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L’UDIENZA PENALE DA REMOTO ALLA LUCE DELLE GARANZIE DEL FAIR TRIAL NEL DIRITTO CONVENZIONALE E DELL’UNIONE EUROPEA

L’UDIENZA PENALE DA REMOTO ALLA LUCE DELLE GARANZIE DEL FAIR TRIAL NEL DIRITTO CONVENZIONALE E DELL’UNIONE EUROPEA

L’introduzione nel nostro ordinamento processuale, a causa della attuale situazione emergenziale determinata dal virus COVID-19, di una disciplina che nella sostanza smaterializza il processo penale, impone di valutarne le ripercussioni anche nell’ottica della tutela multilivello dei diritti fondamentali offerta dalle pertinenti coordinate convenzionali ed eurounitarie. Le tematiche di rilievo, tra le altre, attengono alla pubblicità dei procedimenti giudiziari e al diritto all’interpretazione per l’imputato che non comprenda o parli la lingua usata in udienza, e ciò in relazione all’art. 6 § 1 CEDU. Altro profilo di notevole interesse è il diritto per gli indagati e gli imputati di presenziare al proprio processo come statuisce l’art. 8 § 1 della Direttiva 2016/343/UE

Il contributo dell’Osservatorio Europa e della Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane.

Doc-049_Giunta_Oss-Europa—Udienza-da-remoto-e-fair-trial-CEDU-e-diritto-UE.PDF

L’attuale situazione emergenziale determinata dalla pandemia da Covid-19, come noto, ha indotto il Governo a percorrere la strada della smaterializzazione del processo penale attraverso la previsione dell’udienza da remoto, con una determinazione tale da lasciar presagire che la soluzione individuata da eccezione possa diventare regola, come, del resto, già accaduto nel 1989 con l’introduzione dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p., il cui contenuto è stato ampliato a dismisura con la legge n. 103 del 2017.

Di qui, la necessità di valutare le ripercussioni di una tale eventualità, non solo al metro del diritto interno, ma anche nell’ottica della tutela multilivello dei diritti fondamentali offerta dalle pertinenti coordinate convenzionali ed eurounitarie.

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nel sancire all’art. 6 § 1 il diritto all’equo processo e, con esso, la pubblicità dei procedimenti giudiziari, assegna una assoluta rilevanza ai principi di oralità e pubblicità dell’udienza in ambito penale[1], ove chi sia accusato di un reato deve, in generale, essere posto nelle condizioni di partecipare al processo di primo grado per poter esercitare compiutamente i diritti garantiti dall’art. 6 § 3, lett. c), d) ed e), ovvero, il diritto a difendersi personalmente, il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei primi, ed il diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o parla la lingua adottata in udienza, di tal che il dovere di garantire la presenza fisica dell’accusato nell’aula di udienza rappresenta uno dei requisiti basilari dell’equo processo di cui all’art. 6 CEDU[2]. La disponibilità dei diversi diritti garantiti dall’art. 6 permette, peraltro, che ciascuno possa, per libera scelta, espressamente o tacitamente, ma in modo inequivocabile, rinunciare alle garanzie dell’equo processo avendo ragionevolmente previsto le conseguenze della sua determinazione[3], il che può valere sia per la partecipazione all’udienza, sia per la pubblicità del dibattimento e l’assistenza dell’interprete.

Va ribadito che la Convenzione, nel momento in cui è stata aperta alla firma a Roma, il 4 novembre del 1950, non poteva che fare riferimento alla partecipazione fisica dell’imputato avanti il giudice. Tuttavia, essendo la medesima “uno strumento vivo che dev’essere interpretato alla luce delle condizioni attuali[4], la Corte di Strasburgo – nell’approccio casistico che contraddistingue la sua attività, qui particolarmente rilevante – pur non avendo affrontato, allo stato, ipotesi di processo nel quale i giudici e le parti presenzino all’udienza in videoconferenza da postazioni fra loro diverse al di fuori dell’aula, si è trovata ad occuparsi della compatibilità della partecipazione all’udienza dell’imputato da remoto con il diritto convenzionale all’equo processo.

