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LA STRANA GENESI DEL C.D. “DECRETO SCARCERAZIONI”. TRA I DUE LITIGANTI IL TERZO SOCCOMBE – DI ENRICO AMATI

LA STRANA GENESI DEL C.D. “DECRETO SCARCERAZIONI”. TRA I DUE LITIGANTI IL TERZO SOCCOMBE – DI ENRICO AMATI

AMATI – LA STRANA GENESI DEL C.D. DECRETO SCARCERAZIONI. TRA I DUE LITIGANTI IL TERZO SOCCOMBE.PDF

di Enrico Amati

 Nel momento in cui il populismo giudiziario (che fa leva, principalmente, sulla retorica dell’antimafia e dell’anticorruzione) è divenuto anche populismo politico si è aperta una sorta di competizione tra chi vuole assumere il ruolo di protagonista nell’opera di “moralizzazione” della società.

1.

Per fronteggiare l’emergenza epidemiologica si è determinata una compressione dei diritti di libertà inedita nella storia repubblicana. Attraverso una serie di provvedimenti inibitori contenuti nelle più varie fonti normative sono stati introdotti strumenti amministrativi di controllo volti a “criminalizzare” ogni condotta, espressione delle libertà individuale, ritenuta in astratto idonea alla diffusione del virus[1].

Non entro nel merito della legittimità costituzionale dei provvedimenti adottati (fior di costituzionalisti hanno espresso la loro opinione) e nemmeno mi permetto di sindacarne la effettiva necessità. Del resto, si è da più parti ribadito, senza salute non c’è libertà.

2.

Se però spostiamo l’attenzione sul mondo del carcere, allora la prospettiva cambia. Il bene “salute” diventa improvvisamente recessivo rispetto alle esigenze di sicurezza pubblica e le reazioni si fanno subito scomposte, “di pancia”, fino a diventare oggetto di strumentalizzazione politica.

Nonostante il sovraffollamento rappresenti un’emergenza nell’emergenza il legislatore continua ad attingere «senza freni» alla risorsa della pena privativa della libertà personale: com’è stato rilevato, l’ampliamento dei presupposti di accesso alle misure alternative rappresenta, invero, per lo più un «farmaco sintomatico»[2] che non risolve il problema, drammatico e strutturale, dell’insostenibile situazione delle carceri italiane a più riprese denunciata dalla Corte Edu[3].

Il recente decreto sulle cosiddette “scarcerazioni facili” segna, tuttavia, un’ulteriore tappa evolutiva di un sistema di giustizia penale teso a discostarsi in modo sempre più plateale dal minimo sindacale della decenza.

3.

I fatti di cronaca sono noti.

La sorprendente sortita del magistrato antimafia Di Matteo, che nell’ambito di una trasmissione televisiva ha adombrato il sospetto che la sua mancata nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (nel 2018) potrebbe ricollegarsi alla presunta avversione da parte di alcuni boss mafiosi, ha prodotto una reazione immediata da parte del Ministro della giustizia chiamato in causa[4].

Alcuni Tribunali di sorveglianza hanno scarcerato taluni presunti “boss” mafiosi per evitare il contagio da coronavirus? Occorre “rimediare” immediatamente. In tempi record è stato così predisposto un decreto legge di modifica delle norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative della libertà che, in sostanza, impone ai magistrati di rivalutare la persistenza dei presupposti per le scarcerazioni dovute all’emergenza sanitaria[5].

In breve, quanto ai condannati ammessi alla detenzione domiciliare o che usufruiscono del differimento di pena per motivi connessi all’emergenza coronavirus, il magistrato di sorveglianza o il Tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo[6], dovrà rivalutare entro il termine di quindici giorni (e successivamente con cadenza mensile) la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria.

Qualora si tratti di imputati, tale verifica periodica dovrà essere compiuta dal pubblico ministero il quale potrà chiedere al giudice il ripristino della custodia cautelare in carcere.

Il Ministro e il Governo avranno così dato prova della loro “purezza” di fronte al Tribunale dell’opinione pubblica (peraltro, scaricando la responsabilità sulla magistratura)? Non è facile misurare il gradimento del popolo. Ma è possibile avere un’idea dei dati relativi alle presunte scarcerazioni “facili”. Secondo Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, i boss mafiosi scarcerati per motivi di salute non sarebbero 376, bensì tre: gli altri erano nel circuito detentivo di alta sicurezza ma non al 41-bis, e di questi 196 erano in attesa di giudizio e, quindi, secondo la Costituzione, presunti innocenti[7].

Il decreto si inserisce a pieno titolo nel filone della legislazione penale autenticamente populista e ne esprime le caratteristiche essenziali.

I) In primo luogo esso è ispirato all’idea di materialità e vendetta. L’aspirazione punitiva – spesso confusa con la pubblica opinione – è tesa a soddisfare la bramosia di uno ius criminale che si renda visibile e concreto, teso alla “certezza della pena carceraria”.

II) Presenta tratti di irragionevolezza e disfunzionalità[8] poiché introduce un aggravio non indifferente di obblighi burocratici: la “revisione mensile” di decisioni già assunte comporterà inevitabili ricadute negative sul piano dell’organizzazione degli uffici.

III) È costruito sul “verosimile”, ovverosia sul mero dato della “percezione”. La discutibile ritenuta necessità e urgenza dell’intervento normativo è basata su ricostruzioni “emozionali” (gli umori variabili e suggestionabili della doxa dominante) che non sembrano tener conto della realtà dei fatti.

