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LO STATO DI ECCEZIONE E LE FONTI NORMATIVE DELL’EMERGENZA:  IL PASSAGGIO CHE DAL DIRITTO CONDUCE ALLA FORZA – DI FEDERICO FEBBO

LO STATO DI ECCEZIONE E LE FONTI NORMATIVE DELL’EMERGENZA: IL PASSAGGIO CHE DAL DIRITTO CONDUCE ALLA FORZA – DI FEDERICO FEBBO

FEBBO – LO STATO DI ECCEZIONE E LE FONTI NORMATIVE DELLA EMERGENZA IL PASSAGGIO CHE DAL DIRITTO CONDUCE ALLA FORZA.PDF

di Federico Febbo

La Costituzione non si contrappone al Progresso in sé, ma a quello che erode i diritti dei cittadini. Il pro-gresso va stimolato, ma per essere considerato tale deve coniugare sviluppo tecnologico ed implementazione dei diritti: novità e tecnologia sono spesso evocati come sinonimi di progresso, termine ampiamente abusato che nel suo significato etimologico vuol dire, semplicemente, andare – verso, quindi avanzare: si, ma per andare dove? Sotto un altro punto di vista, nemmeno eccessive garanzie devono limitare il progresso perché la garanzia, si dice, è una “zona di comfort” e di avversione al rischio. Il tema allora è: in quali situazioni il progresso (specie quello digitale) è un rischio troppo elevato per le garanzie dei cittadini? E non, come adattare il progresso digitale per assicurare le garanzie. Non sottovalutiamo il pericolo, incombente ed insidioso allo stesso tempo, perché celato da trame a tratti impercettibili, del tentativo di consolidare compressioni definitive di alcuni diritti introdotte con il registro dell’emergenza, “normalizzando la temporaneità”.  

Sommario: 1 – Il rapporto tra Giustizia e Forza nel costituzionalismo liberale: il perseguimento del pactum societatis. 2 – Le catene normative dell’emergenza. 3 – I diritti fondamentali sono scolpiti dalla Costituzione, a presidio anche dalla loro “virtualizzazione digitale”.

  1. Il rapporto tra Giustizia e Forza nel costituzionalismo liberale: il perseguimento del pactum societatis.

Il diritto è per natura dipendente dalla forza: si può dire che il diritto è impotente senza la forza.

È questo il primo, vertiginoso, paradosso che contraddistingue il concetto stesso di diritto e di ordinamento giuridico: ogni regola assume la difesa di una comunità attraverso la sua imposizione formale e si sostanzia nell’interdizione delle condotte potenzialmente ostili.

Si può dire che, al fine di immunizzare la comunità dalle sue tendenze autodistruttive, “il diritto ha necessità di proteggere, anzitutto, se stesso e per farlo si affida allo stesso principio che intende dominare, alla medesima forza che deve tenere a bada” [1].

In quest’ottica, la giustizia non solo legittima la forza, ma necessita della forza.

Partendo da tale assunto, Pascal giunge alla conclusione che è necessario unire la giustizia con la forza, affinché “ciò che è giusto sia forte e ciò che è forte sia giusto” [2].

È questo, in sintesi, il primo eclatante paradosso del diritto: “una violenza alla violenza per il controllo della violenza” [3].

Il secondo, non meno vertiginoso, è che tale paradigma è stato inglobato dal costituzionalismo liberale, nella misura in cui ha individuato nelle costituzioni il caveau, innestato nell’edificio normativo dell’Ordinamento, ove custodire i suoi valori più preziosi, meta-giuridici, esposti a rischi predatori di intensità proporzionata alla solidità delle sue mura ed alla forza di resilienza delle sue porte.

Valori codificati dalle moderne costituzioni nei diritti che appartengono, per natura, all’uomo in quanto tale, che lo prevengono e, per questo, appartengono piuttosto al genere dei postulati, nel loro significato etimologico di proposizioni indimostrate e preesistenti da preservare, se necessario, anche con la forza.

