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PROCESSO PENALE ONLINE, OPINIONI A CONFRONTO: MANES-TERZI

PROCESSO PENALE ONLINE, OPINIONI A CONFRONTO: MANES-TERZI

Opinioni a confronto Manes_Terzi Intervista-confronto Extrema Ratio.pdf

PROCESSO PENALE ONLINE: OPINIONI A CONFRONTO:

Avv. Prof. Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna

Dott. Massimo Terzi, Presidente del Tribunale di Torino

Il processo penale online, il ruolo dell’intelligenza artificiale nella giustizia, l’emergenza sovraffollamento nelle carceri, la Corte costituzionale più che mai guardiana delle garanzie individuali. Un’intervista-confronto su quattro temi attuali e decisivi per la giustizia penale tra l’Avv. Prof. Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna e il Dott. Massimo Terzi, Presidente del Tribunale di Torino.

Intervista a cura di:

Francesco d’Errico e Mario Arbotti

Associazione Extrema Ratio – Bologna – 1 maggio 2020

D: Il COVID-19, tra le altre cose, ha dato vita al processo telematico. Quali sono i rischi e i pericoli del processo smaterializzato? È compatibile, a suo parere, con i principi indicati dall’art. 111 della Costituzione?

Avv. Prof. Vittorio Manes: Il tema è indubbiamente complesso, ed ogni semplificazione rischia di banalizzarlo: peraltro potrebbe, per alcuni suoi aspetti, aver perso parte della sua incandescente attualità, visto che con un secondo decreto legge (d.l. 30 aprile 2020, n. 28) si è parzialmente derogato a questo nuovo regime “generalizzato”, stabilendo che “Fermo quanto previsto dal comma 12, le disposizioni di cui al presente comma non si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti”.

Ma se è vero che si è inattuali oggi per essere attuali domani, una riflessione generale sulle trasformazioni – vertiginose – che il processo da remoto evoca, sembra comunque opportuna.

In effetti, il processo telematico è un grande contenitore, e può comprendere anche innovazioni non solo indolori per le garanzie fondamentali, ma indubbiamente positive: se ci si riferisce, ad esempio, ad una modalità informatica di trasmissione di atti e memorie, o persino di accesso da remoto al fascicolo processuale (come gli avvocati sognano da tempo), o magari ad un colloquio con il pubblico ministero, queste innovazioni sono sicuramente da accogliere con favore, perché semplificherebbero molto le attività e contribuirebbero – nel frangente attuale – a ridurre occasioni di prossimità fisica, e dunque di diffusione del contagio. Se invece si evoca la possibilità di svolgere le udienze da remoto, le criticità mi sembrano evidenti, pur con i necessari distinguo: anche in questo caso, l’impatto può essere certamente differente se si parla di una udienza nella sede del giudizio di Cassazione (ed anche qui, a seconda delle diverse tipologie, che del resto già differenziano tra udienze partecipate o meno), o viceversa nei gradi di merito, e in questi ultimi, se le attività da remoto arrivino a ricomprendere fasi nevralgiche come l’istruttoria dibattimentale.

In linea generale, e trascurando il problema di metodo – concernente la fonte della nuova disciplina e la conformità ai principi costituzionali non solo di un provvedimento d’urgenza  “blindato” con il voto di fiducia, ma anche delle ulteriori fonti secondarie evocate, con spazi di notevole discrezionalità, su una materia dominata dal principio di legalità -, le perplessità crescono proporzionalmente con l’adesione che si presta ai principi di oralità ed immediatezza, che contrassegnano il contraddittorio sulla prova – e il diritto di difendersi provando – su cui è edificato il modello accusatorio.

Si tratta di principi sino troppo sminuiti da recenti interpretazioni, testimoniate da una discussa sentenza della Corte costituzionale sulla rinnovazione istruttoria in caso di mutamento nel collegio, che ha evidentemente sacrificato l’immediatezza garantita da immutabilità (sentenza n. 132 del 2019); ma la loro importanza è stata anche di recente evidenziata in altre decisioni, tra le quali una importante sentenza del Consiglio di Stato che – proprio a margine della disciplina introdotta nella fase emergenziale in atto – ha ritenuto il “contraddittorio cartolare coatto” in radicale contrasto con i principi costituzionali, e tra questi l’art. 111 e l’art. 24 Cost., con riguardo al processo amministrativo, ma con argomentazioni valevoli a fortiori – come gli stessi giudici hanno evidenziato – per il processo penale, centrato su un modello di “contraddittorio forte”, “ovvero sia nella formazione della prova, sia come diritto dell’accusato di confrontarsi “de visu” con l’accusatore” (Cons. Stato, sez. VI, ord. 16 aprile 2020 – dep. 21 aprile 2020).[1]

Nel caso del processo da remoto, in effetti, la negazione di tali principi – pur formalmente garantiti – sarebbe sostanziale, e colpirebbe le ragioni epistemologiche che li fondano. Il contraddittorio sulla prova, in effetti, non può essere virtuale se non al prezzo di svilirlo: perché – solo per fare un esempio – è nell’incarnato dell’istruttoria e dell’escussione vivida dei testi, nello sguardo, talvolta in una smorfia o nell’inflessione della voce, che può cogliersi la veridicità e autenticità della prova testimoniale, non nella sagoma digitale liofilizzata dai pixel o nella voce metallizzata dalla connessione telematica.

