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POLICE BRUTALITY E INCARCERAZIONE DI MASSA NEGLI STATI UNITI D’AMERICA – INTERVISTA A PIETRO INSOLERA

POLICE BRUTALITY E INCARCERAZIONE DI MASSA NEGLI STATI UNITI D’AMERICA – INTERVISTA A PIETRO INSOLERA

INTERVISTA EXTREMA RATIO A PIETRO INSOLERA – Police brutality e incarcerazione di massa negli Stati Uniti d’America.PDF 

Intervista all’Avv. Pietro Insolera*

a cura di Francesco d’Errico (presidente associazione Extrema Ratio)

Il fenomeno della police brutality, l’estensione eccessiva della qualified immunity dei pubblici ufficiali per le azioni commesse nell’esercizio delle funzioni nell’interpretazione della Suprema Corte, l’approccio discriminatorio degli agenti nei confronti della comunità afroamericana e quella dei latinos. Questi alcuni dei temi affrontati, insieme al tema della mass incarceration e delle condizioni degli istituti penitenziari, oltreché delle possibili opzioni di riforma, anche in relazione alle posizioni politiche del momento, della giustizia penale americana. Un’intervista per comprendere, dal punto di vista giuridico, le ragioni della brutalità poliziesca e delle proteste di questi giorni a seguito dell’omicidio di George Floyd avvenuto a Minneapolis, città più conosciuta e popolosa dello stato del Minnesota.

 Partiamo dalle basi. Negli Stati Uniti esiste il fenomeno della police brutality? Se sì, in cosa consiste? Ci sono studi e ricerche a riguardo?

Come è possibile realizzare sentendo, anche distrattamente, le notizie di questi giorni, e per vero con grande frequenza negli ultimi anni, la brutalità poliziesca negli Stati Uniti, specialmente nei confronti delle minoranze etniche, in particolare di quella afroamericana, è un fenomeno diffuso e difficile da debellare, con radici storiche, politiche, culturali e sociali profonde. Per introdurre il tema, facciamo però un passo indietro. Si tratta, credo, di una manifestazione emblematica della contraddizione e del conflitto scritti nell’identità, nel codice genetico, della Repubblica statunitense. Essa è stata edificata sulla base dei principi liberali, illuministici, giusnaturalistici di eguaglianza, diritto di autodeterminazione dei popoli, separazione dei poteri, compendiati nella Dichiarazione di Indipendenza, nella Costituzione e nel Bill of Rights, ma anche sulla supremazia della razza bianca, sul genocidio dei nativi americani e sullo schiavismo, elementi essenziali alla stessa nascita della Repubblica. Non sono bastate infatti una sanguinosa guerra civile (1861-65), la successiva epoca della Ricostruzione con la ratifica e l’entrata in vigore degli Emendamenti alla Costituzione federale XIII (abolizione della schiavitù) XIV (tra gli altri, estensione della cittadinanza e principio di eguaglianza)  e XV (divieto di deprivare i cittadini del diritto di voto per “racecolor, or previous condition of servitude”), e la correlata legislazione ordinaria attuativa, l’era Jim Crow e i linciaggi sistematici dei neri, il superamento della segregazione razziale de iure (la celebre sentenza Brown v. Board of Education of Topeka del 1954) e le importanti conquiste della stagione per i diritti civili negli anni cinquanta e sessanta del XX secolo, per rimarginare del tutto la cicatrice dello status di inferiorità degli afroamericani. Non è bastato neanche entrare nella presunta epoca della cd. colorblindness, con il doppio mandato presidenziale del primo presidente afroamericano. E’ una cicatrice che si riapre e sanguina ciclicamente. Gli afroamericani sono divenuti cittadini, ma pur sempre cittadini non eguali, cittadini di seconda classe. Non diversamente dalle resistenze opposte, specialmente negli Stati del sud dell’ex Confederazione, alla desegregazione ed alla integrazione, al pieno esercizio dei diritti civili e politici tanto faticosamente conquistati dai neri, può affermarsi che la brutalità poliziesca e l’uso eccessivo della forza da parte dei rappresentanti delle autorità statali, siano parimenti espressione dello stesso retaggio culturale e sociale retrogrado, che intende impedire alla minoranza afroamericana di ottenere l’eguaglianza sostanziale, con tutti i mezzi disponibili, finanche la violenza. Siamo in presenza, ritengo, di una forma di opposizione e resistenza violenta al cambiamento, al progresso, alla civilizzazione. Uccisioni o pestaggi feroci di civili non armati da parte delle forze dell’ordine, sono dunque fenomeni tristemente ricorrenti nella storia contemporanea nordamericana.

-Può farci qualche esempio? Indicarci qualcuno di questi episodi?

Si pensi alla repressione brutale del movimento per i diritti civili in Alabama negli anni sessanta, o al pestaggio di Rodney King che, in seguito alla assoluzione degli agenti di polizia, innescò violentissime rivolte che misero a ferro e fuoco Los Angeles e altre città nel 1992, con oltre sessanta morti, fino alle uccisioni, tra gli altri, di Travyon Martin nel 2012 e Michael Brown nel 2014, che hanno provocato proteste e fatto nascere il movimento sociale di protesta Black Lives Matter, “le vite dei neri contano”. Arriviamo dunque alle rivolte odierne provocate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Rispetto al passato, la gravità della situazione è esacerbata dalla Presidenza di un soggetto, Donald Trump, che ha costruito la propria fortuna su politiche populiste, una retorica intrisa di nativismo e razzismo e istigazione esplicita alla violenza ed alla divisione etnica e sociale. Si può forse dire che l’assoluta inadeguatezza di Trump e la particolare contingenza storica, ossia il dilagare delle proteste per la giustizia razziale nel contesto di una crisi pandemica senza precedenti che ha causato oltre 100.000 morti e provocato una crisi economica di portata enorme – che ha colpito prevalentemente le fasce deboli della società americana – costituiscano i tratti di discontinuità della situazione di oggi rispetto a quelle simili verificatesi in passato. Senza dimenticare tutte le enormi conseguenze che la situazione statunitense può generare sullo scacchiere internazionale, oggi quanto mai incerto.