A fronte di un primo indirizzo giurisprudenziale – relativo a ricorsi contro l’Italia afferenti casi di giudizi d’appello nei confronti di persone accusate di omicidio e di far parte di un’associazione mafiosa in regime di art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario – in cui la Corte EDU aveva individuato quali requisiti necessari per l’ortodossia convenzionale della partecipazione a distanza il perseguimento di “scopi legittimi quali  la difesa dell’ordine pubblico, la prevenzione del crimine, la tutela dei diritti alla vita, alla libertà ed alla sicurezza dei testimoni e delle vittime, nonché il rispetto dell’esigenza del tempo ragionevole di durata dei processi” e la compatibilità delle modalità di svolgimento con “le esigenze del rispetto dei diritti di difesa[5] non ravvisando la violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3 CEDU, successivamente, in casi – anche di Grande Camera – relativi alla Russia, l’attenzione della Corte si è concentrata, essenzialmente, sugli aspetti efficientistici della qualità della videoconferenza, che deve aver luogo con mezzi del tutto idonei, e sul diritto al colloquio riservato col difensore, quali misure adeguate a compensare la compressione dei diritti dell’imputato[6].

Se, quindi, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sui casi specifici indicati, insuscettibile di applicazione analogica, la partecipazione dell’imputato da remoto non è, di per se stessa, e sempre che risponda ai requisiti più sopra indicati, contraria alla Convenzione – la quale, vale la pena ricordarlo, è preposta ad assicurare uno standard minimo dei diritti fondamentali – la smaterializzazione del processo che venga celebrato in “stanze virtuali”, e non in aula, manifesta delle evidenti criticità rispetto al diritto all’equo processo nella sua declinazione del principio che prevede la pubblicità dei procedimenti giudiziari, volto a tutelare le parti processuali da un’amministrazione segreta della giustizia e senza controllo del pubblico. La pubblicità, del resto, è il canale attraverso cui è possibile mantenere e incrementare la fiducia nei confronti dell’autorità giudiziaria. Rendendo l’amministrazione della giustizia trasparente, il menzionato principio contribuisce al raggiungimento dello scopo dell’art. 6 § 1 della Convenzione, ovvero l’equo processo, la garanzia del quale è uno dei principi fondamentali di ogni società democratica[7].

In virtù di quanto precede, ai fini del rispetto dell’art. 6 § 1 della Convenzione, la Corte ritiene essenziale che i soggetti coinvolti nelle procedure “si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate del tribunale e delle corti d’appello[8].

Nonostante il requisito della pubblicità delle udienze sia soggetto ad alcune eccezioni, non risultano sussistere validi motivi per derogarvi, al di fuori di quelli previsti dall’art. 6 § 1 della CEDU e di quelli connessi alla tutela della vita e della salute pubblica nel perdurare della situazione di pandemia. In mancanza di scopi legittimi che consentano una limitazione al pieno dispiegarsi del diritto in questione, non è quindi conforme alla Convenzione la celebrazione di un processo, quale quello previsto dalla normativa emergenziale, i cui protagonisti sono tutti connessi virtualmente solo fra di loro, senza la possibilità per il pubblico di assistere all’udienza e poter verificare in concreto come venga amministrata la giustizia.

Altro aspetto rilevante riguarda il diritto all’interpretazione per l’imputato che non comprenda o parli la lingua usata in udienza.

Non essendosi ancora formata una giurisprudenza relativa all’attività dell’interprete durante le videoconferenze nei processi penali, varranno, comunque, gli obblighi positivi in capo alle autorità competenti non solo di procedere alla mera nomina formale di un interprete, ma anche di verificare l’adeguatezza dell’assistenza fornita, per far sì che il diritto in questione riceva tutela concreta ed effettiva[9].

Se, pertanto, durante la videoconferenza l’imputato è ammesso ad avvalersi di un interprete, il giudice, sotto la cui responsabilità si svolge l’udienza, è tenuto a valutare se l’assistenza fornitagli possa essere considerata effettiva. I risultati degli esami condotti nell’ambito del progetto AVIDICUS – Valutazione del video-interpretariato nel sistema giudiziario penale[10], finanziato dall’Unione Europea, hanno dimostrato chiaramente che l’attività di interpretariato nei processi penali in cui si ricorre alla videoconferenza richiede delle competenze supplementari che possono essere acquisite solo grazie ad una virtuosa, e necessaria, interazione con la pratica legale. Qualora, pertanto, il giudice, di sua iniziativa o su indicazione della difesa, rilevi che l’imputato, nonostante l’assistenza dell’interprete, non è in grado di comprendere pienamente ciò che accade nel processo e di esercitare in modo compiuto il proprio diritto di difesa, dovrà provvedere ad una nuova designazione per non incorrere nella violazione dell’art. 6 § 3, lett. e) CEDU.