È in questo senso che il costituzionalismo liberale continentale, a partire dall’atto fondativo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il cui articolo 2 individua lo “scopo di ogni associazione politica” nella “conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo”, diventa espressione per “limitare la tirannide della maggioranza” [4]; contrafforte al governo dispotico che incarna il “governo della volontà al di sopra della legge” [5]; “argine al potere della maggioranza” [6] e protezione contro il rischio della “tirannia dei cinquantuno” [7]di einaudiana memoria.

Dal paradigma liberale, per cui la giustizia legittima la forza e la forza è legittimata dalla giustizia, discende quindi che il Potere, quando attua la forza, è legittimato solo nella misura in cui persegue il pactum societatis, il quale presuppone una rinuncia alla libertà assoluta per la tutela di certi diritti.

Non potendo approfondire oltre il tema in questa sede, la prima lezione del costituzionalismo liberale è che il Potere, per essere legittimo, esercita la Forza per realizzare il pactum societatis; mentre il Potere che trae legittimazione solo dalla Forza è, per se stesso, arbitrario e violento.

Su questo delicato paradigma poggia l’articolato equilibrio costituzionale della ripartizione dei poteri al punto che, come ha avuto modo di affermare la Corte Suprema statunitense, vi sono “materie che necessitano di essere sottratte alle vicissitudini della lotta politica, per essere poste oltre la portata delle maggioranze”, giacché “i diritti fondamentali non possono essere soggetti al voto”, né dipendere “dall’esito delle elezioni” [8].

Per l’effetto, è possibile affermare che il gradiente di liberalità di uno stato si misura nella propensione a garantire i diritti fondamentali dell’uomo inteso – secondo l’indicazione di Norberto Bobbio – “come stato limitato in contrapposto allo stato assoluto”, sul presupposto metagiuridico che l’Uomo, “inteso come entità che comprende tutti gli uomini indiscriminatamente, ha per natura, e quindi indipendentemente dalla loro stessa volontà, tanto più dalla volontà dei pochi o di uno solo, alcuni diritti fondamentali” [9].

La rivoluzione del costituzionalismo liberale consiste proprio in questo: la collocazione al centro del nuovo umanesimo giuridico dell’uomo, in antitesi al potere sovrano, quale titolare di diritti “che gli competono indipendentemente dalla sua funzione o dal suo posto nella società e che lo rendono eguale ad ogni altro uomo”.

Essa si realizza attraverso la loro costituzionalizzazione, che li trasforma in veri e propri diritti positivi, custoditi in uno spazio che dovrebbe presidiarli dal Leviatano delle democrazie contemporanee, “la potenza del principio di maggioranza” [10]. E ciò in coerenza – con riferimento specifico all’esperienza dell’Italia repubblicana – alla nozione stessa di sovranità popolare, che secondo l’editto dell’art. 1 della Carta Fondamentale, si esplica solo “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Nondimeno, è necessario tenere bene a mente l’altra e forse più importante lezione del costituzionalismo liberale, che si ricava dalla sua storia: la forza di resilienza dei diritti fondamentali non è impenetrabile e la loro affermazione non costituisce una conquista definitiva delle democrazie contemporanee, da consegnare alla storia, ma è piuttosto un prodotto semilavorato che va costantemente raffinato; perché anche nei sistema ordinamentali evoluti, muniti di cheks and balances e di garanzie costituzionali, quali il sindacato di costituzionalità delle leggi e la natura aggravata del procedimento di formazione delle leggi costituzionali e di revisione della Costituzione, incombe costantemente e sotto traccia il pericolo di una minimalizzazione, specie in presenza di situazioni “emergenziali”, suscettibili di diventare il pretesto per la compressione delle libertà fondamentali, fondata su un preteso diritto costituzionale dell’emergenza.

Il rischio è che un uso politico della paura, riconducibile all’emergenza epidemiologica originata dalla diffusione del virus COVID-19, abbia insinuato delle incrinature nello stato costituzionale di diritto, con torsioni verso forme di democrazia securitaria che aspirino alla normalizzazione, anche dopo e ben oltre l’attuale stato di pandemia.

