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LA PANDEMIA NON SIA OCCASIONE PER TRAVOLGERE I PRINCIPI – DI ERIBERTO ROSSO

LA PANDEMIA NON SIA OCCASIONE PER TRAVOLGERE I PRINCIPI – DI ERIBERTO ROSSO


di Eriberto Rosso*
 
Il processo da remoto è figlio delle logiche giustizialiste; oralità, immediatezza e collegialità sono valori irrinunciabili, necessariamente condivisi da tutti i protagonisti e gli attori del processo. La mobilitazione contro la smaterializzazione delle udienze e delle camere di consiglio è il banco di prova per la tenuta democratica del nostro sistema penale.
 
Le regole che caratterizzano il nostro processo penale sono il prodotto di tanti interventi legislativi succedutisi in questi anni, quasi sempre ispirati da logiche emergenziali che hanno disegnato un reticolo contraddittorio, non sempre coerente con i principi ispiratori del legislatore dell’88. Alle semplificazioni di stampo inquisitorio e alla previsione di un doppio binario sulle modalità di acquisizione e di valutazione della prova non è riuscito a fare diga neppure l’inserimento in Costituzione dell’art. 111, che consacra i principi del giusto processo. Copertura sovranazionale ai diritti della difesa è peraltro data dalle Carte internazionali e dai pronunciamenti della Corte EDU.
Ogni recente legislatura ha inteso avviare una stagione di riforme del diritto penale sostanziale e del processo penale. Il lavoro dell’Accademia e dell’Avvocatura si è distinto per capacità di proposte e nello sforzo di consegnare alla nostra società strumenti ispirati al diritto penale liberale e, sul piano processuale, meccanismi di miglior salvaguardia delle regole del contraddittorio quale strumento democratico per l’accertamento della responsabilità. Tale impegno, però, è stato sempre frustrato da richiami autoritari e suggestioni emergenziali che hanno tradito lo spirito riformatore e realizzato interventi di erosione delle garanzie difensive, proprio sul piano dell’oralità e dell’immediatezza nella raccolta della prova e nelle regole per la sua valutazione.
Sono stati messi in discussione istituti fondanti la nostra cultura e la nostra tradizione giuridica al punto da diluire il principio di stretta legalità nella descrizione di nuove o nella riscrittura di antiche fattispecie, con fenomeni di autoreferenzialità sul piano della produzione scientifico – normativa della Corte di legittimità, sempre più attratta nella logica della valorizzazione del precedente per la funzione di nomofilachia.
La stagione parlamentare del populismo e del giustizialismo ha inaugurato nuove tecniche di produzione degli strumenti e delle procedure di punizione. Di ciò sono compendio la nuova definizione dei reati contro la pubblica amministrazione con la legge cd. Spazzacorrotti, la riesumazione di idee antiche sulla pena e sulla sua funzione, con baricentro sulla vendetta piuttosto che sul reinserimento sociale, le ipotesi di semplificazione dei passaggi processuali con progetti di riforma in discussione caratterizzati dal disprezzo di principi quali oralità e immediatezza e con l’idea di nuove limitazioni a tutta la filiera delle impugnazioni, ritenuta strumento di salvezza per il colpevole e non realizzazione del diritto dell’imputato ad un secondo giudizio di merito e al controllo di legittimità.
Lo straordinario contesto sociale e politico–istituzionale determinato dalla pandemia pone grandi interrogativi sul piano della produzione di regole per l’emergenza. Divieti e indicazioni che governano l’attuale condizione dei cittadini sono scritti in provvedimenti frutto di inedite prerogative del Presidente del Consiglio o contenuti in ordinanze ministeriali; così hanno preso forma  limitazioni della libertà dei cittadini e della loro autodeterminazione, così si è intervenuti – anche dal punto di vista dell’estensione dei beni giuridici protetti e della qualità della sanzione – su fattispecie incriminatrici, con grande confusione tra il significato della norma penale e la sanzione amministrativa. La funzione del Parlamento è stata relegata a quella di mera ratifica, come il costante ricorso al voto di fiducia – anche in queste ore – ha dimostrato.