Da più parti si è evidenziato che ne uscirebbe mortificato il ruolo dell’avvocato, ed è senza dubbio così, anche solo per la banale ragione che non si ascolta con la stessa attenzione la voce di chi parla guardando negli occhi o la voce di un ologramma che tremola sul desktop; ma il rischio è che – sull’altare dell’emergenza sanitaria, oggi, e magari dell’efficientismo processuale, domani – anche e soprattutto l’imputato sia spersonalizzato e disumanizzato, ridotto ad una dimensione “cosale”, e subisca, assieme alla sua vicenda processuale, una sorta di “reificazione telematica”, lesiva della stessa dignità della persona sottoposta al procedimento penale (un valore che qualcuno ha declinato persino come “diritto ad un’udienza fisica”, in base al principio di presenza, come ricorda M. R. Guglielmi, Quel rito al quale non possiamo facilmente rinunciare, in Diritto di difesa, 2020, richiamando le riflessioni di E. Jeuland, Justice numérique, justice inique? In Les Cahiers de la Justice, n. 2/2020, pp. 194 ss.).

Anche me pare in effetti che, a monte, ne uscirebbe trasfigurato, desimbolizzato e disumanizzato il processo in quanto tale, perché la tecnica – come si sa – modifica il contesto di impiego e persino chi ne fa uso, e il mezzo tecnico – indipendentemente dallo “scopo” – ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o attori di un evento.[2]

Quello telematico sarebbe, anzitutto, un processo “o-sceno”, in senso etimologico: “fuori dalla scena”, e fuori dalla simbologia che la caratterizza, ossia fuori da quel perimetro formale che – anche topograficamente – è lo spazio della giustizia penale, dove si esercita un rito che ha una sua “estetica”, come scrive Ennio Amodio:[3] uno spazio separato, recintato, ancora affidato a formule sacrali (si pensi al giuramento del testimone) e fatto di simboli che lo contrassegnano e al tempo stesso lo proteggono, come la toga, che non è un accessorio esornativo o un gadget perché emblematizza la comune appartenenza e partecipazione – pur nella diversità dei ruoli – al “rituale giudiziario” (A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Milano, 2007), ossia a quella “liturgia laica” che si propone il compito terribile di accertare la verità e distribuire colpe e pene.

Questo spazio formale, che per Omero era il “sacro cerchio” (come ha ricordato Emanuele Fragasso), dove si dispiega una vicenda individuale e al contempo collettiva, è stato già saccheggiato ed espropriato – come si sa – dal “processo mediatico”, perché la mediatizzazione della giustizia penale ne sfigura ampiamente forma e sostanza, travolgendo tutta una serie di garanzie poste a presidio anche del giudicante (e della sua “virgin mind”).

Questo, come sappiamo, ha già disarticolato quello spazio protetto e chiuso che è il processo, consegnandolo – e consegnando la stessa decisione del giudice – al baccanale delle opinioni, trivializzandolo e desimbolizzandolo.

Da diversa prospettiva, la rincorsa efficientistica e gli obiettivi di produttività imposti alla giurisdizione hanno già alimentato, nostro malgrado, una dimensione funzionalistica del processo, e una tendenza a trasformare vicende individuali in fascicoli da smaltire.

Ora, la sensazione è che la “remotizzazione” delle attività processuali, attuata per il medium dei software che consentirebbero lo svolgimento a distanza delle attività di udienza, possa approfondire ulteriormente questa de-simbolizzazione e questa de-realizzazione, ed altererebbe in modo definitivo il processo, consegnandolo alla mediazione “macchinale” e informatica: ciò determinerebbe non solo la frantumazione del dialogo in tanti monologhi, ma  trasformerebbe parallelamente – questo il timore maggiore – l’“agire” che tiene sempre in vista lo scopo e i valori in gioco, in un semplice “fare” che si limita alla buona esecuzione delle procedure, secondo un “mansionario” ed un itinerario mediato, solipsistico e quindi spersonalizzato.

“Essere digitali” – come insegnano i filosofi – incide sul nostro modo di fare esperienza del mondo; ed anche sul nostro modo di fare esperienza della verità processuale.

Il processo, si usa dire, è teathrum veritatis, cioè sede dove si celebra una ri-costruzione e rappresentazione della realtà attraverso l’interazione simultanea e circolare tra le parti, costruita su un metodo dialettico che è anzitutto con-divisione, secondo forme (e formule) e simboli dietro alle quali c’è però la sostanza del particolarissimo thema decidendum che è la responsabilità penale, con tutto il carico umano e l’immane concretezza che la contraddistingue; una volta catalizzato per via telematica – dove è più facile sentire senza ascoltare e guardare senza vedere – esso verrebbe svilito a monologo collettivo, desocializzato, e – temo – vedrebbe aumentare la sua dimensione di asettica procedura, declinata in termini di pura funzionalità, come un incombente da sbrigare secondo un iter meccanizzato, impersonale, anche “a domicilio”, con pari degradazione dell’individualità e livellamento della razionalità.