-Il fenomeno dunque esiste, è storicamente presente nel paese e si incardina in un contesto molto chiaro, che ci ha appena delineato. Ma per tornare un attimo al punto di partenza, cosa si intende tecnicamente per police brutality?

 

Per definire il fenomeno della Police Brutality, può dirsi che si tratta di un uso eccessivo e irragionevole della forza nelle situazioni critiche di contatto tra poliziotti e cittadini, nelle quali i primi attuano una reazione violenta sproporzionata, talora letale, in circostanze concrete che non la rendono strettamente necessaria e proporzionata, e dunque legittima, in quanto i cittadini non pongono una immediata minaccia all’incolumità o alla vita del poliziotto. Un fattore da tenere in considerazione è, peraltro, l’enorme diffusione di armi da fuoco negli USA e come essa può influire sulle dinamiche dell’interazione e degli incontri tra polizia e cittadini, rendendo oltremodo complesse le valutazioni che gli agenti devono fare in pochi secondi (si ricordi, ad esempio, il noto e tragico caso di Tamir Rice, ragazzino afroamericano freddato a Cleveland nel 2014 mentre giocava con una pistola giocattolo in un parco). In talune occasioni, come ad esempio nella cd. rough ride costata la vita a Freddy Gray a Baltimora nel 2014 o, pare, nel caso di Floyd a Minneapolis, siamo in presenza invece di vere e proprie punizioni secondo un “codice punitivo” proprio della subcultura deviata di alcune forze di polizia. In linea di massima, le ricerche mostrano che ogni anno oltre mille persone muoiono per mano delle forze dell’ordine negli USA. Le minoranze, e in particolare quella afroamericana, sono evidentemente sovra-rappresentate tra di esse.

 

-Da parte delle forze dell’ordine, dunque, c’è un atteggiamento diverso, maggiormente aggressivo, nei confronti degli afroamericani e dei latinos?

 

Alla base di tutte le scelte di law enforcement, è noto, ci sono precise scelte politiche. Così nella fase del controllo del territorio da parte della polizia. Questo potere negli USA spetta esclusivamente alle autorità locali, con significative differenze non solo da Stato a Stato, ma anche da contea a contea. Il governo federale può ovviamente finanziare e influire pesantemente sulle strategie di polizia sul campo, come ad esempio avvenuto negli anni ottanta e novanta, nell’ambito della guerra alla droga e alle gang, che ha visto una militarizzazione poderosa della polizia, che ha devastato intere comunità e prodotto la drammatica situazione odierna. La discrezionalità è amplissima e il pregiudizio razziale, conscio o inconscio, come accertato da numerose ricerche, può insinuarsi in tutti gli ingranaggi e a tutti i livelli del policing. Si pensi al racial profiling ed ai cd. pretextual stops (fermi di polizia per violazioni minori, spesso stradali, attuati sistematicamente e massicciamente nei quartieri più poveri e nei confronti delle minoranze, v. la sentenza Whren vUnited States, 517 U.S. 806 (1996) che lo considera pienamente lecito), o alle indiscriminate strategie di perquisizioni cd. stop and frisk nella guerra alla droga, realizzate con molta maggiore intensità e frequenza nelle comunità afroamericane, sebbene i dati statistici ci dicano inequivocabilmente che il narcotraffico ed il consumo di stupefacenti sia addirittura più diffuso tra i bianchi. Una aggressività ed una arbitrarietà percepita nel law enforcement che contribuisce ad esasperare e logorare il rapporto di fiducia (trust) e cooperazione che dovrebbe unire comunità e forze dell’ordine per una più efficace tutela della sicurezza collettiva. Gli afroamericani si sentono, ed in larga parte sono, oppressi, e ciò alimenta la sfiducia nello Stato, già forte, peraltro, nel dna americano. La mancanza di accountability per i delitti commessi dalla polizia eccedendo i limiti dell’uso legittimo della forza non può che esacerbare l’ostilità verso le forze dell’ordine e il conflitto sociale.

 

– C’è molta differenza tra stato e stato o è un fenomeno che affligge il paese dalla West alla East Coast e da Nord a Sud?