  1. Le catene normative dell’emergenza.

La delibera con la quale il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo scorso 31 gennaio lo “stato di emergenza”, in conseguenza del “rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” ha introdotto, di fatto, l’attuale “catena normativa dell’emergenza”.

La dichiarazione è stata preceduta da alcuni timidi provvedimenti del Ministro della salute, concernenti dapprima la sorveglianza dei passeggeri provenienti in Italia con voli diretti da paesi “comprendenti aree in cui si è verificata una trasmissione autoctona sostenuta del nuovo Coronavirus (2019 – nCoV” e, successivamente, l’interdizione a tutti i voli provenienti dalla Cina[11]: provvedimenti agilmente eludibili (ed in concreto elusi) mediante il ricorso alla segmentazione dei piani di volo, in modo da occultare la provenienza dalle aree infette.

La delibera ha una copertura normativa negli artt. 7 comma 1 lett. c) e 24 comma 1 del d. lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, recante la disciplina del “Codice della protezione civile” (hic inde codice della protezione civile), che ha abrogato la precedente disciplina contenuta nella legge n.225 del 1992, dalla quale ha tuttavia ereditato numerose disposizioni, fonte primaria la cui legittimità è già stata scrutinata dalla Corte costituzionale [12].

L’art. 1 comma 1 della dell’editto governativo proclama lo stato di emergenza nazionale ed il comma 2 dell’articolo 24 chiarisce che quelli da adottare, durante lo stato di emergenza, sono gli “interventi di cui all’articolo 25, comma 2 lettere a) e b) del codice della protezione civile.

Il riferimento all’emergenza non rappresenta solo il contrassegno di uno stato di fatto (da non confondersi con gli stati di guerra, di eccezione e di assedio) ma di un presupposto positivamente disciplinato nei presupposti (artt. 1 e 7), negli effetti (in particolare, artt. 24 e 25) e nei limiti temporali (art. 24, comma 3 del codice di protezione civile), scrutinabili in sede giurisdizionale [13] (anzitutto amministrativa), ancorché con riferimento limitato “alla verifica della coerenza interna dell’atto ed alla sussistenza dei fatti posti a base della deliberazione, senza impingere nel merito” [14].

Corre l’obbligo di precisare che la dichiarazione può essere adottata, ai sensi del comma 1 dell’art. 24 del codice di protezione civile, solo “sulla base dei dati e delle informazioni disponibili”, che devono dimostrare la sussistenza dei “requisiti di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c)”.

Deve trattarsi di dati “univoci e concordanti”, che la Corte costituzionale ha considerato essenziali [15] e che il provvedimento governativo ha individuato nella dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC), adottata dall’Organizzazione  mondiale della sanità il giorno precedente la delibera (30 gennaio 2020), nelle raccomandazioni alla comunità internazionale adottata dalla medesima OMS circa la necessità di applicare misure adeguate e nell’attuale situazione di diffusa crisi internazionale, determinata dalla insorgenza di rischi per la pubblica e privata incolumità, connessi ad agenti virali trasmissibili e che stanno interessando anche l’Italia[16].

L’efficacia dimostrativa dello stato di emergenza di rilievo nazionale è collegata alla presenza di eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che, in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari, da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24 del codice di protezione civile.

La delibera ha scosso una scia tellurica di decreti legge, a partire dal numero 6 del 23 febbraio, adottati sui presupposti di necessità ed urgenza previsti dall’art. 77 seconda comma della costituzione, la cui sussistenza sarebbe difficile negare nell’attuale stato di pandemia, con i quali ha imposto la disciplina di alcuni diritti fondamentali in deroga alle norme ordinarie, con efficacia che si promette contenuta nel periodo determinato dall’emergenza.