Va da sé che un tale controllo qualitativo – già complicato e, spesso, trascurato, nell’udienza in presenza – da remoto, ove l’interprete potrebbe non trovarsi a partecipare alla “stanza virtuale” insieme all’imputato, diviene, di fatto, impossibile.

Le evidenziate compressioni del diritto all’equo processo convenzionale, in ogni caso, non potranno perpetuarsi in futuro per motivi di celerità ed economicità nel nome del principio di ragionevole durata del processo il quale resta escluso dalla comparazione ai fini del bilanciamento[11].

Sul piano del diritto dell’Unione Europea, l’art. 47, § 2, CdfUE sancisce il diritto al giusto processo disponendo che «[o]gni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare».

Sulla base dell’art. 82, § 2, lett. b), TFUE, è stata adottata la direttiva 2016/343/UE, la quale – come si apprende dal suo art. 1 e dal considerando n. 9 – ha stabilito norme minime comuni, applicabili ai procedimenti penali, in relazione alla presunzione d’innocenza e al diritto di presenziare al processo.

Al pari di numerosi strumenti adottati dall’UE in materia di diritti dell’indagato/imputato nella procedura penale, anche in questo caso si tratta di uno strumento finalizzato alla individuazione di tutele minime ed imprescindibili rispetto al quale gli Stati membri possono prevedere forme di tutela ulteriori e più significative ma non prevedere standard inferiori a quanto previsto dalla disposizione UE, così come ricordato dallo stesso considerando n. 48 della Direttiva in questione:  Poiché la presente direttiva stabilisce norme minime, gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di ampliare i diritti da essa previsti al fine di assicurare un livello di tutela più elevato. Il livello di tutela previsto dagli Stati membri non dovrebbe mai essere inferiore alle norme della Carta o della CEDU, come interpretate dalla Corte di giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.

L’art. 8, § 1 della direttiva in parola sancisce che “gli Stati membri garantiscono che gli indagati e imputati abbiano il diritto di presenziare al proprio processo”: quest’ultimo può svolgersi e concludersi senza la partecipazione fisica dell’interessato soltanto a condizione che questi sia stato informato tempestivamente del procedimento e dello sviluppo dello stesso, oppure ove questi, reso edotto, abbia nominato un proprio difensore e non intenda presenziarvi.

Se il procedimento si è svolto senza consentire all’imputato di presenziare lo Stato deve garantire mezzi di impugnazione della decisione tali da permettere uno scrutinio esteso al merito della pronuncia o la ripetizione del processo.

La scelta operata dalla direttiva di utilizzare l’espressione presenziare è chiaramente indice di una opzione volta a garantire la presenza dell’imputato al proprio procedimento, ben intendendo che la presenza non può che essere quella fisica connessa alla medesimezza di luogo e di tempo rispetto al luogo della decisione. La medesima distinzione generalmente operata in dottrina distingue tra: “partecipazione da remoto e partecipazione in presenza”.

Tale indicazione è ravvisabile anche nelle scelte semantiche operate nelle versioni inglese, spagnola e francese della direttiva.

La lettura nel senso di garantire la piena partecipazione dell’imputato al processo che lo riguarda è rafforzata dagli stessi considerando della Direttiva che ne costituiscono, per generale consenso della giurisprudenza UE, il primario sussidio interpretativo[12].

Recentemente, la Corte di giustizia ha avuto modo di soffermarsi sulla garanzia della partecipazione di indagati e imputati al procedimento che li riguarda. Ivi è stato specificato che, alla luce del considerando n. 35 della direttiva 2016/343/UE, il diritto in esame non è assoluto, ma che eventuali limitazioni debbono trovare nell’autonoma scelta da parte degli stessi interessati il loro fondamento: a tal fine, è necessaria una rinuncia incondizionata, libera ed inequivocabilmente esplicita[13].

In particolare, il giudice lussemburghese ha ricordato che la direttiva 2016/343 costituisce una declinazione della tutela del più ampio diritto all’equo processo, di cui all’art. 47 CdfUE e 6 CEDU.

A questo proposito, la Corte di giustizia ha fatto proprio il ricordato insegnamento della giurisprudenza della Corte EDU, dalla quale si desume che lo svolgimento di un’udienza pubblica è un elemento fondamentale sancito dall’art. 6 CEDU[14]. Questo principio assume un ruolo di cruciale importanza in materia penale: dinanzi al giudice, l’interessato può esigere di essere “ascoltato” e deve avere la possibilità, in particolare, di esporre oralmente i suoi motivi di difesa, di sentire le deposizioni a suo carico, di esaminare i testimoni in contraddittorio[15].

