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L’APPELLO NECESSARIO  – DI OLIVIERO MAZZA

L’APPELLO NECESSARIO – DI OLIVIERO MAZZA


di Oliviero Mazza

SOMMARIO: 1. L’appello internazionalmente e costituzionalmente necessario. – 2. Le torsioni delle categorie dogmatiche: il ricorso in appello. – 3. L’appello del pubblico ministero: la Procura della Repubblica contro la Repubblica. – 4. Futuribili

L’APPELLO NECESSARIO[1]

1. L’appello internazionalmente e costituzionalmente necessario.

Il tema dell’appello irrinunciabile suggerisce, inevitabilmente, una precisa domanda: il legislatore potrebbe legittimamente rinunciare alla garanzia dell’appello? Di conseguenza, il doppio grado di giurisdizione di merito è costituzionalmente o convenzionalmente imposto? La risposta al quesito non si rinviene né nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, né nei suoi Protocolli e nemmeno, in via diretta, nella Costituzione. In particolare, l’articolo 2 del Protocollo 7 CEDU, intitolato “Diritto di ricorso in materia penale”, stabilisce che «chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale ha il diritto di sottoporre ad un Tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna. L’esercizio di questo diritto, ivi inclusi i motivi per cui esso può essere invocato, sarà stabilito per legge. Tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori come stabilito da legge o in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un Tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento»[2]. Come si può notare già a prima lettura, si tratta di un diritto dai contorni molto sfumati, reso ancora più incerto nella discutibile interpretazione di tale disposizione fornita dal rapporto esplicativo del Consiglio d’Europa[3], laddove si precisa che non in tutti i casi deve essere necessariamente garantito il diritto al doppio grado di giurisdizione di merito e che il “riesame” potrebbe essere anche surrogato da un mero controllo di legittimità, lasciando che siano le singole legislazioni nazionali a stabilire modalità e contenuti della impugnazione. La Costituzione tace sul tema dell’appello, impugnazione che, almeno espressamente, non viene considerata, a differenza del ricorso per cassazione da sempre consacrato nell’art. 111 Cost. Ciò non significa che non vi siano buoni argomenti interpretativi per cercare di ricavare una base costituzionale al principio del doppio grado di giurisdizione di merito[4], ma emerge indubbiamente il diverso approccio riservato dal costituente alle distinte impugnazioni di legittimità e di merito. Nel nostro Paese, l’appello rappresenta comunque un’ineliminabile garanzia di rilevanza costituzionale per tutti i condannati, in quanto prevista dal Patto internazionale sui diritti civili e politici. Tale trattato internazionale, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 2200A (XXI) del 16 dicembre 1966, entrato internazionalmente in vigore il 23 marzo 1976, ratificato dall’Italia con legge n. 881 del 25 ottobre 1977 [5], vigente per il nostro Paese dal 15 dicembre 1978, ha assunto un preciso valore cogente alla luce del novellato art. 117 comma 1 Cost. La potestà legislativa, infatti, va esercitata dallo Stato nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Non può esservi dubbio che il Patto internazionale, al pari della Convenzione europea, sia un trattato internazionale multilaterale da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti. Questi obblighi sono stati specificati proprio dalla previsione dell’art. 117 comma 1 Cost. che impone al legislatore ordinario di uniformarsi alle norme internazionali che rappresentano così il parametro interposto nel giudizio di legittimità delle leggi[6]. Dunque, nella gerarchia delle fonti il Patto internazionale si colloca in una posizione intermedia, subito al di sotto della Costituzione, ma al di sopra della legge ordinaria che deve rispettare le previsioni internazionali pena la violazione dell’art. 117 comma 1 Cost. e, quindi, la sua illegittimità costituzionale. Così ricostruita l’influenza dell’international human right law sulla legislazione interna, la previsione rilevante in tema di appello alla quale occorre fare riferimento è