 

E’ un fenomeno che caratterizza soprattutto i centri urbani ed i quartieri più poveri e popolosi, dove sorgono i cd. projects e i complessi di cd. public housing. Ci sono ragioni storiche: dopo i grandi flussi migratori degli afroamericani della prima metà del XX secolo dal sud alle città industriali del nord, successivamente al periodo socialmente molto turbolento degli anni sessanta, vi è stato un abbandono delle aree urbane da parte dei bianchi più ricchi verso i suburbs, fuori dai centri urbani. Oltre all’instabilità sociale ed ai problemi di ordine pubblico, ha giocato un ruolo importante il già consolidato stereotipo del cd. Black is dangerous: la rappresentazione dell’afroamericano come diverso, aggressivo e pericoloso predatore, specialmente delle donne bianche (v. in proposito la sentenza della Corte suprema Buck vDavis, 580 U.S. ___ (2017). Negli Stati del sud, dove il suprematismo bianco è per tradizione culturalmente e politicamente più forte e radicato e il culto “nostalgico” della Confederazione non soltanto è praticato impunemente nelle sedi istituzionali (si vedano le bandiere e le statue dei generai sudisti), ma è motivo di orgoglio, la cultura violenta nei commissariati di polizia è ancora più forte (un esempio cinematografico, tra gli innumerevoli, può essere tratto dal recente, bel film Green Book). Vale la pena ricordare che la straordinaria stagione progressista della judicial revolution della Corte Warren (1953-1969) che estese l’applicabilità delle garanzie processuali penali del Bill of Rights agli Stati (ad es., tra i vari, i celeberrimi avvisi di garanzia all’indagato, cd. Miranda warnings, il diritto al gratuito patrocinio, l’exclusionary rule) era proprio dettata dall’esigenza di scongiurare questo tipo di abusi, mantenendo l’azione delle forze di polizia nei limiti della legalità costituzionale ed omogeneizzando gli standard di tutela costituzionale su scala nazionale. Purtroppo, a partire dagli anni settanta, con la elezione di Nixon (1968), la svolta in senso populista, repressivo, retributivo e vittimocetrico delle politiche penali americane e la progressiva affermazione di una giurisprudenza più conservatrice e meno attenta alla tutela dei diritti dell’indagato/imputato – consolidatasi negli anni ottanta, nel corso della presidenza Reagan – ha svuotato di contenuto gran parte di quelle conquiste, non mantenendo la promessa dell’equal protection of the laws.

-Esiste anche un problema di impunità o comunque di copertura istituzionale? I giudici americani sono troppo indulgenti nei confronti degli autori di questi abusi? Se sì, perché? Ci sono motivazioni di natura giuridica?

 

Questo è il vero punctum crucis della questione.

La percezione diffusa è che all’abuso ripetuto e sistematico dei diritti delle minoranze, proprio da parte di chi detiene il monopolio pubblico della forza e dovrebbe esserne il primo garante, non segua una giusta conseguenza in termini di accertamento della responsabilità e punizione, che non ci sia accountability e gran parte dei soprusi restino impuniti. E’ innegabile che la giurisprudenza abbia delle responsabilità importanti nel condonare le violazioni e gli abusi della polizia. Tre gli aspetti nodali, peraltro interconnessi, che qui posso accennare soltanto. Per quanto concerne la responsabilità penale, il sistema del filtro popolare del Grand Jury sulla solidità della base probatoria per potere incriminare e per sostenere l’accusa in giudizio, di solito si appiattisce sulle scelte del prosecutor. Anche se il Grand Jury nella maggior parte dei casi avalla le scelte del prosecutor e autorizza l’incriminazione ed il processo, vi sono evidenze consistenti che nei casi relativi a omicidi o violenze commesse dalla polizia su civili la tendenza è opposta, come attestato da casi recenti e controversi (vedi, ad esempio, l’archiviazione degli agenti accusati di avere ucciso gratuitamente Michael Brown, Tamir Rice, Eric Gardner), che hanno suscitato veementi proteste. Operano diversi fattori, ad esempio il forte legame istituzionale tra prosecutor  – che, ricordiamo, è organo di natura politico-elettiva negli USA ed esercita l’azione penale discrezionalmente –  e polizia, che può incentivare il rappresentante della pubblica accusa a non presentare le prove, sostenere il caso e istruire la giuria con la dovuta determinazione, per evitare che si vada a processo. Da ricordare anche che il vaglio del Grand Jury si svolge di norma in segreto, con il solo prosecutor che presenta le prove e istruisce la giuria. Manca dunque un’adeguata trasparenza, che consentirebbe di scrutinare e comprendere meglio le scelte processuali e l’operato del prosecutor. Si è anche osservato che talora il prosecutor, in casi ad alta visibilità mediatica e caratterizzati da forte pressione – come quelli di police brutality – utilizza strumentalmente il Grand Jury come cd. Political cover, per farle assumere cioè la responsabilità di decisioni impopolari che potrebbero costare molto caro in termini di consenso elettorale, come quella di archiviare un caso di brutalità poliziesca macchiata da motivi razzisti. Sul versante civile, va sottolineata la quasi totale sterilizzazione delle azioni risarcitorie federali per violazione dei diritti civili fondamentali, ad opera di una giurisprudenza che interpreta in maniera assai estensiva l’immunità dei pubblici ufficiali per le azioni commesse nell’esercizio delle funzioni, cd. qualified immunity. Questa dottrina, seppur animata da esigenze originariamente condivisibili, ossia esonerare i pubblici officiali da gravosi e costosi procedimenti per atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, in situazioni convulse, nelle quali spesso si rischia la vita e che richiedono valutazioni particolarmente complesse da effettuarsi in tempi rapidissimi, è stata estesa al punto da costituire una garanzia di impunità. Infine, su un piano più generale, va segnalata una giurisprudenza costituzionale molto timida e rinunciataria rispetto alle violazioni del principio di eguaglianza da parte di prosecutors e forze di polizia, nelle azioni compiute nell’esercizio dei loro poteri discrezionali. Semplificando al massimo, per accertare una violazione del principio di eguaglianza la Corte suprema, e di conseguenza le corti inferiori, impongono all’indagato/imputato di soddisfare un onere assai pesante: dimostrare l’intento discriminatorio (discriminatory intent o purpose) nel singolo caso da parte dell’istituzione che si accusa di avere violato il principio di eguaglianza. Non è sufficiente dimostrare il cd. discriminatory effect. In tal modo, prassi sistematiche di applicazione razzialmente discriminatoria, nelle varie fasi ed ai vari livelli dell’amministrazione della giustizia penale (policing, charging, sentencing), seppur provate, restano tendenzialmente incensurate. La giurisprudenza costituzionale offre numerosi esempi di questo censurabile indirizzo, tanto in materia di scelte di incriminazione dettate da motivi discriminatori come la razza (v. United States v. Armstrong, 517 U.S. 456 (1996)), quanto in materia di commisurazione della pena (nel capital sentencing, v. il notorio caso McCleskey vKemp, 481 U.S. 279 (1987).