La lettura dei considerando della direttiva 2016/343 fornisce un ulteriore spunto di riflessione.

Al considerando n. 34, si ricorda che se l’interessato non può presenziare all’udienza per ragioni che esulano dalla propria sfera di controllo, per cui risulti impossibile la materiale partecipazione, si dovrebbe accordargli la possibilità di veder aggiornato, ad altro momento, lo svolgimento dell’attività processuale.

Quanto al ricorso allo strumento della videoconferenza, si può richiamare, rimanendo nel campo del diritto UE, l’art. 24 della direttiva 2014/41 sull’ordine europeo di indagine penale (OEI).

Tale previsione si applica ove sia necessario sentire, ai fini di un procedimento, un soggetto che si trova sul territorio di uno Stato diverso ed offre alcuni profili di sicuro interesse, perché trova applicazione anche per le audizioni di soggetti indagati e imputati che siano all’estero (art. 24, § 1, co. 2).

In particolare, affinché l’audizione possa validamente svolgersi a distanza, è necessario innanzitutto il consenso del soggetto imputato o indagato e che lo svolgimento di tale atto assicuri l’identificazione, la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento e l’esercizio dei rispettivi diritti. Ad ogni modo il diritto UE prevede l’utilizzo degli strumenti di videoconferenza solo come idoneo sussidio nelle ipotesi di cooperazione giudiziaria transfrontaliera e mai per situazioni di mero diritto interno.

Anche il diritto dell’Unione europea, oltre a quello convenzionale, pone, inoltre, serie problematiche con riferimento al diritto dell’imputato all’interpretazione ed alla traduzione imponendo agli Stati membri standard elevati di qualità che non sempre sono effettivamente accessibili e che nel caso di videoconferenza sarebbero inoltre assai difficilmente verificabili come invece previsto dalla disciplina eurounitaria ed in specie dalla direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 ottobre 2010, sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali.

Orbene, così delineato il quadro ed evidenziata, quantomeno, la non immediata infondatezza di una ipotesi di illegittimità e contrarietà della normativa italiana al quadro delineato dal diritto europeo, almeno nella parte in cui non sottopone al consenso dell’imputato l’eventuale partecipazione da remoto (e quindi non in presenza) al proprio procedimento, appare opportuno evidenziare i possibili rimedi offerti dal diritto dell’Unione europea.

Innanzitutto va ricordata la possibilità per la difesa di proporre al giudice nazionale di sollevare una questione pregiudiziale indirizzata alla Corte di giustizia dell’Unione europea (art. 267 TFUE) alla quale richiedere, laddove opportuno, la corretta interpretazione della norma UE e se questa osti ad una normativa nazionale con la stessa ritenuta incompatibile.

Nella specie potrebbe utilmente essere richiesto, attraverso la questione pregiudiziale da rivolgere alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che questa valuti se l’art. 8 della direttiva 2016/343/UE osti ad una normativa nazionale che, prescindendo dal consenso dell’imputato, ne preveda la sua partecipazione al processo che lo vede imputato da remoto e non in presenza.

Secondo il diritto dell’Unione europea la possibilità per i giudici di merito di sollevare una questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE diviene un obbligo giuridico per i giudici di ultima istanza: “Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile”.

Ed, ancora, va ricordato come la direttiva vincoli la Repubblica italiana all’adeguamento del proprio diritto nazionale a quanto previsto dal testo normativo europeo e come, conseguentemente, la questione pregiudiziale possa essere proposta in ogni procedimento penale che effettivamente riguardi l’applicazione di una normativa che ricada nell’ambito di applicazione della direttiva, ovvero ogni qualvolta si tratti della possibile violazione di una delle garanzie predisposte dalla direttiva.

Come ha sottolineato, infatti, la Corte di giustizia proprio interpretando la direttiva 2016/343: “tale direttiva si applica alle persone fisiche che sono indagate o imputate in un procedimento penale. Si applica a ogni fase del procedimento penale, dal momento in cui una persona sia indagata o imputata per aver commesso un reato o un presunto reato sino a quando non diventi definitiva la decisione che stabilisce se la persona abbia commesso il reato[16].