Tornando a profili più tecnici ed immediatamente “tangibili”, c’è anche il problema, fondamentale, della pubblicità dell’udienza, che assicura il controllo democratico sull’amministrazione della giustizia: in quale forma sarebbe garantita la partecipazione pubblica? Con una trasmissione in streaming? Come sarebbe rispettato il diritto al processo secondo le cadenze dell’art. 6 § 1 CEDU, che almeno in linea di principio si pone – in relazione a tutte le controversie concernenti diritti e doveri, di carattere anche solo civile – “against the administration of justice in secret”? La pubblicità può essere derogata se l’udienza a porte chiuse è “strettamente imposta dalle circostanze della causa” (ad es. Corte EDU, 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia; Corte EDU, 26 luglio 2011, Paleari c. Italia), ma difficilmente questa deroga rigorosa – vincolata a circostanze interne (la natura delle questioni da trattare e le circostanze della causa) e non contingenze esterne (pur rilevanti, come l’emergenza sanitaria in atto) – può essere generalizzata. Parallelamente, la disciplina attuale del dibattimento prevede come regola una pubblicità doverosa (stabilita “ a pena di nullità”, ai sensi dell’art. 471 c.p.p.; salvo eccezioni, ex art. 472 c.p.p.) ma limitata inter presentes, e riprese audiovisive solo su base consensuale (“se le parti consentono”: art. 147 disp. att., salvo se “sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento”, e comunque con dovere di escludere la ripresa delle immagini di parti, testimoni, periti, consulenti tecnici e ogni altro soggetto che deve essere presente, se i medesimi non vi consentono o la legge ne fa divieto”: art. 147, terzo comma, c.p.p.); questa scansione non potrebbe essere assicurata dalla trasmissione in streaming del processo da remoto, e la scelta sembrerebbe ridursi ad una alternativa secca, divisa tra assoluta segretezza o, all’opposto, divulgazione illimitata, con un processo-spettacolo, diffuso worldwide, che rischia di traumatizzare sino ad annichilirle il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU). Da una angolatura non distante, c’è anche il problema della privacy e della segretezza dei dati, come segnalato dal Garante: ma il fatto che il dibattito si sia concentrato su questo profilo, pur molto rilevante, non deve far perdere di vista il problema principale, che è di essenza dell’accertamento, ancor prima che di tutela delle informazioni che lo accompagnano: altrimenti si rischia di aggirare il problema principale, un po’ come quando l’illegittimità della pena di morte fu indirettamente affermata perché l’iniezione letale costituiva un trattamento inumano o degradante… In ogni caso, la gravità di questo ultimo aspetto, concernente la segretezza della procedura, è evidente, visto che si parla anche di possibilità di svolgere atti di indagine (come l’interrogatorio della persona sottoposta ad indagini o l’assunzione di informazioni della persona offesa, etc.) o persino camere di consiglio in via telematica: chi e come può assicurare la impenetrabilità della piattaforma utilizzata? Condivido, conclusivamente, l’appello, sempre più diffuso, a smaterializzare le carte, non le persone.

Dott. Massimo Terzi: Credo che l’emergenza non stia altro che facendo esplodere i problemi di fondo della Giustizia, sulla quale si interviene da decenni sempre come se si fosse in stato di emergenza e pertanto senza avere un progetto complessivo coerente. Non potevamo pertanto illuderci che in un momento di emergenza vera ci potesse essere la capacità di normare in modo consono.

La vera domanda, che ci aiuta anche nel dare la risposta alla domanda attuale, è come mai sulla Giustizia si interviene sempre in modo emergenziale, anche quando non ci sono situazioni di vera emergenza come è quella odierna? Questa è la domanda da porre sullo sfondo ogniqualvolta si affronta qualunque questione nel nostro settore. Vero è che se non si parte da una condivisione – sia da parte della comunità in generale, sia da parte della comunità scientifica – dei fondamentali della Giustizia, è ineluttabile  non avere la capacità di ridisegnarne il complessivo funzionamento e pertanto si  norma, non solo in modo parziale e non risolutivo, ma anche in modo contraddittorio; perché in mancanza di condivisione delle due l’una: o chi è più “forte” nel momento impone il suo punto di vista, ovvero si arriva a un compromesso. Entrambe le strade sono perniciose: la prima lo è “in re ipsa”, in quanto istintivo frutto della forzatura ideologica del detentore del potere normativo del momento che – ovviamente  e per fortuna – è mutevole; la seconda, che è la strada maestra, normale e corretta nella politica, non si addice al tema della giustizia laddove, come in Italia, non si è mai trovato un sincero ”accordo” sui fondamentali culturali. Il punto è che la mutevolezza del detentore del potere normativo, in una società ancora oggi molto contrapposta ideologicamente, impedisce percorsi lineari; e ancor di più sul settore giustizia che è storicamente uno dei maggiori temi di scontro. Di qui la cd. politicizzazione che diventa un dato di realtà ineliminabile nel momento in cui non vi è una condivisione dei principi; e ciò si riverbera anche sugli atteggiamenti contrastanti nell’esercizio della Giustizia.

Da tale premessa, a mio avviso indispensabile, discende la risposta a questa domanda e anche alle successive domande.

Come ci è stato insegnato, anche a livello costituzionale esiste un problema di condivisione nel senso che c’è una Costituzione formale e una Costituzione materiale la quale è, in qualche modo, il metro, la misura del grado di condivisione ai principi costituzionali. La sensibilità sia in sede normativa sia in sede applicativa ai principi è quello che fa la differenza in concreto. Se la società non è realmente compatta nell’adesione, il grado di sensibilità è oscillante, mutevole, estemporaneo.

E veniamo al “telematico” e all’art. 111 della Costituzione.

Processo telematico è definizione assai generica che trae origine dalla esperienza civilistica che viene sintetizzata nell’ acronimo “PCT”, processo civile telematico. Da tempo si evoca, in modo assai semplicistico, che la soluzione delle problematiche del settore penale sia il “PPT”, ossia il processo penale telematico.

Ma occorre cercare di chiarire.

Il processo civile telematico è la regolamentazione del modo di trasmissione e comunicazione degli atti del processo civile per il tramite dei mezzi informatici e la sua realizzazione comporta uno straordinario risparmio di risorse collettive e un assai rilevante miglioramento di efficienza in sé.