Non è qui in discussione la ovvia necessità che le istituzioni di comando del Paese possano prevedere misure di salvezza quali il distanziamento sociale o l’utilizzo delle mascherine per preservare la salute dei consociati. È però sotto gli occhi di tutti come l’inadeguatezza della classe dirigente abbia sconvolto il quadro istituzionale, individuando più centri decisionali ma al contempo rinunciando alla chiara enucleazione di valori per la definizione delle scelte, spesso delegata alle tante improbabili task forces chiamate ad operare lontano da meccanismi di controllo democratico.
Sul piano del processo penale, l’emergenza dettata dalla pandemia è occasione nella quale i giustizialisti tentano prove generali di ottusa semplificazione del percorso giudiziario, per definitivamente chiudere la partita con l’effettività delle garanzie difensive protette dalla Costituzione. Lo scontro è prima di tutto culturale. Da una parte sta chi, anche nella straordinarietà dell’emergenza, pone al centro la necessità di salvaguardare i diritti e i principi del sistema accusatorio, dall’altra chi vuole il ritorno all’inquisitorio, uniformando il processo penale a un bieco efficientismo, in nome del quale comprimere le regole fondanti del giusto processo.
La cronaca della previsione della smaterializzazione dell’udienza penale è paradigmatica. Attraverso la collaudata tecnica dell’emendamento governativo – il pensiero va alla prescrizione – si è introdotta nel decreto cd. Cura Italia la sostanziale abrogazione della fisicità del processo. Commi 12 bis, ter, quater e quinquies dell’articolo 83: giudici da remoto; i testi del processo nelle caserme di polizia; avvocati negli studi professionali trasformati in aule di udienza senza possibilità di rispetto delle regole sanitarie perché costretti a condividere la postazione con i propri assistiti; cancellazione della camera di consiglio, con l’avvertenza che tale vulnus alla Costituzione deve valere solo per la seconda fase dell’emergenza, e cioè fino al 30 giugno 2020.
Dunque, l’ipotetico scenario:
1. Non più il giudice nella sua sede naturale ma trasformato in occhio che scruta i soggetti e i luoghi da costoro prescelti per la loro collocazione; il giudice che dirige senza poter ricorrere anche alla gestualità che concorre alla collegialità, chiamato ad esercitare il controllo non più sull’aula ma su luoghi virtuali e a garantire l’effettività del contraddittorio e le forme della partecipazione, oltre che le modalità di verbalizzazione. Insomma, un incrocio tra funzioni burocratico – informatiche e l’attenzione alle attività delle parti, con ovvia netta prevalenza delle prime sulla seconda.
2. Le parti processuali dematerializzate, impossibilitate al confronto diretto, alla rapida consultazione di documenti e del fascicolo del dibattimento, consegnate ad un rapporto virtuale ingessato, sottoposto a turnazione e privo di oralità e immediatezza, essenza del contraddittorio.  Il difensore è chiamato a svolgere funzioni pubblicistiche e ad eseguire i comandi del giudice relativi al proprio assistito, di cui è divenuto sostanziale custode. I testi saranno allocati presso gli Ufficiali di polizia giudiziaria che ne hanno raccolto le dichiarazioni nella fase delle indagini e che ora condividono la fisicità della partecipazione.
3. La discussione ridotta a comunicazione, di cui assume anche le forme, le modalità della sintesi, la qualità della sintassi, ben diverse dall’argomentazione frontale, che consente il ricorso alla modulazione dei toni e alla selezione degli argomenti a seconda della reazione dell’uditorio e che ricorre a linguaggi verbali condivisi nell’esperienza giudiziaria.
4. La camera di consiglio, che non c’è nella sua fisicità, è la fine della collegialità. Il confronto da remoto tra i giudici è cosa assolutamente diversa dalle forme di interlocuzione racchiuse nella segretezza del loro incontro nella stanza delle deliberazioni. Da remoto i giudici hanno a disposizione – ciascuno nella loro postazione – strumenti diversi di consultazione e di verifica, sono fisicamente lontani dal fascicolo, necessariamente portati ad una comunicazione di sintesi, che non richiede la consultazione dei medesimi strumenti o atti. La discussione è dunque portata, per tecnica comunicativa, alla interpretazione del fatto e non alla condivisione dei passaggi della sua conoscenza. Fuori dall’aula virtuale, poi, non vi è nessuno in attesa che gli sia dia conto della decisione e ad un uomo il suo destino sarà comunicato via pec, e ancora una volta sarà il difensore onerato della comunicazione. Non più occhi che si incontrano ed emozioni che traspaiono, ma il semplice prodotto definitorio di un percorso giudiziario. Nulla a che vedere con il processo penale, verrebbe da sostenere qualsiasi ne sia il modello di riferimento.    
