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MEDUSA CON LA TESTA DI PERSEO:  I RISCHI DELLA CONTAMINAZIONE TELEOLOGICA DEL PROCESSO PENALE – DI FRANCESCO D’ERRICO

MEDUSA CON LA TESTA DI PERSEO: I RISCHI DELLA CONTAMINAZIONE TELEOLOGICA DEL PROCESSO PENALE – DI FRANCESCO D’ERRICO

D’ERRICO – MEDUSA CON LA TESTA DI PERSEO: I RISCHI DELLA CONTAMINAZIONE TELEOLOGICA DEL PROCESSO PENALE.PDF

di Francesco d’Errico* 

Una statua intitolata “Medusa con la testa di Perseo” campeggia ora nei pressi del New York County Criminal Court. Tale scultura, opera dell’artista italo-argentino Luciano Garbati, offre, ancora una volta, la possibilità di riflettere sui rischi di una giustizia concepita come vendetta e di un processo penale “teleologicamente contaminato”, traviato da finalità ulteriori rispetto a quelle sue proprie di cognizione e di risoluzione imparziale.

Là dove meno di un anno fa Harvey Weinstein veniva condannato a 23 anni di detenzione per stupro di terzo grado (third-degree rape) e atti sessuali criminali di primo grado (first-degree criminal sex), oggi sorge una statua la cui immagine sta rapidamente facendo il giro del mondo. Si tratta della “Medusa con la testa di Perseo”, che da qualche giorno spicca a ridosso della New York County Criminal Court.

Il motivo del successo mediatico dell’opera, accolta con grande entusiasmo dall’opinione pubblica italiana, risiede tutto nella sua potenza simbolica. Quest’ultima non consiste soltanto nel ribaltamento del mito e nella conseguente inversione di ruoli tra Perseo, divenuto vittima, e Medusa, riscoperta eroina, bensì anche nella scelta del luogo in cui la scultura è stata eretta[1].

L’ubicazione, infatti, è tutto fuorché casuale e, al netto della condivisibilità o meno dell’idea di fondo- evidentemente ispirata al movimento #MeToo[2], non si possono non notare i potenziali rischi derivanti dall’identificazione tra una lotta di natura politica e un palazzo di Giustizia, inteso erroneamente come luogo deputato a perorarla. Al penalista, infatti, non dovrebbe sfuggire la malsana concezione del processo che fa da sfondo a tale pericolosa associazione. Si tratta di una visione che, più o meno volontariamente, affonda le radici in una impropria sostituzione tra Giustizia e vendetta.

In un sistema democratico degno di questo nome, in cui dunque viga necessariamente il modello del giusto processo, l’inconciliabilità culturale tra la volontà di riaffermazione di una lotta sociale e il momento processuale dovrebbe risultare evidente pensando alla funzione cognitiva del processo, concepito come un luogo neutro nel quale accertare eventuali responsabilità. Partendo da tali presupposti, caratteristici di una solida impostazione liberale del processo penale, non si può che ripudiare una visione  “teleologicamente contaminata” da altre finalità, che siano di tipo repressivo o di applicazione delle più varie opzioni politiche.[3] È questo, infatti, l’unico modo perché il processo sia effettivamente Magna Charta del reo[4]; si tratta dell’unica via attraverso la quale il processo possa fungere efficacemente come mezzo di limitazione del potere punitivo, scongiurando, nei limiti del possibile, l’errore giudiziario e preferendo, in ogni caso, “salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente”, in applicazione del tradizionale principio dell’“in dubio pro reo”.

Pensare che questo episodio non ci riguardi, dunque, sarebbe un grande errore. Non solo perché quel che avviene Oltreoceano va sempre osservato con attenzione, dato che gli Stati Uniti rappresentano un grande laboratorio che anticipa e detta tutte le tendenze, ma anche perché in Italia, già da tempo e a prescindere dalle vicende statunitensi, si è diffusa l’idea che tramite il diritto penale, e quindi di riflesso attraverso il processo, “si possa trovare il rimedio a ogni ingiustizia e a ogni male sociale”[5].

Oggi più che mai, a causa di questa erronea concezione dello ius puniendi, la risoluzione imparziale di un giudizio corre il rischio di essere piegata al perseguimento di improprie finalità di natura perequativa. D’altronde, al netto dei principi fondamentali cristallizzati nella nostra carta costituzionale, è necessario fare i conti con la dominante diffidenza-se non con una dichiarata ostilità- nei confronti del sistema di garanzie. Un fenomeno maggioritario, che percorre l’intera società in maniera trasversale e che, al momento, pare difficilmente arrestabile[6].