Ovviamente, anche sul penale, che ha comunque un ritardo di dieci anni, una trasmissione tout court degli atti del processo penale potrebbe portare buoni miglioramenti del sistema. Ma il grado di incidenza nella risoluzione del problema endemico di lentezza è comunque assai meno rilevante rispetto al civile. Ciò dipende da quel che è ad oggi il processo civile e da quel che è, e sempre sarà, il processo penale.

Il processo civile ad oggi è sempre più cartolare e fondato su prove documentali e molto poco su prove orali che comunque sono legate a capitoli di domande preconfenzionate per iscritto. Una volta le prove orali erano molto più utilizzate perché la società era diversa. Ora è rimasta di fatto per limitate materie, ma permane sempre lo schema di domande già conosciute dalle parti. La differenza tra il processo civile e quello penale è – e lo diverrà sempre di più – così profonda che da anni sostengo come, in una ottica di efficientamento di sistema, dovrebbe essere rivista la geografia giudiziaria scindendo completamente gli uffici giudiziari di primo grado tra settore civile e settore penale. Il processo civile ha una prospettiva evidente, per chi riesca a vedere il futuro, di tendenziale smaterializzazione e delocalizzazione in quanto sempre più legato ad una dialettica tra tecnici di cui il giudice è tenuto a fare una sintesi.

Il processo penale è tutt’altro; e questo tutt’altro è esattamente il fulcro della tematica della domanda. Il processo penale “è tutt’altro” nella sua parte essenziale delle indagini e del dibattimento di primo grado. La raccolta delle spesso determinanti fonti di prova orali prima in indagine e soprattutto la formazione delle prove orali poi in dibattimento ne è l’essenza.

Ed ecco subentrare il tema del telematico laddove lo inquadriamo correttamente come celebrazione delle udienze da remoto. L’udienza da remoto al di là del momento di discussione finale degli avvocati o dell’audizione dei tecnici (come ad esempio un consulente) non, è come si vuol far credere, solo un modo moderno di celebrazione della udienza penale, ma un mutamento ontologico che la trasforma e quindi trasforma tutto il processo penale in tutt’altro. Non mi meraviglio che abbia anche i suoi sostenitori perché la divisione tra sostenitori della celebrazione fisica e sostenitori della celebrazione “virtuale” – è la trasposizione di una diversa e non conciliabile visione del processo.

Io credo che la stella polare processuale dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio” non sia solo un fatto tecnico, ma anche un fatto che debba coinvolgere la profondità della convinzione individuale del Giudice persona. Le prove certo, ma anche la mia certezza personale e ogni situazione che a me Giudice, tendenzialmente spettatore dell’agone processuale, mi sottragga elementi di percezione, consci e non, lo vedo come limitazione alla mia ricerca di certezza anche morale perché poi sono io a dover decidere e sono io che alzo ed abbasso il pollice; non i commentatori tecnici, non i commentatori, spesso da osteria, mas-mediali e in quel momento neppure i Giudici di secondo grado e di legittimità  che in quel momento sono  mera entità astratta che sarà riempita forse e  chissà quando e chissà  da  quali persone. E poi non ci sono solo io Giudice: c’è soprattutto un imputato e il suo indissolubile difensore, ci può essere una persona offesa tutti attori che vogliono non solo girare le scene del “loro” film ma vogliono vederlo, capirlo, sentirlo, odorarlo perché è in primo luogo il “loro” film.  Cosa differenzia nel profondo la mia netta opinione da quella dei possibilisti? Credo che sia il grado di valorizzazione della unicità di ciascun processo. Se vedi il tutto come un insieme numerico di massa di processi puoi cadere nella tentazione, se percepisci che il processo è singolo su una persona non puoi cadere nella tentazione. I problemi sistemici del complessivo funzionamento richiederebbero un’inesistente visione aziendalistica che molto gioverebbe al funzionamento, e quindi a tutti, ma la visione aziendalistica nulla può avere a che fare per i processi che arrivino al “clou” dibattimentale con potature che depotenzino la percepibilità.

Il problema è trovare meccanismi condivisi e non impositivi affinché il sistema abbia il tempo necessario per celebrare i processi che arrivano a dibattimento. Ma comunque a tutti quelli arrivano deve essere garantito tutto e tra questo tutto c’è in primo luogo la fisicità di tutti. In tal senso talune fughe in avanti emergenziali non le ritengo conciliabili con l’art.111 della Costituzione, ma non me ne meraviglio affatto in quanto perfettamente coerenti alla confusione sistemica delle contrapposizioni ideologiche.

Per concludere, farei un esempio icastico: la udienza da remoto nel processo penale sarebbe come ritornare al matrimonio per corrispondenza con le famiglie dei nubendi e i nubendi che decidono la loro vita guardando una foto, anzi modernizziamoci, vedendo un filmino super 8. Se pensiamo che sia un progresso. E non a caso ho evocato un esempio matrimoniale perché anche nel settore civile vi sono limitate situazioni per le quali l’udienza da remoto è inaccettabile, dal mio punto di vista, e quella delle udienze presidenziali nelle separazioni giudiziali ne è l’emblema. Anche lì vi è un momento di delicatezza in cui tutti gli attori non possono esimersi dalla fisicità e le parti hanno diritto alla fisicità proprio per la intrinseca natura della udienza.

A dimostrazione che il nuovo, come sempre, deve essere applicato laddove è un nuovo utile non a prescindere; il nuovo dannoso, nel processo come in tutta la storia dell’umanità, anche se è nuovo, mantiene la sua carica virale di contagio.