 

 

-Quali potrebbero essere le soluzioni per porre fine a questo fenomeno? Oltre all’evidente necessità di un cambio di passo culturale e sociale, dal punto di vista giuridico quali interventi potrebbero essere necessari?

 

Anzitutto, occorre invertire il trend in materia di qualified immunity, come peraltro viene caldeggiato da vari giudici della Corte suprema federale, conferendo maggiore effettività alle azioni risarcitorie civili dinanzi alle corti federali. Inoltre, servirebbe riformare il sistema del Grand jury, garantendo maggiore trasparenza e meno dipendenza dal prosecutor. Infine, è necessario promuovere best practices e maggiore controllo sulle azioni della polizia (anche attraverso la tecnologia: ad es. telecamere obbligatorie, già introdotte in vari Stati); introdurre nuovi criteri per la valutazione dell’efficienza dell’operato e la qualità dei risultati dell’attività della polizia, non basati soltanto sulle statistiche relative ad arresti e condanne. Un altro versante cruciale è quello dei procedimenti disciplinari interni agli uffici di polizia, poco trasparenti e controllabili. Ad esempio, l’agente Chauvin, il presunto assassino di George Floyd, era stato oggetto di numerose segnalazioni e procedimenti disciplinari, eppure era ancora al suo posto a prestare servizio. Anche l’addestramento e le pratiche messe in atto dalle forze di polizia debbono essere oggetto di rinnovato scrutinio critico. Ad esempio, i cd. Chokeholds, le prese per il collo per immobilizzare i soggetti che resistono all’arresto, dopo numerosi infortuni e morti per soffocamento nel passato, sono state messe al bando da gran parte delle forze dell’ordine. Ma in Minnesota la pratica di immobilizzazione e sottomissione con il ginocchio realizzata da Chauvin è ancora consentita in caso di “resistenza attiva” all’arresto (guardando il video dell’uccisione di Floyd, non sembra essere davvero il caso). Occorre, da ultimo, implementare politiche che ricostruiscano o rafforzino la fiducia tra cittadini, specialmente membri delle minoranze, e forze dell’ordine. Spunti in tal senso in un bel saggio del 2017 di Obama comparso sull’Harvard Law Review, nel quale si fa riferimento al programma governativo 21st Century Policing.

 

-Cambiamo argomento. Negli Stati Uniti d’America è in corso, ormai da anni, una vera e propria incarcerazione di massa che coinvolge quasi tre milioni di persone. Ci fornisce un po’ di dati a riguardo? E soprattutto: come si è arrivati a questo? Quali i motivi che hanno prodotto una situazione del genere?

 

Tra prisons federali e statali e jails locali circa 2.300.000,00 persone sono private della libertà personale, per condanna definitiva o in cd. pre-trial detention (1.306.000,00 detenuti a livello statale; 612.000,00 a livello locale; 220.000,00 a livello federale). Inoltre: 41.000,00 minori; 61.000,00 detenuti nei centri di detenzione per immigrati irregolari; 22.000,00 in cd. involuntary commitment (ad es. non imputabili, socialmente pericolosi, sex offenders). Si tratta di dati precedenti all’emergenza Covid-19, che dunque potrebbero essere in eccesso, alla luce dei provvedimenti di scarcerazione emessi durante l’emergenza pandemica. Gli U.S.A. hanno circa il 5% della popolazione mondiale (329.000.000,00 di abitanti ca.), ma il 22% totale della popolazione incarcerata a livello globale. Circa 655 abitanti ogni 100.000,00 sono privati della libertà personale (tasso di incarcerazione elevatissimo se raffrontato a quello di comparabili democrazie occidentali, in Italia ad es. 98, in Germania 51, in Francia 105, in UK 140).