Una ulteriore possibilità di sindacare la violazione degli obblighi derivanti dalla direttiva da parte della Repubblica italiana può essere quella della predisposizione di una denuncia da indirizzare alla Commissione UE, cosicché essa sia messa in grado di conoscere la normativa rilevante (in specie l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, quale riformato dalla c.d. Legge Orlando e l’art. 83, commi 12 e 12 bis del D.L. 17.03.2020 n. 18, convertito con modificazioni nella L. 24.04.2020 n. 27, ulteriormente modificato dal D.L. 30 aprile 2020 n. 28, in corso di conversione) e valutare l’opportunità di avviare una procedura di infrazione ex art. 258 TFUE al fine di far accertare, da parte della Corte di giustizia, il mancato adeguamento dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dal diritto UE.

Quanto sin qui osservato, pur senza pretesa di esaustività, rende, da un lato, manifeste le criticità sottese alla smaterializzazione del processo penale, dall’altro, la necessità che il Legislatore le abbia ben presenti, atteso che, qualsiasi iniziativa che dovesse ledere il principio all’equo processo troverà pronti i penalisti italiani ad intervenire sia avanti le giurisdizioni nazionali, sia avanti le Corti Europee.

La Giunta UCPI

L’Osservatorio Europa

 

 

 

 

 

 

[1] Corte EDU, 12 novembre 2002, Döry c. Svezia, § 37; Corte EDU, 25 luglio 2002, Tierce ed altri c. San Marino, § 94; Corte EDU, GC, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, § 40, in www.hudoc.echr.coe.int.

[2] Corte EDU, GC, 18 ottobre 2006, Hermi c. Italia, §§ 58 e 59; Corte EDU, GC, 1 marzo 2006, Sejdovic c. Italia, § 81 e 84, in www.hudoc.echr.coe.int.

[3] Corte EDU, GC, Hermi c. Italia, cit., § 73; Corte EDU, GC, Sejdovic c. Italia, cit., § 86; Corte EDU, Kamasinski c. Austria, cit., § 30, in www.hudoc.echr.coe.int.

[4] Corte EDU, 25 aprile 1978, Tyrer c. Regno Unito, Serie A n. 26, § 31, in www.hudoc.echr.coe.int.

[5] Corte EDU, 5 ottobre 2006, Marcello Viola c. Italia, § 72 e Corte EDU, 27 novembre 2007, Asciutto c. Italia, § 68, in www.hudoc.echr.coe.int.

[6] Corte EDU, GC, 2 novembre 2010, Sakhnovskiy c. Russia, § 98 e Corte EDU, 24 aprile 2012, Gennadiy Medvedev c. Russia, §§ 30 e 32, in www.hudoc.echr.coe.int; in questo senso anche Corte Cost., sent. n. 342/1999, in www.cortecostituzionale.it. In particolare, circa il diritto al colloquio riservato col difensore, Corte EDU, 27 novembre 2007, Zagaria c. Italia, § 36.

[7] Corte EDU, Plen., 22 febbraio 1984, Sutter c. Svizzera, § 26; Corte EDU, 14 novembre 2000, Riepan c. Austria, § 27; Corte EDU, 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, § 34; Corte EDU, 08 luglio 2008, Perre ed altri c. Italia, § 23; Corte EDU, 28 ottobre 2010, Krestovskiy c. Russia, § 24, in www.hudoc.echr.coe.int.

[8] ibidem, Bocellari e Rizza c. Italia, § 40, cit.

[9] Corte EDU, 24 febbraio 2009, Protopapa c. Turchia, § 80; Corte EDU, GC, Hermi c. Italia, cit., § 70; Corte EDU, 19 dicembre 1989, Kamasinski c. Austria, § 74  in www.hudoc.echr.coe.int.

[10] Per approfondimenti sui progetti di ricerca finanziati dall’UE in materia di interpretazione, si rinvia al sito della Commissione Europea, www.ec.europa.eu.

[11] Corte Cost. sent. n. 317/2009, in www.cortecostituzionale.it.

[12] Si vedano i considerando dal numero 33 al numero 40.

[13] Corte giust., 13 febbraio 2020, TX e UW, C-688/18, § 32, in www.curia.europa.eu.

[14] ibidem, Corte giust., 13 febbraio 2020, TX e UW, C-688/18, cit., § 36.

[15] Corte EDU, 4 marzo 2008, Hüseyin Turan c. Turchia, § 31, in www.hudoc.echr.coe.int.

[16] Corte giust., 5 settembre 2019, C‑377/18, § 32.