare la funzione unica tra giudice e pm. L’accanimento accusatorio, oggi prevalente, diventa una deformazione professionale che determina a sua volta una distorsione pericolosa per l’equilibrio processuale.

Fiandaca auspica un dibattito culturale che ritiene purtroppo difficile in un periodo di profonda crisi culturale; ma solo “attraverso un dibattito serrato e veritiero, la cultura giuridica potrà individuare la nuova diversa funzione che la magistratura e il giudice debbono assolvere in una società democratica, e potrà dare soluzione al problema che è il principale per la democrazia, altrimenti la politica e le istituzioni soccomberanno”.

*Avvocato, deputato della repubblica nelle legislature VI, VII, VIII, IX, X, XI, parlamentare europeo nelle legislature V, VI, VII