Per quanto concerne le cause alla base della mass incarceration, sono state formulate numerose e diversificate ipotesi. Qui accenniamo a due in particolare: le politiche sanzionatorie (cd. sentencing policies) ed il ruolo del prosecutor. Per quanto concerne le politiche sanzionatorie, alla fine degli anni ‘70, dopo il «social unrest» e il forte incremento della criminalità dalla seconda metà degli anni ‘60, vi è stato un «mutamento epocale nella filosofia penale». Si è passati dalla preminenza della ideologia rieducativa (indeterminate sentencing system, orientato all’individualizzazione) al cd. determinate sentencing system, basato su istanze neo-retributive, di proporzione, certezza e uniformità di trattamento (cd. Just desert). Nello stesso periodo, sono diventate la norma politiche penali populiste (law and order/tough on crime), invocandosi continuamente lo slogan della certezza della pena detentiva (cd. truth in sentencing), in risposta al percepito arbitrio/incertezza causato dall’Indeterminate sentencing e l’impunità asseritamente causata dalla cd. Judicial revolution della Corte Warren (1953-69) in materia processuale penale. In sostanza, la politica accusava i giudici di essere soft on crime, e questo ha prodotto un forte cd. backlash. Altro passaggio fondamentale è la cd. Guerra alla droga: dichiarata originariamente dal presidente Nixon nei primi anni ‘70, è stata espansa in maniera imponente da Reagan, Bush, Clinton, negli anni ’80 (cd. crack epidemic) e ‘90. Ha visto l’innalzamento delle sanzioni edittali, l’abuso del mandatory minimum sentencing (minimi di pena obbligatori) e l’eliminazione della discrezionalità giudiziale, una forte differenziazione tra sanzioni comminate per condotte aventi ad oggetto cocaina e crack (1:100 proporzione), con effetto di enorme discriminazione razziale a detrimento dei neri. Nello stesso periodo, si è assistito ad un aumento esponenziale del peso politico dei cd. Victims rights groups. Ad esempio: leggi di iniziativa popolare dopo delitti particolarmente efferati (strumenti di democrazia diretta); ammissibilità probatoria nel sentencing dei cd. Victim impact statement (cfr. sentenza Payne v. Tennessee 1991). Ciò ha contribuito a dar forma ad un diritto penale dell’emozione, della reazione viscerale, a soluzioni irrazionali e vendicative. La seconda causa principale dell’incarcerazione di massa può identificarsi nel potere eccessivo, sovente tale da sfociare in arbitrio, attribuito all’organo che rappresenta la pubblica accusa, il prosecutor, che, ricordiamo, gode di assoluta discrezionalità. Negli ultimi quaranta anni ci sono stati progressivi mutamenti di struttura istituzionale che hanno concentrato nel prosecutor il monopolio dello ius puniendi, incontrollato da parte di altre istituzioni, e prono all’abuso. L’overcriminalization e l’irrigidimento delle pene hanno conferito al prosecutor il potere di scegliere discrezionalmente tra una molteplicità di reati, per sfruttare la “leva negoziale” delle pene draconiane nel cd. plea bargaining (i patteggiamenti). Sono scomparsi i processi dibattimentali (trials solo il 5% in totale) e le correlate garanzie costituzionali. Il potere giudiziario non ha posto freno né alle coercizioni nel plea bargaining, né all’eccessività delle pene, né all’esercizio discriminatorio delle scelte di incriminazione. Come ha efficacemente sintetizzato una studiosa autorevole, Rachel Barkow: “La nuova normalità nell’amministrazione del diritto penale è un regime dominato dai prosecutors, con quasi nessun controllo da parte di giudici e giurie. Il Congresso ed i legislatori statali ora emanano normative per una realtà nella quale il plea bargaining è il modello di base … con pene massime elevate e pene minime fisse per dare ai prosecutors la leva negoziale per indurre patteggiamenti … un ciclo senza fine nel quale i legislatori continuano ad avere incentivi ad approvare normative eccessive e i prosecutors hanno incentivi per richiederle. E nessun altro attore istituzionale è attualmente disponibile ad interrompere questa dinamica”.

 

-La discriminazione nei confronti nelle minoranze si riproduce anche nella selezione della popolazione carceraria? 

Certamente, l’incarcerazione di massa è caratterizzata da un forte impatto discriminatorio, sia sotto il profilo razziale, sia sotto il profilo socio-economico. Nel 2014, 2.300.000,00 afroamericani erano sottoposti a forme di controllo penale (incarcerazione, probation, parole) circa il 34% dei 6.800.000,00 totali, nonostante la minoranza afroamericana costituisca soltanto circa il 13% della popolazione totale statunitense, 40.000.000,00. Gli afroamericani, inoltre, sono incarcerati in percentuale cinque volte tanto quanto sono incarcerati i bianchi. Anche altre minoranze (gli ispanici, ad esempio, hanno un tasso doppio rispetto ai bianchi). Un ulteriore tratto distintivo del sistema è la criminalizzazione della povertà: un gran numero di soggetti viene detenuta perché non è in grado di pagare la cauzione (bail), o perché non è in grado di pagare sanzioni pecuniarie o spese giudiziarie (fines and fees). Vi è un acclarato abuso delle cd. in rem civil forfeitures (confische formalmente non penali), anche nei confronti di terzi innocenti.

 

 

-Al di là dei grandi numeri, quali sono le condizioni delle carceri americane? 

 