E per lo più nell’essenza centrale del processo penale non ho dubbi che sia altamente dannoso.

D: Restiamo sul tema tecnologia. Ragionevole durata, efficienza, certezza del diritto; tutte caratteristiche di cui il processo penale, ad oggi, sembra privo. Alcuni sostengono che la soluzione potrebbe essere il coinvolgimento dell’intelligenza artificiale. Lei che ne pensa? Fascino futuristico o distopia giudiziaria?

 

VM: Anche in questo caso torniamo al bivio tra tecnologia e tecnocrazia. L’intelligenza artificiale evoca sfide significative, e vertiginose, per il diritto, i diritti e l’etica, come recita il titolo di un recente, ponderoso volume collettaneo, curato da Ugo Ruffolo, di prossima uscita.[4]

 Dall’angolatura prospettica della giustizia penale, promette scenari da Eldorado, ed impone anche in questi casi di distinguere, perché di algoritmi predittivi si parla in sede di policing, di profiling, di sentencing, in prospettiva ante e post delictum: come possibili strumenti per allocare le risorse di prevenzione e police patrolling; come strumenti impiegabili in sede investigativa e di polizia, al fine di individuare l’autore di un reato in una determinata coorte di persone asseritamente “sospette”; ancora, come strumenti per condurre le valutazioni di pericolosità (specie nell’esperienza americana della liberazione condizionale/parole), con prestazioni fruibili dunque in sede cautelare ma anche nel contesto delle misure di prevenzione; in sede di cognizione, come strumenti di verifica della autenticità di un testimonianza, o come criteri per la commisurazione della pena più adeguata; ed anche, più in generale, per la calcolabilità del diritto (non solo penale), etc..

Sono tutti casi che meriterebbero una considerazione differenziata e risposte singole: ma l’orizzonte di senso è chiaro, ed evoca uno scenario dove il progresso tecnologico assicura la massima implementazione del crime control, sino al potenziale esaurimento dei compiti del diritto penale per raggiungimento dei suoi scopi, o, forse, sino alla dissoluzione dei compiti del diritto penale in pura attività di prevenzione e di polizia.

In ogni caso, mi sentirei di non cedere troppo frettolosamente alle lusinghe della tecnologia, che al cospetto di taluni contesti dove il “fattore umano” è centrale – come nella giustizia penale – rischiano di degenerare appunto in tecnocrazia, specie in un orizzonte non più solo distopico o futuribile come quello descritto in cult movies tipo “Minority report” o in romanzi di fantascienza à la Charpentier (Justice machines, trad.it. a cura di G. Vitiello, Macerata, 2015).

Algoritmi e oracoli informatici possono essere un ausilio, ma il loro utilizzo presenta molti bias e spesso notevoli profili di frizione con diritti fondamentali e garanzie, e gli obiettivi di massimizzazione del crime control devono essere misurati – come sempre – al prezzo imposto al due process.

Ad esempio, studi dottrinali americani, prima e dopo il celebre caso Loomis (dove i giudici avevano tenuto conto dei risultati elaborati da un particolare programma attuariale di risk assessment, il programma COMPAS, per valutare il defendant’s recidivism risk), hanno ad esempio evidenziato la vocazione strutturale degli algoritmi alla diseguaglianza. Ma gli algoritmi predittivi contrastano con molti altri caratteri strutturali e garanzie fondamentali del diritto e del processo penale, perché si sostituiscono alla legge (con evidente sacrificio del principio di legalità), perché rischiano di mettere in primo piano non il “fatto” commesso ma l’autore, anzi le “tipologie di autore” declinate secondo le standardizzazioni profilate dalle statistiche e dunque, se impiegati per la prova della colpevolezza, stridono con principi come la personalità della responsabilità penale e la presunzione di innocenza; ancora, la loro scarsa o nulla trasparenza, e la non controllabilità dell’algoritmo, pregiudica il diritto di difesa, che implica il diritto di verificare in contraddittorio l’attendibilità del sapere tecnico e l’affidabilità del metodo scientifico utilizzato, etc..

La mia impressione, in definitiva, è che siano e debbano restare “utensili” che devono essere utilizzati con sorvegliata cautela, e che solo con le dovute precauzioni e limitazioni possano “servire” e coadiuvare la valutazione giudiziale, ma mai a sostituirla: perché nessuna stringa artificiale potrà surrogare le qualità umane che servono a “giudicare”, quali l’immaginazione e la capacità di dare vita a processi creativi, la capacità di suscitare e percepire emozioni, l’apertura alla curiosità e al dubbio, ovvero la propensione ad una ricerca di senso caratterizzata da finitezza e fallibilità. In definitiva, all’utopia legaltech della giustizia “esatta” – affidata appunto oggi ad algoritmi e domani, magari, a justice machines – mi sembra preferibile continuare la ricerca verso la giustizia “giusta”, che è quella instradata sui binari della Costituzione.

 

MT: Anche su questo fronte, molto complesso, bisogna evitare di fare confusione. L’intelligenza artificiale e la tecnologia in generale quale mezzo per ricercare il possibile autore di un reato ha avuto e avrà ovviamente sviluppi sempre più incidenti creando certamente anche problemi rilevantissimi rispetto ai diritti delle persone in una società democratica; dovrà essere utilizzata con equilibrio, ma sicuramente potrà avere grande utilità.

Se parliamo invece di processo penale e di utilizzo di algoritmi predittivi la mia opinione è che non debbano neanche presi in considerazione.