l’art. 14 par. 5 Patto int. dir. civ. pol., secondo cui «ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna [intesa come determinazione della pena] siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge». La traduzione italiana riporta fedelmente quanto previsto dal testo ufficiale inglese: «everyone convicted of a crime shall have the right to his conviction and sentence being reviewed by a higher tribunal according to law». Il riesame della condanna, imposto dall’art. 14 par. 5 Patto int. dir. civ. pol., non è altro che il doppio grado di giurisdizione di merito, il giudizio d’appello ispirato al principio devolutivo e, quindi, al «completo riesame della intera dichiarazione di colpevolezza e di condanna (per usare le stesse espressioni del Patto) senza specifiche limitazioni e non condizionato, al contrario del giudizio penale di Cassazione, dall’esistenza di motivi di impugnazione predeterminati dalla legge»[7]. Questa interpretazione del diritto al riesame di merito della affermazione di colpevolezza e della conseguente irrogazione della pena è stata confermata dal Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite, che è l’organo internazionale al quale può rivolgersi ogni individuo quando ritenga di essere vittima di una qualsiasi violazione di uno dei diritti enunciati nel Patto, previo esaurimento di tutte le vie giudiziarie interne[8]. Il Comitato non è un giudice internazionale in senso stretto, ma i suoi atti hanno un «alto valore etico e politico»[9] nella misura in cui rilevino una violazione del trattato internazionale da parte di uno degli Stati parte. Va peraltro ricordato che l’Italia ha ratificato anche il Protocollo addizionale al Patto internazionale che riguarda proprio l’istituzione e l’operatività del Comitato. Con la decisione assunta nel caso Cesario Gomez Vasquez c. Spagna del 20 luglio 2000, il Comitato ha ritenuto che l’impossibilità di ottenere un completo riesame della condanna («lack of any possibility of fully reviewing the author’s conviction and sentence»), in presenza del solo ricorso per cassazione, comportasse la violazione dell’art. 14 par. 5 Patto int. civ. dir. pol. Secondo il Comitato, dunque, la previsione pattizia impone la generale appellabilità delle sentenze di condanna attraverso un’impugnazione di merito che consenta la revisione integrale del giudizio, sia per l’affermazione di responsabilità sia per la determinazione della pena, non essendo sufficiente un ricorso limitato agli aspetti formali o legali della decisione. La pronuncia del Comitato fornisce una chiara interpretazione autentica della previsione dell’art. 14 par. 5 Patto int. dir. civ. pol. che rappresenta la norma interposta nel giudizio di conformità della legislazione interna all’art. 117 comma 1 Cost. Il caso giudicato è particolarmente rilevante anche in chiave comparatistica perché ha riguardato l’ordinamento processuale spagnolo che, al tempo della decisione, non prevedeva il giudizio d’appello per una larga fascia di reati. Proprio in seguito alla pronuncia del Comitato, la Spagna ha avviato un lungo percorso di riforma delle impugnazioni, iniziato con la Ley orgànica 19/2004 e conclusosi con la Ley 41/2015 che oggi prevede la generale appellabilità delle sentenze di condanna[10]. Rimanendo sul terreno della comparazione in ambito europeo, è altrettanto interessante il caso della Germania che non prevede il giudizio d’appello. Il legislatore tedesco per difendere tale scelta, legata a peculiari ragioni politico-culturali, ha però deciso di non sottoscrivere il Protocollo n. 7 della CEDU e ha accettato con riserva la regola espressa nell’art. 14 par. 5 del Patto inter. dir. civ. pol. Dunque, dal quadro degli obblighi internazionali e dalle esperienze straniere di Paesi europei continentali a noi molto vicini emerge chiaramente come il mantenimento del doppio grado di giurisdizione di merito non sia solo politicamente opportuno, ma rappresenti un preciso dovere internazionale[11] al quale il legislatore non potrebbe sottrarsi, pena l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost., di una legge ordinaria che escludesse o anche solo limitasse l’appello devolutivo avverso le sentenze di condanna.  

