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LE INSIDIE DELLA FREQUENTAZIONE IMPROPRIA FRA MAGISTRATI E GIORNALISTI – DI GIOVANNI VALENTINI

LE INSIDIE DELLA FREQUENTAZIONE IMPROPRIA FRA MAGISTRATI E GIORNALISTI – DI GIOVANNI VALENTINI

VALENTINI LE INSIDIE DELLA FREQUENTAZIONE IMPROPRIA TRA MAGISTRATI E GIORNALISTI.PDF

di Giovanni Valentini

Magistrati e giornalisti possono confrontarsi e collaborare reciprocamente, a condizione però di mantenere distinte le rispettive funzioni e responsabilità. È insidiosa una frequentazione impropria fra magistrati e giornalisti, quando avviene al di fuori dei normali rapporti di lavoro. È allora che i due cavi elettrici si toccano e provocano il cortocircuito. Ed è allora che i fatti rischiano di confondersi con le opinioni, violando la trasparenza e la correttezza dell’informazione.

“I fatti separati dalle opinioni”, recitava accanto alla testata lo slogan programmatico del settimanale Panorama, diretto nella seconda metà degli anni Settanta da Lamberto Sechi. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti del giornalismo italiano mentre il mondo dell’informazione veniva stravolto dall’avvento di Internet e dei social media. Di quello slogan, un anelito al mito dell’obiettività, ormai resta ben poco: i fatti sono sempre più intrecciati alle opinioni e queste, anzi, vengono spacciate spesso per fatti, nel trionfo quotidiano delle fake news all’insegna della post-verità. L’interattività tende così a sostituire sempre più la mediazione tra le fonti e i cittadini, lettori o radiotelespettatori che siano, inficiando l’attendibilità e l’affidabilità delle notizie.

Uno dei campi più delicati ed esposti di questo fenomeno è proprio quello della giustizia. Non sempre il rapporto fra magistrati e giornalisti corrisponde, da una parte o dall’altra, ai canoni della trasparenza, della correttezza e dell’etica professionale. A volte sono i magistrati, in particolari gli inquirenti, che si avvalgono dei giornalisti, “soffiando” anticipazioni e indiscrezioni per ansia di protagonismo o magari per orientare il corso di un’inchiesta o di un processo. Quando il pubblico ministero pronuncia al termine delle indagini preliminari la fatidica frase “il caso è chiuso”, di fatto anticipa in modo più o meno inconsapevole una sentenza che frequentemente si trasforma in una gogna mediatica. Altre volte sono i giornalisti che sfruttano un rapporto di consuetudine o di fiducia con un pm per carpirgli un’informazione o una confidenza che – quando viene resa pubblica – rischia magari di compromettere le indagini o addirittura di favorire un imputato.

Molti magistrati preferiscono perciò mantenere le distanze con i cronisti giudiziari, proprio per evitare contatti troppo ravvicinati. Nel mio nuovo noir “La Sirena delle Azzorre”, ambientato in quel paradiso terrestre dell’arcipelago portoghese quasi a metà strada fra l’Europa e l’America, ne faccio incontrare uno immaginario al protagonista Alfonso Delgado, giornalista in pensione ma sempre in servizio permanente effettivo, che sta indagando su una serie di morti sospette in una casa di riposo per anziani. Un tema che, nell’emergenza sanitaria causata dall’epidemia di coronavirus, ha trasformato una storia di fantasia in un racconto d’attualità, a cavallo fra malagiustizia e malainformazione. E racconto nel libro: “Delgado ne aveva conosciuti tanti di quel genere in vita sua, diffidenti e sospettosi, poco inclini a collaborare con la stampa nel timore di interferenze o fughe di notizie. O al contrario, pronti a strumentalizzarla per sostenere i propri castelli accusatori. Eppure, era sempre stato convinto che in fondo magistrati e giornalisti, gli uni e gli altri alla ricerca della verità, fanno un lavoro analogo. Tant’è che spesso, in forza di una malintesa contiguità, i cronisti giudiziari finiscono per pendere dalle labbra degli inquirenti e rischiano di prendere per buono tutto ciò che le fonti vogliono far sapere, tralasciando magari gli aspetti più incerti e controversi”.