IV) È pervaso da un eccesso di ideologia e da una logica vittimocentrica. Lo Stato non è più debitore di giustizia ma di sicurezza[9] o, meglio, di un concetto di sicurezza che diviene orizzonte totalizzante della penalità[10] e legittima un approccio esclusivamente carcerocentrico. Ed ancora: lo Stato non si sostituisce più alle vittime ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi “complicità” sospetta con il “nemico”.

5.

In siffatto contesto ideologico si pone il problema del rapporto tra potere politico e potere giudiziario. Anche sotto questo profilo il decreto sembra l’ennesima manifestazione del complesso accusatorio che, almeno a partire da Tangentopoli e dall’inchiesta “Mani pulite”, rappresenta il modello di azione politica: il legislatore (ovverosia l’esecutivo, oramai vero dominus della produzione normativa) tende cioè a vestire i panni più del pubblico ministero che del giudice, ponendo l’accento sulla necessità di applicare sanzioni rigorose, di controllare e neutralizzare le persone ritenute pericolose[11].

Il potere giudiziario è corteggiato e osteggiato. È corteggiato fin tanto che produce l’effetto utile (nell’ottica “giustizia=condanna=carcere”); è osteggiato quando applica le norme in modo equilibrato ma con il rischio di apparire insensibile al grido di sicurezza dei cittadini. Le garanzie non fanno parte della cultura di massa e neppure del senso comune. Un Tribunale o un giudice che non si mette in scia con l’accusa si rende complice di un delitto. Questo perché, come è stato ben evidenziato, ai magistrati si chiede non di pronunciare un verdetto secondo giustizia ma di dimostrare le nostre verità (la cosiddetta «verità-che-io-so», ovverosia la verità in “presa diretta” senza bisogno di mediazioni interpretative)[12]. Il “giudice di scopo” viene così direttamente corresponsabilizzato nel perseguimento dell’obiettivo di lotta. Chi giudica sarà «stretto nelle morsa tra efficientismo e formalismo, libero convincimento e vox populi, ed esposto su ciascuno dei diversi versanti a possibili addebiti disciplinari»[13].

Al di là delle ragioni personali che possono aver portato allo scontro tra il magistrato antimafia e il Ministro della giustizia, l’episodio è però indicativo del cortocircuito che da tempo si è venuto a creare nel nostro Paese tra potere politico e potere giudiziario. Nel momento in cui il populismo giudiziario (che fa leva, principalmente, sulla retorica dell’antimafia e dell’anticorruzione) è divenuto anche populismo politico si è aperta una sorta di competizione tra chi vuole assumere il ruolo di protagonista nell’opera di “moralizzazione” della società.

Se così è, probabilmente il recente scontro tra il Ministro e il magistrato simbolo della lotta alla mafia rappresenta solo la punta dell’iceberg di una nuova alba radiosa per la democrazia giudiziaria.

Se e quando emergerà definitivamente anche la parte sommersa dell’iceberg probabilmente saremo già definitivamente transitati nella Repubblica della sorveglianza e della punizione[14], ove – ancor più di oggi – la libertà sarà l’eccezione nel vasto e indefinito mare dell’illiceità[15]. Perché le reali “vittime” della competizione non sono certo i contendenti, bensì le garanzie fondamentali e, in particolare, il diritto di difesa.

 

[1] S. Forlani, La protezione della salute pubblica nell’emergenza epidemiologica. I nuovi strumenti amministrativi di controllo sociale: prevenzione o repressione? in Diritto di Difesa, 18 aprile 2020.

[2] V. Manes-M. Terzi, Processo penale online, opinioni a confronto, in Diritto di Difesa, 3 maggio 2020.

[3] T. Padovani, Covid e istituzioni, è strage di legalità, in Il Riformista, 21 aprile 2020.

[4] Sul recente scontro si veda G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di Difesa, 6 maggio 2020.

[5] Per un’analisi del decreto v. L. Massari-M. Passione, Azioni ed omissioni; far finta di essere sani, in Diritto di Difesa, 12 maggio 2020. Il testo del decreto è reperibile in Sistema Penale, 11 maggio 2020.

[6] Si vedano le osservazioni di G. Fiandaca, La trovata di Bonafede, giudici sottoposti all’accusa, in Il Riformista, 28 aprile 2020.

[7] S. Anastasia, I ‘boss’ scarcerati non sono 376 ma 3: i veri numeri dello scoop, in Il Riformista del 7 maggio 2020; si veda anche L. Ferrarella, Quelle scarcerazioni e la demagogia dei pm per attaccare i giudici, in Corriere della Sera, 7 maggio 2020.

[8] Dismisura e irragionevolezza implicano nuove gerarchie di valori, spesso irragionevoli perché «dettate dallo spirito del tempo della convenienza politica» e «dalle pressioni dei social» (L. Violante, L’infausto riemergere del tipo d’autore, in Quest. giust., 2019, 1, p. 101 s. e p. 102).

[9] A. Garapon.-D. Salas, La Repubblica penale, trad. it., Liberlibri, Macerata, 1998, p.  89.

[10] M. Barberis , Non c’è sicurezza senza libertà, Il Mulino, Bologna, 2017.

[11] J. Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p. 47 s.; G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 99

[12] M. Adinolfi, Hanno tutti ragione? Post-verità, Fake news, Big Data e democrazia, Salerno editrice, Roma, 2019, p.

[13] V. MANES, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in Quest. giust., 2019, 1, p. 86 s.

[14] E.R. Belfiore, A casa propria: frammenti di populismo penale, in Arch. pen. web, 2019, 3, p. 1 s.

[15] F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Il Mulino, Bologna, 2019, p. 49.