Le disposizioni di diritto penitenziario (prison law) e il concreto operato delle amministrazioni penitenziarie non assicurano di norma un livello adeguato di protezione dei diritti fondamentali dei detenuti. Le condizioni di vita detentiva, già particolarmente critiche e censurate dalla Corte suprema federale (molto nota, ad esempio, la pronuncia Brown v Plata del 2011, che ordinò la liberazione di circa 46.000 detenuti in California per il sovraffollamento e l’assenza di adeguate cure mediche), sono state rese ancora più difficili dall’emergenza pandemica da Covid 19, che ha mietuto numerose vittime, tanto tra i detenuti, quanto tra gli operatori del circuito carcerario. Sono stati emessi provvedimenti di liberazione anticipata, soprattutto di persone ristrette con pregresse patologie o anziane (cd. compassionate release), sia negli Stati che a livello federale. I numeri complessivi parlano comunque di numerose migliaia di contagiati e centinaia di morti. Al di là della gravissima situazione dettata dalla crisi sanitaria, l’esecuzione della pena detentiva negli USA si caratterizza per i suoi tratti di accentuata asprezza, tale da degenerare spesso in disumanità. Si pensi ad esempio al notorio abuso del cd. solitary confinement, il regime di isolamento, che soprattutto (ma non soltanto) nelle carceri di massima sicurezza federali non viene applicato unicamente se ritenuto necessario per perseguire circoscritti scopi legittimi punitivi, disciplinari, di sicurezza o di protezione, secondo il principio di proporzionalità, ma quale forma base di regime di esecuzione della pena. Una pratica barbara e disumana, che produce danni irreversibili alla salute mentale dei detenuti, è in contrasto con i diritti umani fondamentali, ed è stata infatti a più riprese stigmatizzata da istituzioni internazionali, nonché da diversi giudici della Corte suprema (Kennedy nella decisione Davis v Ayala, ma anche Breyer e Sotomayor). Le norme penitenziarie e prassi delle amministrazioni penitenziarie, in generale, riflettono l’abbandono dell’ideale rieducativo e la preminenza della logica della neutralizzazione. Anche rispetto alle violazioni dei diritti dei detenuti, osserviamo infine, la legislazione ordinaria federale (Prison Reform Litigation Act) e gli standard elaborati dalla giurisprudenza federale, sono piuttosto restrittivi e orientati a concedere ampia deferenza alle scelte delle amministrazioni penitenziarie. E’ molto raro che vengano riconosciute violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti e accordati i conseguenti rimedi.

 

-Quali sono le posizioni di democratici e repubblicani sull’argomento? E’ avvertita dalla politica l’esigenza di una riforma della giustizia?

 

Si è formato, specialmente nel corso degli ultimi cinque anni, un generale consenso bipartisan tra Repubblicani e Democratici sul fallimento totale dell’esperimento dell’incarcerazione di massa, sulla impellente necessità di criminalizzare meno, punire meno severamente, individualizzare maggiormente la pena, diminuire la discriminazione razziale, umanizzare le condizioni detentive, ridurre i tassi di incarcerazione, potenziare i programmi di rieducazione/risocializzazione. Se dovessimo individuare i cd. Criminal justice reformers, gli attori principali (esempi, non esaustivi): associazioni progressiste a tutela delle minoranze (N.A.A.C.P.); a tutela dei diritti civili (A.C.L.U.), le associazioni forensi (ABA; N.A.C.D.L.); le organizzazioni conservative-libertarian, per motivi di ostilità al Big Government e preoccupazioni di spesa (Right on Crime; F.A.M.M.; CATO); i cd. Social conservatives, per motivi umanitari-religiosi (Prison Fellowship). Vi sono poi gruppi di interesse ed istituzioni tendenzialmente ostili a significative riforme penali/sanzionatorie/penitenziarie: Associazioni dei prosecutors (N.A.A.U.S.A.) o di agenti di law enforcement; i Victims’ rights groups; Imprese proprietarie di penitenziari o che erogano servizi connessi; comunità che ruotano interamente attorno al carcere (ad es. comunità rurali). Negli ultimi anni, si è assistito a dincoraggianti tendenze nella criminal justice reform, a livello statale (quello quantitativamente più rilevante). Si pensi ad esempio alla diminuzione/abrogazione del mandatory minimum sentencing per non violent, non serious, non sexual offenses (limiti della riforma, la maggior parte dei detenuti rientra in tale categoria); ovvero alla derubricazione di alcuni reati (ad es. in materia di stupefacenti) da felonies a misdeamenors; alla introduzione di racial impact statements nella legislazione penale e sanzionatoria; alla attenuazione di alcune three strikes laws; alla attenuazione delle cd. collateral consequences (sanzioni accessorie alla condanna penale); alla eliminazione del felony disenfranchisement (circa sei milioni di cittadini con precedenti per felonies non possono votare oggi); al potenziamento dell’operatività di probation e parole e di misure alternative alla detenzione; alla attuazione della Juvenile Justice Reform (ad es.: «Raise the Age» aumento dell’età per processare automaticamente come adulto da 16 o 17 anni a 18 anni; abolizione dell’ergastolo ostativo per minorenni; limitazione della discrezionalità del prosecutor nella scelta se processare il minore come adulto); al divieto di private prisons; alla consapevolezza della necessità di affrontare il problema della droga e delle dipendenze con offerta terapeutica e con corti ad hoc. Anche rispetto al livello di governo federale (quantitativamente meno rilevante), vi sono segnali incoraggianti nella criminal justice reform. A livello federale, prendendo parzialmente ispirazione dai modelli statali e consapevoli dei risultati ottenuti, il Congresso è intervenuto con lo storico provvedimento normativo cd. First Step Act (Formerly Incarcerated Reenter Society Transformed Safely Transitioning Every Person Act), Pub. Law. No. 115-391, frutto di difficile compromesso bipartisan tra repubblicani e democratici, entrato in vigore il 21 dicembre 2018 con la firma di Trump. Si tratta della più ampia e significativa riforma del sistema sanzionatorio e penitenziario federale degli ultimi decenni, che interviene su alcuni dei più rilevanti fattori che hanno contribuito all’incarcerazione di massa, ad esempio: diminuisce alcune cd. pene minime obbligatorie per cd. drug offenses nei confronti di recidivi; introduce una cd. safety valve, che, al ricorrere di determinate condizioni – precedenti non gravi – consente al giudice di discostarsi dalla pena minima obbligatoria modulando discrezionalmente la pena; rende retroattiva una precedente riforma sanzionatoria, cd. fair sentencing act del 2010, che aveva eliminato la discriminatoria disparità di trattamento tra reati aventi ad oggetto cocaina e reati con oggetto cd. crack; amplia i presupposti per accedere ai permessi premio ed alla liberazione anticipata per diverse categorie di detenuti federali; potenzia i cd. reentry programs per contrastare il recidivismo; amplia possibilità di fruire a permessi premio per buona condotta; impone di incarcerare i detenuti ad una minore distanza dalle famiglie (cd. principio di residenza); amplia i presupposti del cd. compassionate release (sulla base del condivisibile principio che “people age out of crime”, per un gran numero di reati, con l’avanzare dell’età il pericolo di recidiva scema). Singolare che la riforma più significativa degli ultimi anni sia entrata in vigore durante la presidenza Trump, soggetto che disprezza i limiti imposti dallo Stato di diritto e ha un approccio alle politiche penali apertamente propagandistico, basato sulla paura del nemico, che è sempre stato pronto a cavalcare l’ondata emotiva per promuovere soluzioni punitive a forti tinte razziste (ad. es. v. la serie sui cd. Central Park Five, When they see us); Ora si sta parlando nelle sedi politiche del cd. Second Step Act: una nuova riforma federale che dovrebbe prevedere un ulteriore potenziamento dei cd. reentry programs (risocializzazione, reintegrazione nel mercato del lavoro, cd. Second chance hiring practice); maggiore utilizzo di provvedimenti di clemenza.