Non c’è neppure bisogno di essere garantisti per ricordare in proposito il caso Valpreda o il caso Tortora, di cui mi sono occupato in fasi diverse della mia esperienza professionale. Per il primo, fui ribattezzato “penna rossa” per aver preso le difese del ballerino anarchico accusato della strage terroristica di piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969) e poi assolto. Per il secondo, quando dirigevo il settimanale L’Espresso, per poco non rischiai uno sciopero della redazione in segno di protesta per aver ricevuto il vecchio leader radicale Marco Pannella e dovetti fare molti sforzi per correggere la deriva giustizialista del giornale, fino a quando arrivammo a pubblicare come allegato La colonna infame con cui Tortora si presentò al processo prima di essere anche lui assolto dall’accusa di appartenenza alla criminalità organizzata: qualche anno fa, durante un convegno dell’Unione delle Camere Penali, la compagna mi confidò di aver deposto una copia di quel libro nella bara di Tortora. E non voglio parlare qui del caso Marta Russo, la studentessa uccisa con un colpo di pistola all’Università di Roma il 9 maggio 1997, perché il mio instant-book intitolato Il mistero della Sapienza (Baldini & Castoldi, 1999) mi ha già procurato fin troppi guai, in seguito a un’autentica persecuzione giudiziaria.

Giustizia e informazione sono, dunque, due cavi elettrici ad alta tensione che non si devono avvicinare troppo. Altrimenti, fanno scintille e si rischia il cortocircuito. Fuor di metafora, magistrati e giornalisti possono confrontarsi e collaborare reciprocamente, a condizione però di mantenere distinte le rispettive funzioni e responsabilità. Ognuno, insomma, deve fare lealmente il proprio mestiere. E la stampa è tenuta a esercitare il suo ruolo di watch dog, cane da guardia, anche nei confronti del potere giudiziario come di quello legislativo ed esecutivo.

Sorprende e colpisce perciò che un professionista esperto e accorto come l’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, sia incappato recentemente in un’ambigua polemica che riguarda la misteriosa trattativa Stato-mafia (Stato con la maiuscola istituzionale, mafia con la minuscola): trattativa che avrebbe dovuto porre fine alla “stagione stragista”, aperta con gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in cambio di un’attenuazione della lotta contro gli affiliati di Cosa nostra. È stato – come si sa – il consigliere del Csm Nino Di Matteo, nella sede della Commissione Antimafia, ad alludere a “un noto giornalista” di un “noto quotidiano” che si sarebbe prestato a fare da tramite fra il Quirinale e l’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, per cercare un accordo che evitasse il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale fra l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i magistrati che andarono a interrogarlo in merito a questa vicenda. Mauro ha smentito immediatamente la versione, sostenendo di aver ricevuto una volta Ingroia nella redazione del giornale e di non aver parlato della trattativa, ma il magistrato ha replicato confermando la circostanza. E in una dichiarazione all’agenzia Adnkronos, ha aggiunto: “La cosa ancor più sorprendente fu che fra gli ambasciatori indicati da Napolitano come suoi portavoce per un ipotetico incontro ci fosse proprio il dottor Luca Palamara che, in quanto presidente dell’ANM, avrebbe dovuto essere tutt’al più un portavoce della magistratura. E quindi nostro, e non certo della politica, e cioè del presidente Napolitano. Poi la cosa non ebbe ulteriori sviluppi probabilmente per la mia risposta”. Si tratterebbe di quello stesso Palamara che è stato coinvolto nell’inchiesta sulle tangenti per le nomine delle toghe e ora espulso dall’Associazione.

Si stenta francamente a credere che l’ex direttore di Repubblica abbia commesso una tale ingenuità e leggerezza. Sta di fatto, comunque, che anche quest’ultimo episodio conferma quanto possa essere insidiosa una frequentazione impropria fra magistrati e giornalisti, quando avviene al di fuori dei normali rapporti di lavoro. È allora che i due cavi elettrici si toccano e provocano il cortocircuito. Ed è allora che i fatti rischiano di confondersi con le opinioni, violando la trasparenza e la correttezza dell’informazione.