2. Le torsioni delle categorie dogmatiche: il ricorso in appello.

Chiarito in quali termini l’appello dell’imputato contro la sentenza di proscioglimento presenta diretta rilevanza costituzionale, con la conseguenza che si tratta di una garanzia ineliminabile, occorre soffermarsi ancora sulla previsione pattizia che appare ricca di ulteriori implicazioni. L’art. 14 par. 5 Patto int. dir. civ. pol. non si limita ad affermare il diritto all’appello, ma specifica che tale impugnazione è indefettibile nella misura in cui deve consentire il riesame dell’accertamento della colpevolezza da parte di un giudice di seconda istanza. Riesame significa, anzitutto, un nuovo giudizio sulla colpevolezza, ossia un giudizio che verta direttamente sui punti oggetto di decisione e non sulla decisione stessa. Il modello del riesame di matrice internazionale è quello della appellatio, della nuova decisione sollecitata dal condannato per rimediare a possibili iniquitas vel imperitia. Vi è un solo rimedio secondo Ulpiano: ripetere l’atto decisorio[12]. Nel gravame puro non è nemmeno richiesta l’esposizione dei motivi perché l’appello è completamente devolutivo e l’organo ad quem giudica ex novo, a prescindere dalle doglianze che non devono essere nemmeno esposte. All’opposto di questo modello vi sono i rimedi rescindenti in cui l’impugnante allega vizi specifici della decisione rilevati i quali il giudice disporrà l’annullamento e una nuova decisione da parte di altro organo giudicante (giudizio rescissorio). È il modello della querela nullitatis, dell’azione di annullamento, del ricorso che, appunto, appartiene alla categoria delle azioni di annullamento. Il sistema attuale fonde i due profili e l’appello assolve alle due funzioni: il giudice di seconde cure giudica sul già deciso, riproposto dai motivi, con l’aggiunta di possibili decisioni assunte d’ufficio (art. 129 comma 1 e 597 comma 5 c.p.p.). Al tempo stesso, se la sentenza è invalida, l’annulla (art. 604 c.p.p.) e gli atti tornano al giudice a quo. Alla doppia anima dell’appello dovrebbe corrispondere una diversa tipologia d’impugnazione: se si mira all’annullamento della sentenza, i vizi della decisione impugnata devono essere dedotti con motivi specifici; se, invece, si richiede un secondo giudizio, l’impugnazione si avvicina al gravame e i motivi sono puramente indicativi, posto che il giudice rimane libero di ridecidere a prescindere dall’accoglimento delle pur specifiche ragioni di censura mosse alla sentenza. Ciò che conta nell’appello-riesame è l’indicazione dei capi e dei punti della sentenza di cui si chiede la riforma, mentre i motivi servono solo per spiegare perché il giudice dovrebbe accogliere la richiesta. L’effetto devolutivo trasferisce al giudice la cognizione su tutti i punti oggetto di impugnazione e su tutte le questioni implicate dal punto, a prescindere dal contenuto dei motivi. Ad esempio, impugnato il punto relativo al quantum di pena con un motivo relativo solo alla comparazione delle circostanze, il giudice d’appello potrà decidere autonomamente tutte le questioni implicate dal punto, dalla determinazione della pena edittale ai criteri dell’art. 133 c.p. fino alla sussistenza delle circostanze. Nella logica del gravame, sebbene impuro in quanto sorretto dai motivi, quando l’appellante aggredisce un punto, tutte le possibili questioni sono devolute al giudice che deve decidere nuovamente l’intero punto. E se il perimetro dell’impugnazione riguardasse tutti i capi e tutti i punti, l’effetto sarebbe totalmente devolutivo. L’appello-gravame, motivato e parzialmente devolutivo, non è comunque assimilabile al ricorso: rimane un’impugnazione a critica libera, basta lamentare l’ingiustizia della decisione sul singolo punto per attribuire al giudice ad quem il potere-dovere di ridecidere il punto, a prescindere dalla fondatezza dei motivi che non sono vincolanti per la cognizione del giudice, proprio nell’ottica del secondo giudizio di merito. La riforma Orlando (l. n. 103 del 2017), che ha esplicitamente indicato la specificità dei motivi quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione, anche se letta in “combinato disposto” con il principio di diritto delle Sezioni Unite Galtelli[13] in tema di specificità estrinseca del motivo, ossia di capacità confutatoria del motivo rispetto alle ragioni della decisione impugnata, non riesce a mutare la natura del giudizio di secondo grado. L’appello continua ad attribuire al giudice la cognizione del punto impugnato (art. 597 comma 1 c.p.p.), mentre il ricorso attribuisce alla cassazione la cognizione del motivo proposto (art. 609 comma 1 c.p.p.). Da ciò discende che il motivo d’appello non determina la cognizione del giudice, e per questa ragione non dovrebbe