Cercando di individuare una copertura costituzionale dell’attuale catena normativa, è necessario partire dal rilievo che lo stato di emergenza non è codificato nella Carta Fondamentale, a differenza dello stato di guerra (art. 78 della costituzione), la cui disciplina assorbe anche quella dello stato di assedio[17], mentre lo stato di eccezione è tipizzato, per definizione, dall’affermazione auto-referenziale di un soggetto, sia esso politico o istituzionale, che assume poteri extra-ordinem, esorbitanti le competenze istituzionali e la disciplina delle fonti ordinarie e rispetto al cui esercizio non è possibile svolgere alcun controllo.

Tale rilievo pone subito due rilevanti problemi, in ordine alla legittimità costituzionale dell’attuale catena normativa ed al limite costituzionale della sua capacità espansiva.

La statuizione di emergenza, infatti, non conferisce allo Stato una generalizzata immunitas, costruita sul registro della excusatio (legata alla pandemia), ma legittima esclusivamente l’adozione di quei provvedimenti, straordinari e contingenti, che sono strettamente orientati a preservare i principi immanenti all’esistenza stessa dell’Ordinamento, quali la salus rei publicae ed il primum vivere.

Tratto tipizzante che connota la normativa emergenziale, pertanto, qualificandone l’essenza e la ratio, è la contingenza della sua applicazione.

Ecco, allora, che l’ordinamento liberale è stretto, attualmente, da due catene normative.

L’una si dipana nella progressione rossiniana della decretazione d’urgenza, che si fonda sull’emanazione di plurimi decreti che hanno rincorso lo sviluppo dell’emergenza, nonostante la giurisprudenza costituzionale abbia reiteratamente affermato – a chiare lettere – che un prolungato esercizio della decretazione d’urgenza possa essere fondato solo su presupposti giustificativi nuovi e sempre di natura emergenziale, intrinsecamente temporanei; a condizione, altrimenti, di trasformare la decretazione d’urgenza in uno strumento ordinario di normazione primaria, trasferendo la straordinarietà nella ordinarietà; sterilizzando la capacità nomopoietica del Parlamento, relegato alla funzione notarile di ratifica degli editti adottati sia dal governo che, in modo solipsistico, da chi lo presiede.

L’altra, la catena normativa dell’emergenza, originata dalla delibera governativa che l’ha dichiarata, si dipana nei decreti del presidente del consiglio dei Ministri che vi danno attuazione, emanati in qualità di Autorità nazionale di protezione civile e di titolare delle politiche in materia ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. a) del codice di protezione civile; nelle ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile, adottate ai sensi dell’art. 5 comma 1 del codice, da considerare a tutti gli effetti atti normativi ai sensi dell’art. 25 comma 1 e subordinati ai limiti fissati nella dichiarazione dello stato di emergenza: si tratta di fonti dotate della capacità di normare “in deroga a ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, nei limiti delle risorse di cui al comma 3” e della latitudine riconosciuta, in concreto, dall’autorità sanitaria e dalle ordinanze del Ministro della salute alla nozione di Quarantena, che indica “la condizione o la situazione di una nave, aeromobile, treno, veicolo stradale, altro mezzo di trasporto o container nel periodo in cui un’autorità sanitaria applica nei suoi confronti le misure atte a prevenire la diffusione di malattie, di focolai di malattie o di vettori di malattie” [18]; la catena si dipana, ulteriormente, nelle ordinanze e nelle circolari di ministri diversi da quello della salute, nei limiti riconosciuti dai provvedimenti di protezione civile, com’è accaduto con il d.P.C.M. del 22 marzo che ha conferito al Ministro dello sviluppo economico l’aggiornamento dei codici ATECO delle attività economiche consentite in deroga; nelle ordinanze, di carattere contingibile ed urgente, emanate dai Presidenti delle regioni, cui sono demandate rilevanti attribuzioni in situazioni di emergenza, in ossequio al principio di sussidiarietà delle funzioni amministrative, “giacché, nell’ambito dell’organizzazione policentrica della protezione civile, occorre che essa stessa fornisca l’intesa per la deliberazione del Governo e, dunque, cooperi in collaborazione leale e solidaristica” [19], entro un principio di “coinvolgimento delle Regioni previsto in generale dal codice della protezione civile del 2018” [20]; ordinanze che sono abilitate a normare in deroga alla disciplina statale, secondo le prescrizioni di volta in volta stabilite dalle ordinanze di protezione civile, nei limiti e con le modalità indicate dallo stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea (art.25 del codice di protezione civile); ancora, nelle ordinanze dei Presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano e dei Sindaci in materia di igiene e sanità pubblica, di vigilanza sulle farmacie e di polizia veterinaria, giusto il disposto dell’art.32 della legge 833 del 1978; nelle ordinanze prefettizie (art.9 del codice di protezione civile).