In conclusione, osserviamo che le tendenze di riforma attuali sono comunque di portata e contenuto estremamente limitati: per invertire il trend e superare il fenomeno dell’incarcerazione di massa, riallineando il quadro statunitense a quello delle altre democrazie occidentali, serve intervenire sulle cause strutturali del fenomeno, depenalizzare, applicare sanzioni alternative, ripristinare la piena operatività del parole, riformare radicalmente il policing, come detto sopra.

-C’è qualche aspetto, istituto o elemento penalistico che potremmo prendere come modello dagli States?

 

Invece che parlare di istituti o elementi penalistici in senso stretto, preferisco rispondere alla tua domanda indicando due prospettive o, potremmo dire, linee di indagine, che mi sembrano interessanti per sviluppare una comparazione critica tra modelli di giustizia penale statunitense ed italiano. Anzitutto, il versante della politica criminale. Abbiamo visto come le politiche penali populiste, il prepotente ingresso della vittima quale attore di primo piano nelle dinamiche nomopoietiche, lo slogan abusato della certezza della pena detentiva, siano elementi radicati nel discorso politico penalistico statunitense, fin dalla fine degli anni settanta. Vediamo dunque come la società nordamericana, con tutte le sue contraddizioni, i suoi conflitti irrisolti e i suoi aspetti “violenti”, i suoi eccessi di “majoritarian passion”, sia uno straordinario laboratorio democratico “anticipatore” per comprendere, interpretare (e contrastare) le tendenze e gli indirizzi politico criminali nostrani oggi in atto. Un esempio per tutti (tra i molti possibili): la riforma in senso rigoristico per “tipo d’autore”, improntata alla logica della “selective incapacitation”, della l. n. 251/2005 sulla recidiva, che riprodusse quella delle note leggi three strikes and you are out, entrate in vigore in numerosi Stati e a livello federale a metà degli anni novanta. Ma si pensi anche alla recente novella della difesa legittima. Il secondo aspetto al quale vorrei far riferimento è la preponderanza del profilo politico nella penalità statunitense. Già Tocqueville osservava, in termini generali, che ogni questione politica tende a trasformarsi, presto o tardi, in questione giuridica ed in controversia giudiziaria negli Stati Uniti. Questo carattere intrinseco della società e della democrazia statunitense consente di meglio comprendere le scelte assiologiche e politiche di fondo che contraddistinguono il sistema. Nello studio della giurisprudenza costituzionale, per quel che qui rileva in materia penale, la trasparenza è aumentata in ragione dei voti separati (opinioni concorrenti e dissenzienti) che possono essere espressi dai giudici nordamericani. Così, gli operatori, gli osservatori e gli studiosi – ma anche la società civile – sono messi nella condizione di capire meglio i bilanciamenti tra valori e i diversi punti di vista che producono le scelte normative e interpretativo/giudiziali, potendo poi contribuire maggiormente al dialogo ed al confronto critico in prospettiva di riforma, di quanto non sia possibile in un sistema, come quello italiano, che privilegia la parvenza di unità del diritto positivo, il principio di collegialità e la segretezza della camera di consiglio. Uno degli insegnamenti principali che si possono trarre dal costituzionalismo americano è che il dissenso e l’opinione di minoranza di oggi spesso giocano un ruolo decisivo nel constitutional dialogue e diventano decisione della maggioranza di domani: dal dissenso solitario del giudice Harlan I alla sentenza Plessy v. Ferguson che dichiarò la legittimità della segregazione razziale (cd. separate but equal), poi rivendicato nella celebre sentenza Brown v. Board of Education che la capovolse; ai dissensi dei giudici Brandeis e Holmes in materia di libertà d’espressione e diritti di privacy all’inizio del secolo, poi fatti propri da maggioranze successive della Corte suprema, gli esempi sono molteplici. Non dimentichiamo poi i “perpetual dissents” dei giudici Brennan e Marshall negli anni settanta e ottanta del XX secolo in strenua opposizione alla pena capitale, che ancora attendono di essere portati a compiuta realizzazione in sede politica e giudiziaria. Per tornare alla brutalità poliziesca razzista, va sottolineata l’importanza delle proteste civili di oggi e delle opinioni di minoranza di giudici – penso in particolare a Justice Sonia Sotomayor – che hanno stigmatizzato con forza gli abusi sistematici delle forze di polizia nei confronti delle minoranze etniche e gli effetti deleteri che possono avere dottrine giudiziarie troppo inclini ad esonerare dalle proprie responsabilità i pubblici ufficiali, incentivando una cultura violenta e dell’impunità, dello “shoot first, think later”. Come ha affermato in un recente dissenso nel caso Utah v. Strieff, relativo a strategie di policing abusive e discriminatorie: “La decisione di maggioranza afferma che il tuo corpo è soggetto ad invasione, mentre le corti scusano la violazione dei tuoi diritti. Essa implica che tu non sei il cittadino di una democrazia, ma il suddito di uno stato carcerario, che sta soltanto aspettando di essere catalogato. Non dobbiamo fare finta che le innumerevoli persone che sono regolarmente prese di mira dalla polizia siano ‘isolate’. Loro sono i canarini nella miniera di carbone le cui morti, in senso civile e letterale, ci segnalano che nessuno può respirare in quest’aria. Loro sono quelli che riconoscono che i fermi illegittimi della polizia corrodono le libertà civili e minacciano le vite di tutti noi. Fin tanto che anche le loro voci non saranno ascoltate, il nostro sistema di giustizia continuerà ad essere tutto tranne che giusto”. Occorre dunque ripartire da queste idee, ed impegnarsi attivamente affinché possano trovare piena attuazione in sede di riforma politico-legislativa e mutamento delle dottrine giudiziarie, per rafforzare l’accountability della polizia.