essere necessariamente connotato dalla specificità estrinseca. La maggiore aporia del ragionamento delle Sezioni Unite, della giurisprudenza successiva e anche della riforma Orlando è proprio quella di introdurre una sorta di giudizio d’appello bifasico: la prima fase, sull’ammissibilità, riguardante solo la specificità (intrinseca ed estrinseca) del motivo; la seconda, una volta ritenuta ammissibile l’impugnazione, diretta ad attribuire al giudice la cognizione piena e libera del punto, a prescindere dalla critica esposta specificamente nel motivo. Anzi, vi è di più: si pretende che il motivo sia incentrato sulla critica della decisione impugnata, secondo il paradigma della specificità estrinseca, mentre al giudice dell’appello si consente di decidere nuovamente senza tener conto della decisione di primo grado che, una volta impugnata, nella logica del gravame, è già venuta meno e dovrà essere sostituita dalla nuova decisione di secondo grado. Peraltro, questa conclusione, dogmaticamente ineccepibile, dovrebbe portare a superare la prassi della decisione d’appello che richiama quella di primo grado. Il gravame toglie di mezzo la precedente decisione e attribuisce al giudice d’appello il compito di decidere ex novo. Questa è la logica dell’appello-gravame alla quale poi si aggiunge l’azione di annullamento per i casi di invalidità (art. 604 c.p.p.) con finalità solo rescindenti. Su questo secondo versante, la specificità del motivo rapportato alla questione è fisiologica e connaturata al mezzo rescindente e all’azione di annullamento. Richiedere all’appello gravame la specificità dei motivi rapportati alla questione e alla motivazione della sentenza impugnata significa distorcere l’appello sul paradigma dell’azione di annullamento (ricorso, ossia impugnazione rescindente), quando dovrebbe invece rimanere una iniquitatis sententiae querela, ossia la denuncia dell’ingiustizia della decisione e la richiesta di un secondo giudizio (ossia impugnazione rescissoria, appello-gravame). Le Sezioni Unite hanno lavorato ignorando la dogmatica processuale e puntando a determinare un’innaturale metamorfosi dell’appello che da mezzo di impugnazione ancipite assumerebbe le vesti formali del ricorso, anche per la denuncia dell’ingiustizia della decisione e non solo per quella della sua invalidità. Da qui una nuova teratologia processuale, il “ricorso in appello” che sarebbe un errore da bocciatura all’esame universitario di Procedura penale. A ciò si aggiunga che la specificità estrinseca avrebbe un senso preciso e, soprattutto, controllabile solo se ci fosse un altrettanto preciso modello predeterminato dei motivi di impugnazione (ad esempio, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione), come nel caso del ricorso per cassazione vero e proprio. La specificità va giocoforza rapportata a un paradigma legale che per l’appello non c’è proprio perché, nel merito, è ancora gravame e non ricorso. Il percorso di riforma delle impugnazioni è per ora solo abbozzato. All’aporia concettuale del motivo d’appello connotato dalla capacità confutatoria della sentenza di primo grado si vorrebbe sostituire un disegno più compiuto di vera e propria crasi fra appello e ricorso per cassazione. L’idea dichiarata e, al tempo stesso, molto raffinata, è quella di spacchettare il ricorso per cassazione e di trasferire in capo alla corte d’appello il controllo sul vizio di motivazione oggi previsto dall’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., lasciando alla Suprema Corte solo gli altri vizi di pura legittimità. In tal modo si garantirebbe un consistente alleggerimento del carico di lavoro della Cassazione e si trasformerebbe l’appello di merito in vero e proprio ricorso volto a denunciare l’errore decisorio del giudice di primo grado. Questo progetto di riforma, malamente avviato con l’introduzione della specificità estrinseca dei motivi di appello, a regime comporterebbe l’abrogazione del secondo grado di merito. Formalmente l’appello rimarrebbe un mezzo d’impugnazione autonomo, ma nella sostanza si trasformerebbe in un ricorso per vizio di motivazione. Ciò implicherebbe la scomparsa del giudizio d’appello inteso come riesame di merito. Il rischio, infatti, non è quello dell’abrogazione tout court del giudizio d’appello, ma della sua intrinseca trasformazione, sia mediante la proposta di abbandonare la collegialità, sia, soprattutto, attraverso il radicale cambiamento del suo oggetto: il controllo sulla motivazione in luogo di una nuova decisione di merito. La logica del controllo sulla motivazione, che dovrebbe soppiantare il secondo giudizio di merito, appare però inconciliabile con la previsione pattizia che, come detto, è apertamente ispirata al modello del riesame.  