Ma come ha recentemente rammentato la Consulta, la gestione statale dell’emergenza “è una funzione temporanea, che si origina e si elide in ragione, rispettivamente, dell’insorgere e del cessare della situazione di emergenza” [21], la quale coincide anche con la chiusura della relativa catena.

La cessazione dello stato di emergenza, giova evidenziarlo, nella situazione attuale ha anche “data certa”, quella del 31 luglio, secondo l’indicazione esplicitata nella delibera che l’ha originata.

  1. I diritti fondamentali sono scolpiti dalla Costituzione, a presidio anche dalla loro “virtualizzazione digitale”.

 

Ciò non significa, semplicisticamente, che a quella data lo stato epidemiologico sarà cessato.

Da quella data, a meno che lo stato di emergenza non sarà protratto, previa nuova deliberazione nelle forme del codice di protezione civile, la scia tellurica della decretazione d’urgenza, abbinata al “voto bloccato” in sede di conversione che ha impedito ogni confronto parlamentare, dovrà lasciare il posto alla funzione nomopoietica restituita al Parlamento.

Ma con un monito: prestando questa volta attenzione alla lezione appresa dalla storia del costituzionalismo liberale, fatta di luci ma anche di ombre, sarà necessario vigilare con sorvegliata cautela il “tempo della normalizzazione”, onde prevenire la tentazione che esso coincida (anche) con la normalizzazione dei moduli normativi e dei precetti sperimentati nell’emergenza in nome, stavolta, dell’efficientismo e del progresso tecnologico.

La Costituzione non si contrappone al Progresso, ma al Progresso che erode i diritti dei cittadini.

Il progresso va stimolato, ma per essere considerato tale deve coniugare sviluppo tecnologico ed implementazione dei diritti dei cittadini: novità e tecnologia sono spesso evocati come sinonimi di pro-gresso, termine ampiamente abusato che nel suo significato etimologico vuol dire, semplicemente, andare-verso, quindi avanzare: si, ma per andare dove?

È un punto di vista.

Ma nemmeno eccessive garanzie devono limitare il progresso perché la garanzia, si dice, è una “zona di comfort” e di avversione al rischio.

È un altro punto di vista.

Il tema allora è: in quali situazioni il progresso (specie quello digitale) è un rischio troppo elevato per le garanzie dei cittadini? E non, come adattare il progresso digitale per assicurare le garanzie.

Non va mai dimenticato, infatti, che i diritti fondamentali sono scolpiti dalla Costituzione, a presidio anche dalla loro “virtualizzazione digitale”.

La Carta Fondamentale contiene il riferimento a situazioni eccezionali (art. 13 e 81), di urgenza (artt. 13, 21, 72, 73 e 77), di necessità (art.13, 50 e 77), a possibili limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno per motivi di sanità o di sicurezza (art. 16 della costituzione), laddove siano previsti dalla legge ed in generale, nonché allo stato di guerra, dichiarato dal Presidente della Repubblica a seguito di delibera del Parlamento, la quale non conferisce all’esecutivo poteri illimitati ma solo quelli ritenuti necessari (artt. 78 e 87 costituzione); e, d’altronde, neppure per “il tempo di guerra” è possibile sospendere ma, al limite, derogare ai principi del giusto processo (ex art. 111 costituzione), tant’è che i tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge (art. 103 costituzione).