Il problema nella sua complessità matematica è assolutamente semplice da un punto vista etico e giuridico. Gli algoritmi comunque non consentono un controllo pubblico essendo materia di addetti ai lavori; e la Giustizia è amministrata in nome del popolo e il Giudice è , o dovrebbe essere, il rappresentante dello Stato che decide in nome del popolo. Ma soprattutto: l’ingresso dell’algoritmo implica l’ingresso del calcolo della probabilità e il calcolo della probabilità è la trasformazione del processo penale da processo sul singolo in processo collettivo. Voglio dire che se pure fosse dimostrato che un algoritmo su 100 decisioni mi consente di assumere quella giusta in 99 casi, mentre in quei 100 casi il processo senza algoritmo porta a 40 errori, il problema rimarrebbe la decisione giusta nel centesimo caso.

Il processo non è un mezzo per la sicurezza pubblica, ma l’accertamento della responsabilità per un fatto storico reato addebitato a una persona che si presume innocente anche a prova di algoritmo e che deve essere messa in grado di difendersi rispetto a elementi percepibili e da lui contestabili. Come potrei contrastare un calcolatore che immessi tutti i parametri non solo oggettivi, ma anche i miei dati personali soggettivi concludesse che quasi certamente sono colpevole? E poi quel quasi, perché sarebbe un quasi certo, è compatibile con la formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”?

Rifuggiamo quindi da certe scorciatoie, anche – sotto forma indiretta – quale mero ausilio perché un Giudice in buona fede, in primo luogo con se stesso, non può dare alcuna garanzia che l’ago della bilancia della sua decisione non sia stato proprio la consultazione dell’algoritmo. E riflettiamo anche da un punto di vista del profondo simbolico culturale sull’idea di una società in cui uno dei perni del grado di civiltà, quale la giustizia penale, possa raggiungere questi ulteriori livelli di disumanizzazione.

A me sa molto di ritorno, sotto mentite spoglie di modernizzazione, di ritorno all’inquisizione e al rogo delle streghe.

Penso che – per quanto sotto molti aspetti sia difficile, per ciascuno di noi, comprenderlo – la immissione nella società di sistemi che stronchino il diritto di difesa di ciascuno di noi rispetto ad una accusa sia devastante: e questo anche rispetto al colpevole.

Se dovessimo varcare questo guado il problema potrebbe essere facilmente risolto “a monte” a prescindere dagli algoritmi e a prescindere da un processo. La tecnologia sarebbe certamente in grado già oggi e certamente ancor di più nel futuro di seguire in diretta la nostra vita, senza alcuna possibilità di difesa, registrarla e chiedere con un click chi fosse in quella situazione reato in quel momento. A quel punto sarebbe sufficiente immettere i dati del codice penale e dei parametri per la pena, mandare il dispositivo alle forze di polizia e farlo eseguire; ma forse arrivati a questo sarebbe più coerente stabilire che alla lettura virtuale del dispositivo predittivo ci arrivino direttamente un numero di scosse elettriche proporzionale alla nostra colpa così accertata. Sarebbe cioè più coerente su tale presupposto  tornare ai colpi di frusta e risolvere così anche il problema del carcere. Non scherziamo.

 

 

D: Il sovraffollamento è divenuto ormai una caratteristica strutturale del nostro sistema penitenziario e le nostre carceri vivono in una quotidiana situazione di emergenza, in costante violazione dei diritti dei detenuti. Il Corona Virus, dunque, è l’emergenza nell’emergenza, la goccia che ha fatto traboccare un vaso già stracolmo. Concorda con questa ricostruzione? Come giudica le misure adottate dal Governo per fronteggiare questa situazione e, soprattutto, quali potrebbero essere gli interventi idonei a garantire davvero salute e dignità dei reclusi?

 

VM: L’emergenza ha gettato un improvviso lampo di luce su un problema, drammatico e strutturale, che si trascina da anni, nell’indifferenza più assoluta specie della politica.

Ci si accorge del carcere solo quando si è sul punto di vedere esplodere, per l’emergenza sanitaria, una polveriera: non dunque per afflato umano, ma per ragioni di sicurezza pubblica. La situazione della carceri italiane, prima che l’attualità la facesse deflagrare, era già insostenibile, a più riprese denunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (come nei casi Sulejmanovic o nella più nota sentenza pilota Torreggiani), e nonostante i correttivi apportati è ancora talmente paradossale che presto le Sezioni Unite della Cassazione saranno chiamate a decidere se nei 3 mq di “spazio minimo disponibile” da garantire ad ogni detenuto debba essere computato (o escluso) lo spazio occupato nella cella dal letto (singolo o “a castello”) e dal mobilio, giocandosi ormai la partita del rispetto dell’art. 3 CEDU sul filo dei centimetri.

Nonostante ciò, legislatore ha continuato e continua ad attingere senza freni alla “risorsa scarsa” della pena privativa della libertà, quasi intesa come strumento di “vendetta sociale”: e le singole scelte normative in termini di “criminalizzazione primaria”, ispirate a questa “passione contemporanea” che è il punire (come scrive il sociologo francese D. Fassin), si sono sistematicamente tradotte in “criminalizzazione secondaria”, ossia in tassi di carcerizzazione effettiva, alimentando una situazione di overcrowding ormai ingestibile.

Se volessimo utilizzare una metafora, è come se in presenza di una evidente carenza di presidi trattamentali – le carceri sovraffollate – non solo si trascura di adottare urgenti misure di riduzione della popolazione contaminata, ma si alimentano occasioni di contagio, introducendo sempre nuove norme penali.