3. L’appello del pubblico ministero: la Procura della Repubblica contro la Repubblica.

La previsione pattizia dell’art. 14 par. 5 Patto. int. dir. civ. pol. non prevede l’appello avverso le sentenze di assoluzione. Dal dato testuale emerge che, nell’ottica internazionale, l’appello del pubblico ministero contro le decisioni di proscioglimento non è necessario. Di conseguenza, l’international human right law non fornisce la base giuridica per rivendicare il diritto al riesame della sentenza che escluda la colpevolezza dell’imputato. Senza poter affrontare in questa sede le questioni che hanno dato origine alla decisione della Corte costituzionale di escludere le restrizioni poste all’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento[14], la prospettiva della parità fra le parti appare fuorviante e distorcente. Nel processo penale il pubblico ministero rappresenta lo Stato così come il giudice agisce in nome e per conto dello Stato. Quando il pubblico ministero appella una sentenza di assoluzione introduce un giudizio che potrebbe icasticamente definirsi come la causa dello Stato contro lo Stato, la Procura della Repubblica contro la Repubblica. Il pubblico ministero non può mettere in discussione l’operato del giudice che ha prosciolto l’imputato a meno che non si tratti di una decisione illegale, nel qual caso il vizio di legittimità potrà essere denunciato con il ricorso per cassazione. L’accusa non può richiedere un nuovo giudizio di merito che vada a surrogare la decisione già assunta, nel rispetto della legge, da un giudice dello Stato. Il giudice di primo grado rappresenta la Repubblica e la Procura della Repubblica non può contestare l’operato della Repubblica, può farlo solo denunciando il vizio di legge perché ciò significherebbe che il giudice è stato infedele al suo obbligo costituzionale di essere soggetto soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.). Questa è la ragione di fondo per cui non può essere previsto l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento. Manca sostanzialmente l’interesse ad impugnare, ad introdurre un paradossale giudizio dello Stato contro lo Stato. Senza dimenticare che, rebus sic stantibus, giudice e pubblico ministero non sono solo rappresentanti della Repubblica, ma appartengono entrambi al medesimo ordine giudiziario. Queste brevi considerazioni dovrebbero essere sufficienti per comprendere quanto sia stato fuorviante impostare il giudizio di legittimità della legge Pecorella (l. n. 46 del 2006) sulla base di un inapplicabile principio di parità fra le parti processuali. Per quanto concerne l’appello nelle forme penali della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, non vi sarebbero remore ad escluderlo, consentendo alla stessa parte di riassumere la causa nella sede propria, anche solo attraverso l’appello civile sulle statuizioni rese in sede penale.  