Ebbene, nessuna disposizione della Costituzione consente la sospensione dei diritti e prevede l’attribuzione, ad alcuno, di pieni poteri.

Sfogliando la nostra tradizione giuridica, anche il diritto romano conosceva l’istituto dello iustitium, proclamato in caso di grave pericolo per la Repubblica da un senatus consultum ultimum il quale, giova evidenziare, determinava la momentanea sospensione delle leggi e prevedeva, contestualmente, l’attribuzione ai magistrati di un potere illimitato.

Questo stato di eccezione, inteso in senso forte, non ha alcuno spazio nel nostro ordinamento costituzionale.

Esso legittima, esclusivamente per situazioni emergenziali, “categorie giuridiche sostitutive di quelle ordinarie” [22] caratterizzate, inter alia, dalla proporzione dei poteri previsti e dalla loro temporaneità, limitata al perdurare della situazione di fatto.

La storia del costituzionalismo liberale, allora, ci interroga: non sottovalutiamo il pericolo, incombente ed insidioso allo stesso tempo, perché celato da trame a tratti impercettibili, del tentativo di consolidare compressioni definitive di alcuni diritti introdotte con il registro dell’emergenza, “normalizzando la temporaneità”.

Annibale è alle porte.

8.06.20

[1] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002.

[2] B. Pascal, Pensieri, trad. it., Milano 2009, p. 226.

[3] M. Dell’Utri, Saepe in periculis, in www.giustiziainsieme.it, 22.3.2020.

[4] A. Di Giovine, Le tecniche del costituzionalismo del ‘900 per limitare la tirannide della maggioranza, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/materiali/anticipazioni/tecniche_costituzionalismo

[5] C. H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), Venezia, Neri Pozza, 1956, p.30.

[6] A. Di Giovine, opera cit., p.1.

[7] L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Bari, 1954, pp. 92-112.

[8] Il riferimento è alla sentenza West Virginia Board of Education v. Barnette, 319 U.S. 624 (1943), operato da S. Guizzi in Stato costituzionale di diritto ed emergenza COVID-19: note minime, consultabile su www.magistraturaindipendente.it, 18.04.2020.

[9] N. Bobbio, Liberalismo e democrazia, edizione Simonelli 2006, p. 32.

[10] La citazione di N. Bobbio, Teoria generale della Politica, Torino, 1999, pp. 399-400 è tratta da S. Guizzi, op. cit.

[11] Cfr. rispettivamente, ord. 25.1.2020 (in G.U. Serie gen., 27.1.2020 n.21) e 30.1.2020 (in G.U. Serie gen., 1.2.2020 n.26).

[12] Corte costituzionale, sent. n. 418 del 1992.

[13] G. Panattoni, La controversa figura dell’atto politico, alla luce dei casi “Diciotti” e “Gregoretti”, consultabile su www.federalismi. it., fascicolo n. 8/2020, p. 223.

[14] M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, consultabile su www.rivistaaic.it., rivista 2/2020, p. 118.

[15] Corte costituzionale, sent. n.127 del 1995.

[16] Così, testualmente, la terza, quarta e quinta premessa alla delibera del CdM.

[17] F. Racioppi, Lo stato di assedio e i tribunali di guerra, Giornale degli Economisti, serie seconda, vol. 17 (Anno 9) (AGOSTO 1898), pp. 136-154.

[18] Art. 1 della legge 9 febbraio 1982 n. 106, recante “Approvazione ed esecuzione del regolamento sanitario internazionale, adottato a Boston il 25 luglio 1969, modificato dal regolamento addizionale, adottato a Ginevra il 23 maggio 1973” ed attualmente sostituito dalle International Health Regulations, consultabili sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

[19] Corte costituzionale, sent. n. 8 del 2016.

[20] Corte costituzionale, sent. n. 246 del 2019.

[21] Ancora Corte costituzionale., sent. n. 8 del 2016.

[22] T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus, consultabile su giustiziainsieme.it, 19.4.2020.