Tornando all’attualità, e alla domanda, l’ampliamento dei presupposti di accesso alle misure alternative è certamente da salutare con favore, ma l’impressione è che possa avere gli effetti di un farmaco sintomatico. E un provvedimento generale, di indulto o amnistia, benché sembri ampiamente inviso ad una opinione pubblica spesso fuorviata da pregiudizi e disinformazione, sembra l’unico strumento in grado di rendere gestibile la situazione: ma anche questo avrebbe il fiato corto se non accompagnato da misure strutturali che agiscano nella fase dell’input, e non solo dell’output.

 

MT: Anche questo tema è figlio diretto delle contraddizioni e contrapposizioni storiche e la emergenza sanitaria lo mette in luce in modo dirompente. Per risolvere un problema strutturale si dovrebbe costruire un piano che indichi in primo luogo il numero di popolazione carceraria che si stima dover gestire e determinare le condizioni logistiche che si devono garantire. Conseguenzialmente fare gli investimenti necessari ed eseguire.

Io non credo che sia solo una problematica di insufficienza di risorse economiche. Io credo che anche questo problema sia bloccato dalla difficoltà a perseguire una visione complessiva di politica giudiziaria e sconti anche le conseguenze di inefficienza del processo penale. Sotto questo secondo aspetto è evidente che la lentezza del sistema incentiva ad aumentare la popolazione carceraria media detenuta in via cautelare come mezzo emergenziale e quindi , in modo patologico in funzione della  difesa della sicurezza pubblica; problematica ontologicamente  contaminante la giurisdizione e la esecuzione della pena. In ordine alla politica giudiziaria il tema centrale dovrebbe essere, in un ottica costituzionalmente orientata, oltre a un rilevante e generalizzato miglioramento di vivibilità delle strutture,  quello di verificare la recidivanza atteso che in uno Stato democratico lo scopo primario dovrebbe essere non solo quello punitivo ma anche quello, sia a livello di diritto del condannato, sia nell’interesse general preventivo, di verificare quali siano le metodiche più funzionali nella espiazione della pena per il recupero del condannato. Anche tale verifica ovviamente sconta la inefficienza del processo penale atteso che il ritardo della definitività delle successive condanne da una parte inquina il dato statistico, dall’altra contribuisce spesso, per il tramite delle cicliche misure cautelari detentive del recidivante ancor non accertato, ad aumentare il dato medio della popolazione carceraria. Da queste criticità discende la mancanza di un programma di edilizia carceraria che possa por fine alle continue situazioni emergenziali in carcere ora nuovamente riportate alla ribalta dalla situazione epidemiologica; ma di fatto, come ben sanno gli addetti ai lavori, del tutto endemiche.

E’ una sorta di gatto che si morde la coda nella misura in cui, arrivati ai livelli di guardia di ogni accettabilità, in assenza oramai della valvola di sfogo di amnistie, si vanno  a toccare in continuazione i meccanismi di esecuzione della pena al fine di liberare e/o non far entrare i condannati in carcere con interventi che di per sé hanno natura estemporanea, ma che di fatto diventano stabili senza che mai si affronti la problematica di insieme. Spesso una sorta di condoni “mascherati” per evidente timore di impopolarità politica sul quale gli avversari potrebbero speculare.

E ritorniamo a quanto ho detto nella risposta alla prima domanda. La Giustizia è un settore particolare che necessiterebbe sotto ogni aspetto di un’ampia condivisione culturale sui temi centrali, mentre invece è stata ed è uno dei temi più divisivi da tempo, da troppo tempo nella società e quindi nella politica. Se non si avrà la capacità di andare oltre difficilmente potrà avere una risoluzione positiva.

 

 

D: Nell’ultimo periodo si direbbe che la Corte Costituzionale si stia ergendo ad ultimo baluardo nella difesa dei diritti e delle garanzie fondamentali, a fronte di un legislatore sempre meno attento alle  garanzie fondamentali, almeno in ambito penale. Concorda con questa ricostruzione? Quanto è importante il ruolo del Giudice delle Leggi quale organo di chiusura del sistema, quale legislatore negativo secondo l’insegnamento kelseniano?

 

VM: Anche a me sembra che la più recente giurisprudenza costituzionale, in materia penale, stia attraversando una “primavera silenziosa”, una fase di trasformazione e positiva rinascita, nella quale hanno trovato rafforzamento taluni principi, altri ne sono germogliati, e sono stati interpellati anche in casi anche molto delicati, talvolta estendendo il raggio di azione alla luce di una originare e coraggiosa rimeditazione di precedenti interpretazioni. Penso alla fioritura, rigogliosa, del principio di proporzionalità in materia penale, che ha finalmente consentito di decretare l’incostituzionalità delle pene fisse (sentenza n. 222 del 2018, rel. Viganò); penso alla sentenza sui reati ostativi e i permessi premio (sentenza n. 253 del 2019, rel. Zanon); ma penso anche alle pronunce rese nel caso Taricco (ordinanza n. 24 del 2017; sentenza n. 115 del 2018), o a quelle che hanno avuto il coraggio di entrare in un campo “ad alta sensibilità etico-sociale” come il fine-vita, e l’assistenza al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019) e a tante altre.