Per concludere: gli Stati Uniti, invece, cosa potrebbero prendere a modello dall’Italia o se vogliamo in generale dall’Europa?

Credo che gli Stati Uniti, allineandosi al resto delle democrazie liberali occidentali ed alle istituzioni sovranazionali poste a tutela dei diritti fondamentali (Consiglio d’Europa in primis), dovrebbero ripudiare il modello penale sanzionatorio dominante da ormai 40 anni, orientato in larga parte al perseguimento di scopi retributivi e di neutralizzazione selettiva. Vi sono alcuni segnali incoraggianti nel senso di una maggiore attenzione alle cd. humanitarian sentencing policies (rispetto della dignità umana, proporzionalità della pena al disvalore oggettivo e soggettivo del reato, finalismo rieducativo) diffusi nel resto dell’occidente democratico: penso alle riforme legislative federali e statali sopra accennate, ovvero agli indirizzi giurisprudenziali che hanno fortemente limitato l’applicabilità della pena capitale, escludendo i disabili mentali, i minorenni, i reati diversi dall’omicidio volontario aggravato, e l’ergastolo ostativo nei confronti dei minorenni, censurato quale pena eccessiva e crudele ed inusuale, se comminato per reati diversi dall’omicidio, o anche in quest’ultima ipotesi, se previsto in base ad un automatismo legislativo. Certo, agli occhi di un osservatore europeo, potrà sembrare poca cosa. Peraltro, la crescente politicizzazione conservatrice nei procedimenti di nomina e ratifica delle magistrature federali, che ha consentito a Trump di nominare due giudici supremi e numerosissimi giudici distrettuali e di appello, induce ragionevolmente ad escludere che nel futuro prossimo saranno emesse pronunce e si svilupperanno orientamenti tali da determinare un effettivo riavvicinamento del penal exceptionalism statunitense alle più miti e umane pratiche punitive oggi consolidate nel resto dell’occidente democratico. Tuttavia, le straordinarie risorse del pluralismo democratico e liberale, che già in passato hanno visto l’affermazione, in tempi più o meno dilatati, delle posizioni liberal-garantiste in passato minoritarie, ci impongono di continuare a nutrire fiducia rispetto ad una possibile evoluzione e cambiamento verso una giustizia penale più umana, ragionevole e civile. Credo che, da cittadini italiani ed europei, in un momento drammatico come quello attuale, in cui nei fragili equilibri politici internazionali sembrano delinearsi due blocchi in forte contrapposizione, nutriamo un vivo interesse che quello a noi più vicino, storicamente, culturalmente e politicamente, l’unico tra i due modelli, peraltro, astrattamente compatibile con i principi dello Stato democratico di diritto – pur con tutte le sue imperfezioni – continui a rivestire un ruolo di leadership globale. Per fare in modo che questo avvenga, oltre a radicali mutamenti della politica statunitense interna ed internazionale (appuntamento decisivo, quello del prossimo novembre!), un primo passo obbligato per gli USA, necessario per cominciare a ricostruire la propria legittimazione, deve essere il superamento del proprio passato violento e razzista, anche attraverso la profonda riforma di un sistema di giustizia penale che quotidianamente, a tutti i livelli, oggi continua invece a perpetuarlo.

 

*Avv. Pietro Insolera, avvocato penalista nel foro di Bologna, Ph.D. in Studi Giuridici Comparati ed Europei in Diritto penale presso Università di Trento. In tale ambito è stato ospite, in qualità di Visiting Research Fellow, presso la Fordham University School of Law di New York. È componente dell’Osservatorio Corte Costituzionale dell’Unione Camere Penali Italiane.