4. Futuribili.

Potrebbe, dunque, il legislatore escludere l’appello o limitarlo alla logica del controllo senza violare la Costituzione? La risposta è scontata ed è negativa. Va precisato, anzitutto, che la chiara previsione dell’art. 14 par. 5 Patto int. dir. civ. pol. non consentirebbe la trasformazione surrettizia dell’appello da riesame di merito a giudizio sulla motivazione. Se è vero che la previsione pattizia rinvia alle forme di legge, è altrettanto vero che i margini di manovra per i legislatori nazionali sono assai ristretti, dovendosi comunque muovere all’interno della logica del riesame di merito[15]. Ci sarebbe, dunque, una possibilità, una via molto stretta da percorrere: la denuncia del trattato internazionale ai sensi dell’art. 4 Patto int. dir. civ. pol. Chi vuole abolire l’appello deve giocoforza percorrerla, deve avere il coraggio di affermare che nel nostro Paese vi sia un «caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato un atto ufficiale», pericolo che si potrebbe scongiurare solo eliminando l’appello inteso come impugnazione di merito volta al riesame della condanna, e che l’abrogazione dell’appello sia una misura adottata «nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga», informando immediatamente, tramite il Segretario generale delle Nazioni Unite, gli altri Stati Parti del Patto sia delle disposizioni alle quali l’Italia intende derogare sia dei motivi che hanno provocato la deroga. Peraltro, le misure derogatorie agli obblighi imposti dal Patto devono essere contenute nei limiti temporali in cui la situazione strettamente lo esiga, dando a tutte la Parti tempestiva comunicazione della data in cui la deroga medesima viene fatta cessare. Non deve sembrare una provocazione, ma solo la stringente alternativa che si pone al legislatore. Se qualcuno nel nostro Paese troverà il coraggio di sospendere l’efficacia del trattato internazionale, la strada è tracciata dall’art. 4 dello stesso Patto internazionale, altrimenti si arrenda all’idea che l’appello, il doppio grado di giurisdizione di merito, è una garanzia irrinunciabile e costituzionalmente imposta dall’art. 117 comma 1 Cost.    

[1] Intervento svolto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani: L’appello “irrinunciabile” in difesa del doppio grado di giurisdizione, Brescia, 21-22 febbraio 2020.

[2] Il testo riportato è quello reso disponibile dall’Ufficio Trattati del Consiglio d’Europa nella traduzione ufficiale della Cancelleria federale della Svizzera. Appare, tuttavia, opportuno riportare anche il testo ufficiale in inglese e in francese, soprattutto per evidenziare che la traduzione italiana del “diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna” corrisponde più fedelmente al testo francese, meno a quello inglese, dove si utilizza la locuzione “right to have his conviction or sentence reviewed by a higher tribunal” che potrebbe meglio intendersi, nella nostra lingua, come il diritto al riesame della condanna. Article 2 – Right of appeal in criminal matters. 1 Everyone convicted of a criminal offence by a tribunal shall have the right to have his conviction or sentence reviewed by a higher tribunal. The exercise of this right, including the grounds on which it may be exercised, shall be governed by law. 2 This right may be subject to exceptions in regard to offences of a minor character, as prescribed by law, or in cases in which the person concerned was tried in the first instance by the highest tribunal or was convicted following an appeal against acquittal. Article 2 – Droit à un double degré de juridiction en matière pénale. 1 Toute personne déclarée coupable d’une infraction pénale par un tribunal a le droit de faire examiner par une juridiction supérieure la déclaration de culpabilité ou la condamnation. L’exercice de ce droit, y compris les motifs pour lesquels il peut être exercé, sont régis par la loi.  2 Ce droit peut faire l’objet d’exceptions pour des infractions mineures telles qu’elles sont définies par la loi ou lorsque l’intéressé a été jugé en première instance par la plus haute juridiction ou a été déclaré coupable et condamné à la suite d’un recours contre son acquittement.

[3] This article recognises the right of everyone convicted of a criminal offence by a tribunal to have his conviction or sentence reviewed by a higher tribunal. It does not require that in every case he should be entitled to have both his conviction and sentence so reviewed. Thus, for example, if the person convicted has pleaded guilty to the offence charged, the right may be restricted to a review of his sentence. As compared with the wording of the corresponding provisions of the United Nations Covenant (Article 14, paragraph 5), the word “tribunal” has been added to show clearly that this provision does not concern offences which have been tried by bodies which are not tribunals within the meaning of Article 6 of the Convention. Different rules govern review by a higher tribunal in the various member States of the Council of Europe. In some countries, such review is in certain cases limited to questions of law, such as the recours en cassation. In others, there is a right to appeal against findings of facts as well as on the questions of law. The article leaves the modalities for the exercise of the right and the grounds on which it may be exercised to be determined by domestic law. In some States, a person wishing to appeal to a higher tribunal must in certain cases apply for leave to appeal. The right to apply to a tribunal or an administrative authority for leave to appeal is itself to be regarded as a form of review within the meaning of this article. Paragraph 2 of the article permits exceptions to this right of review by a higher tribunal: – for offences of a minor character, as prescribed by law; – in cases in which the person concerned has been tried in the first instance by the highest tribunal, for example by virtue of his status as a minister, judge or other holder of high office, or because of the nature of the offence; – where the person concerned was convicted following an appeal against acquittal. When deciding whether an offence is of a minor character, an important criterion is the question of whether the offence is punishable by imprisonment or not.