Sino alla recente, “storica” pronuncia (sentenza n. 32 del 2020), che per la prima volta ha esteso il divieto di retroattività alle modifiche delle norme dell’ordinamento penitenziario che abbiano una concreta incidenza sulla libertà del detenuto, toccando istituti come le misure alternative (affidamento in prova, liberazione condizionale, detenzione domiciliare e semilibertà): una pronuncia tanto più significativa perché intervenuta su una delle “novità-slogan” della legge c.d. Spazzacorrotti (l. n. 3 del 2019), ossia l’estensione del famigerato catalogo dei reati ostativi di cui all’art. 4-bis ord. pen. a taluni reati contro la pubblica amministrazione, come “norma-slogan”, appunto, di un messaggio di “tolleranza zero” per i corrotti, assicurando loro – quasi in chiave di “vendetta sociale” – la “certezza del carcere” (se ne è discusso di recente in una “videopillola” con Luca Bisori, presidente della Camera penale di Firenze).

Peraltro, l’innovatività e la forza di impatto di queste pronunce suscita, talvolta, reazioni contrastanti, e qualcuno lamenta persino un eccesso di judicial activism, avvertito con fastidio specie quando il controllo di costituzionalità penetra in determinati ambiti (basti pensare alle polemiche suscitate dalla citata sentenza sui permessi premio ai “mafiosi”, n. 253 del 2019). Ma la Corte non fa altro che difendere la Costituzione: calandosi pienamente nel proprio tempo, e disponendosi, doverosamente, ad intervenire con un controllo rigoroso “proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore” (per usare le parole della sentenza n. 40 del 2019); dimostrandosi dunque avvertita del fatto che il prodotto legislativo in materia penale rispecchia sempre più un “semilavorato costituzionale”, talvolta con tratti marcatamente illiberali, quasi fosse un “ballon d’essai” lanciato in volo per saggiare la direzione del vento elettorale, mettendone già in preventivo – quale costo politicamente trascurabile – la possibile illegittimità.

Una Corte, insomma, pronta a mostrare i propri “bagliori muscolari” anche al legislatore, che prende atto e si prepara, forse, ad alzare “gli argini e le mura” (come scrive nel suo accattivante libro Enrico Amati[5]) nell’epoca di un populismo punitivo che – a forza di atti di “bullismo legislativo penale” via via tradotti in sanzioni draconiane, pene fisse o incapacitazioni perpetue, regimi di eccezione trasformati in regola, automatismi presuntivi irragionevoli e ostatività di vario genere, processi “senza fine”, etc. – ha visto ormai sostituire alla frammentarietà ed alla extrema ratio un “diritto penale totale” (F. Sgubbi), ossia una politica criminale ormai avulsa da ogni razionalità e sempre più incline a rinnegare i principi fondanti che, a valle di una sedimentazione secolare, hanno segnato il volto costituzionale del diritto penale.

 

MT: Direi che è assolutamente decisivo. Le questioni trattate nelle precedenti domande ne sono una prova evidente. La trasformazione della società, l’avanzamento dirompente e propompente della tecnologia, la forza che tutto ciò può dare ai poteri di ogni tipo sia economici che istituzionali aprono questioni di formidabile importanza in termini di rispetto dei valori fondamentali nelle legislazioni.

La legge è ,o dovrebbe essere, in primo luogo la regola che pone un limite al più forte rispetto al più debole e quando gli strumenti diventano più potenti il limite deve essere ben difeso. E se il legislatore, come può accadere e come sempre più accadrà, non avrà questa capacità diventa sempre più indispensabile il legislatore negativo che alzi il cartellino rosso ed espella il giocatore scorretto. Pena il soffocamento dell’individuo e della persona in nome della ragione di Stato.

Ma spesso lo Stato assume ragioni di Stato dimenticando di esistere per garantire i suoi consociati,  secondo certe regole  e principi che sono state la ragione d’essere della sua nascita in un corretto equilibrio.

[1] Cons. Stato, sez. VI, ord. 16 aprile 2020 – dep. 21 aprile 2020, rilevando, più in generale, che il “contraddittorio cartolare coatto” rappresenterebbe “[…] una deviazione irragionevole rispetto allo “statuto” costituzionale che si esprime nei principi del “giusto processo”; giacché “il comma 2 dell’art. 111 della Costituzione, nello stabilire che il “giusto processo” – qualsiasi processo – debba svolgersi “nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità”, impone, non solo un procedimento nel quale tutti i soggetti potenzialmente incisi dalla funzione giurisdizionale devono essere necessariamente “parti”, ma anche che queste ultime abbiano la possibilità concreta di esporre puntualmente (e, ove lo ritengano, anche oralmente) le loro ragioni, rispondendo e contestando quelle degli altri”.

[2] Basti richiamare le pagine di U. Galimberti, Psiche e tecnhe. L’uomo nell’età della tecnica; Milano, 1999, o Id., I miti del nostro tempo, Milano, 2009, 207 ss., 227: “Parlare con i nostri amici attraverso una chat significa subire una trasformazione nelle modalità di relazione, perché discutere via chat è diverso che incontrarsi vis-à-vis”; “[…] Ancora una volta constatiamo che la tecnica non è più mezzo a disposizione dell’uomo, ma è l’ambiente, all’interno del quale anche l’uomo subisce una modificazione, per cui la tecnica può segnare un punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma “Che cosa la tecnica può fare di noi””.

[3] E. Amodio, Estetica della giustizia penale, Milano, 2016.

[4] AA.VV., Intelligenza Artificiale – Il diritto, i diritti, l’etica, a cura di U. Ruffolo, Giuffré, Milano, 2020, in corso di pubblicazione.

[5] E. Amati, L’enigma penale. L’affermazione politica dei populismi nelle democrazie illiberali, Giappichelli, Torino, 2020, di prossima uscita.