Tale occasione, dunque, in quanto esemplificazione plastica di tali distorsioni, offre l’opportunità di poterne evidenziare, ancora una volta, i potenziali rischi e gli effetti già evidenti. L’identificazione del Tribunale come luogo deputato a riprodurre e perorare rivendicazioni di natura politica è uno dei frutti più velenosi di tale temperie, che mette in discussione il senso stesso del diritto e del processo penale.

In conclusione, appare chiaro che, mutuando il lessico bellico del movimento #MeToo e ponendosi nella loro prospettiva, la battaglia alla subcultura che alimenta lo stupro e quindi, semplificando, all’impostazione patriarcale della società o comunque all’impostazione maschilista di una società fondata su disparità di genere, non può che passare anche attraverso il diritto e quindi attraverso la legge. Proprio per questo, però, al netto dell’importanza del precedente nella cultura di Common law (da non dimenticare) e osservando il #MeToo al di là del merito delle sue rivendicazioni -e quindi sotto il profilo formale di movimento portatore di una legittima battaglia civile-, è lecito domandarsi se non sarebbe stato più opportuno erigere la statua in luoghi vicini al decisore politico.

La scelta di posizionarla davanti alla Corte che ha condannato Harvey Weinstein, infatti, tradisce un atteggiamento puramente revanscista e irrazionale, prodotto più dalla sete di rivalsa e di vendetta che dalla legittima volontà di voler promuovere opzioni di riforma o tramite una battaglia di tipo culturale.

Il diritto penale non può e non deve rappresentare un’opzione simbolica di lotta sociale, così come il processo non può fungere da luogo di riaffermazione delle pretese che da questa lotta scaturiscono, perché si darebbe tragicamente vita a un “nuovo tipo di processo politico, dovuto alle pressioni politico-sociali che nei processi attuali le vittime fanno pesare sui giudici, generando così gli stessi inconvenienti per la democrazia che sono caratteristici dei processi politici di ogni tempo (cioè il pregiudizio per l’imparzialità e per l’indipendenza del giudice che deve essere protetto dalle pressioni)”.[7]

*Presidente associazione Extrema Ratio

[1] Non ci interessa in questa sede valutare approfonditamente il gesto artistico in quanto tale. Basti dire che l’arte esiste anche per sconvolgere e capovolgere, e che per l’artista non devono esistere tabù. In tal senso, i miti possono essere ribaltati e riscritti, rivisitati e attualizzati.    Non è il ribaltamento del Mito di Perseo l’oggetto della critica.

[2] Non è questa la sede per approfondire nel dettaglio il difficile rapporto tra le istanze del movimento #MeToo e le garanzie in ambito penale. Si pensi, su tutte, ai possibili contrasti con il principio della presunzione di innocenza e alla discutibile concezione del consenso legata al modello “Yes means Yes”. Se un tale modello dovesse trovare spazio anche in Italia, finirebbe per dare il colpo di grazia a un principio che, già oggi, subisce quotidianamente un’erosione senza precedenti.

[3] Così sul tema del processo penale OLIVIERO MAZZA, “Tradimenti di un codice. La Procedura penale a trent’anni dall’entrata in vigore della grande riforma”, G. Giappichelli, 2020, p.36 s.

[4] Si è qui consapevolmente utilizzata in maniera “forzata” la definizione – coniata da Franz Von Liszt – del codice penale come Magna charta del reo. Il celebre giurista tedesco si riferiva al diritto penale sostanziale, ma il nucleo della riflessione non muta. La strutturazione del processo non può che orientarsi verso la stessa finalità, prevedendo un meccanismo razionalmente orientato all’accertamento ed in grado di garantire i diritti fondamentali dell’imputato e fungendo, dunque, da Magna Charta del reo.

[5] FILIPPO SGUBBI, Il diritto penale totale, Il Mulino, 2019, p.2 3.

[6] Si veda in tal senso GAETANO INSOLERA, Crisi e caduta del diritto penale liberale, ETS Edizioni, 2019.

[7] FILIPPO SGUBBI, Il diritto penale totale, Il Mulino, 2019, p. 32