[4] In proposito, si rinvia all’ampia trattazione di G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema costituzionale italiano, Milano, Giuffrè, 1993, passim.

[5] Gazzetta Ufficiale n. 333 del 7 dicembre 1977.

[6] Cfr. C. cost., sentt. nn. 348 e 349 del 2007, in Giur. cost., 2007, fasc. 5, p. 3475 ss., con nota di M. Cartabia, Diritti fondamentali, fonti, giudici, A. Guazzarotti, La Corte e la CEDU: il problematico confronto di standard di tutela alla luce dell’art. 117, comma 1, Cost., e V. Sciarabba, Nuovi punti fermi (e questioni aperte) nei rapporti tra fonti e corti nazionali ed internazionali.

[7] G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema costituzionale italiano, cit., p. 166. +

[8] Il sito ufficiale delle Nazioni Unite (https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/CCPR/Pages/CCPRIntro.aspx) descrive il Comitato nei seguenti termini: « The Human Rights Committee is the body of independent experts that monitors implementation of the International Covenant on Civil and Political Rights by its State parties.  All States parties are obliged to submit regular reports to the Committee on how the rights are being implemented. States must report initially one year after acceding to the Covenant and then whenever the Committee requests (usually every four years). The Committee examines each report and addresses its concerns and recommendations to the State party in the form of “concluding observations”. In addition to the reporting procedure, article 41 of the Covenant provides for the Committee to consider inter-state complaints. Furthermore, the First Optional Protocol to the Covenant gives the Committee competence to examine individual complaints with regard to alleged violations of the Covenant by States parties to the Protocol. The full competence of the Committee extends to the Second Optional Protocol to the Covenant on the abolition of the death penalty with regard to States who have accepted the Protocol. The Committee meets in Geneva and normally holds three sessions per year. The Committee also publishes its interpretation of the content of human rights provisions, known as general comments on thematic issues or its methods of work».

[9] Doc. CCPR/C/31D/194/1985, 29 ottobre 1987.

[10] Per ulteriori considerazioni al riguardo, v. S. Ruggeri, La riforma delle impugnazioni al vaglio del diritto comparato, in Aa. Vv., La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, a cura di M. Bargis – H. Belluta, Torino, Giappichelli, 2018, p. 276-277.

[11] In tal senso si esprime R. Orlandi, Intervento, in Aa. Vv., Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, Giuffrè, 2006, p. 348.

[12] F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, p. 1115, al quale si rinvia anche per le ulteriori distinzioni fra i modelli di impugnazione.

[13] «L’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato» (Cass., Sez. Un., sent. n. 8825 del 27/10/2016 – dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 26882201).

[14] C. cost., sent. n. 26 del 6 febbraio 2007, in Giur. cost., fasc. 1, 2007, p. 221, con nota di A. Bargi e A. Gaito, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria (a proposito della funzione del p.m. nelle impugnazioni penale, e di F. Caprioli, Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e «parità delle armi» nel processo penale.

[15] Secondo G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema costituzionale italiano, cit., p. 169-170, l’ultima parte della disposizione in questione, ove si parla di diritto al riesame in conformità della legge, non può essere intesa nel senso che tali eventuali condizioni di legge «tradiscano lo spirito (e la lettera) della norma che, con sufficiente chiarezza, indica il diritto al riesame nel merito del primo giudizio di condanna ad opera di un giudice superiore, ed appare così evocare innanzitutto proprio il principio del doppio grado di giurisdizione, al quale, dunque, dovranno richiamarsi, pur nella varietà dei sistemi processuali, le legislazioni degli Stati aderenti».