L’Unione delle Camere Penali Italiane, custode della sacralità dei principi e delle regole del giusto processo, ha sviluppato un’iniziativa di costante, continua interlocuzione politica con tutte le forze parlamentari disposte ad ascoltare, spiegando come ci si trovi di fronte ad un intervento legislativo abnorme, destinato a calpestare non solo le regole del processo accusatorio, ma con esso il fondamento democratico del nostro sistema processuale.
Chiamati dal Ministro della Giustizia, abbiamo denunziato la grave responsabilità politica che il Governo si assume con tale disegno, che liquida i presidi di difesa nei confronti dell’esercizio della potestà punitiva da parte dello Stato. Tale posizione è stata condivisa dal Consiglio Nazionale Forense e dalle altre associazioni dell’Avvocatura. Abbiamo poi rilevato come le modalità del processo da remoto, che ricorre a piattaforme informatiche straniere private, si collochino al di fuori di ogni possibilità di controllo giurisdizionale e non garantiscano il rispetto del trattamento dei dati sensibili. Proprio per questo profilo abbiamo invocato l’autorevole intervento del Garante per la protezione dei dati personali, autorità indipendente di nomina parlamentare.
L’Associazione Nazionale Magistrati ha stigmatizzato le nostre prese di posizione, manifestando condivisione per le misure governative e segnalando come le stesse fossero previste per la sola limitata fase dell’emergenza. Posizione subito smentita dalle pubbliche dichiarazioni del dottor Gratteri e dai proclami della corrente davighiana che hanno inteso sottolineare la necessità che la liquefazione del processo dovesse diventare una costante operativa, stabilmente inserita nel nostro codice di rito.
L’Unione si è fatta carico di tante proposte alternative, che hanno lo scopo di assicurare la progressiva ripresa dell’attività giudiziaria nella seconda fase dell’emergenza, quali lo scaglionamento orario dei processi, l’individuazione di criteri per la trattazione delle cause, con precedenza ai processi con imputati detenuti, abbreviati, patteggiamenti, udienze di sola discussione e così via e il ricorso allo strumento telematico per le attività di cancelleria. I capi di diversi Uffici giudiziari hanno accolto con favore tali ipotesi ed in tante situazioni le hanno fatte proprie, mostrando come sia questo il modo corretto di affrontare l’emergenza. Ma il Governo evidentemente ha un altro disegno.
L’Unione dà atto che la serrata interlocuzione di queste ore con tutte le forze parlamentari ha portato ad iniziative tese a limitare l’obbrobrio: è la storia degli ordini del giorno – sia della maggioranza che dell’opposizione – per escludere dalle forme da remoto quantomeno l’attività probatoria e la discussione.
Dopo continui cambi di fronte, il Governo alla fine ha accolto l’impegno per tali limitazioni, che dovrebbero essere specificate in un ulteriore imminente decreto – legge. Se questa fosse la sintesi, non sarebbe certo risolutiva, anche se si tratterebbe di ipotesi meno impattanti, soprattutto se accompagnate dalla chiara indicazione del limite temporale per la loro operatività.
La confusione sui principi regna sovrana ed è necessaria la massima attenzione ai percorsi di produzione normativa.
L’Unione delle Camere Penali ha preannunciato fermezza di reazione se il processo da remoto diventerà operativo nel nostro ordinamento. Nella forza di quella reazione, che speriamo coinvolga nelle forme possibili anche i magistrati e le nostre Università, verificheremo se e quanto e a chi appartenga la cultura delle garanzie irrinunciabili, necessarie per una giusta decisione.


*Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane