Enter your keyword

L’UOMO NON È IL SUO REATO: UN CAMMINO IN DIVENIRE – DI MARIA BRUCALE

L’UOMO NON È IL SUO REATO: UN CAMMINO IN DIVENIRE – DI MARIA BRUCALE

BRUCALE – L’UOMO NON È IL SUO REATO UN CAMMINO IN DIVENIRE.PDF

di Maria Brucale*

Il tribunale di sorveglianza di Firenze concede, per la prima volta, la liberazione condizionale a un ergastolano ostativo non collaborante. Le norme che limitano l’accesso al beneficio hanno natura penale sostanziale e non possono operare retroattivamente.

Per la prima volta una persona detenuta per reati di mafia ha avuto accesso alla misura della liberazione condizionale sebbene non avesse collaborato con la giustizia.

In data 29 ottobre 2020, il tribunale di sorveglianza di Firenze ha accolto l’istanza formulata dal difensore nell’interesse del suo assistito[1].

L’interessato aveva patito il tempo di carcerazione previsto per accedere al beneficio di cui all’articolo 176 c.p., che prevede, appunto, la liberazione condizionale. L’istituto in discorso, non a caso, è inserito nel codice penale ad indicare che la punizione ha senso e tensione costituzionale soltanto quando è orientata alla restituzione del reo in società. Nel caso di specie, l’istante, detenuto dal 1993, aveva commesso i reati in espiazione, duplice omicidio di mafia premeditato e reati satellite, in data 23 e 24 luglio 1990 nonché il reato ex articolo 416 bis c.p., fino al 24 novembre 1990. Tutti i delitti, dunque, rientravano nella previsione normativa di cui agli articoli 4 bis e 58 ter dell’ordinamento penitenziario.

Le norme richiamate, come è noto, precludono a chiunque abbia commesso delitti di matrice associativa di accedere alle misure alternative al carcere a meno che non collabori utilmente con la giustizia. La disciplina delle preclusioni ostative, tuttavia, ha fatto ingresso nell’ordinamento penitenziario soltanto nel 1991 con dl. n. 152, convertito in legge n. 203 nel 1991, nonché con dl. n. 306 del ’92 convertito in legge n. 356 del ’92 che ha introdotto l’obbligo della collaborazione con la giustizia quale unica opzione di superamento del divieto di accesso a qualsivoglia beneficio premiale. Quando il richiedente aveva commesso i reati per i quali è poi stato condannato, dunque, le norme che oggi impongono le menzionate esclusioni non esistevano ancora.

Il tema di indagine era, pertanto, verificare, prima ancora della sussistenza dei requisiti soggettivi del richiedente, l’ammissibilità della sua istanza condizionata alla possibilità di applicare all’impedimento normativo a godere della liberazione condizionale l’irretroattività di cui all’art. 2 c.p. ed all’art. 25, comma II della Costituzione: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

La questione è stata più volte negli anni oggetto di disamina da parte dei giudici di legittimità e della Consulta che hanno, tuttavia, resistito strenuamente ad una lettura delle norme di ordinamento penitenziario che ne permettesse l’inquadramento nell’alveo delle norme penali di natura sostanziale. La giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto che le misure alternative alla detenzione, nell’ estinguere lo stato di detenuto, danno vita a uno status diverso e specifico rispetto a quello di semplice condannato e, in ragione del loro coefficiente di afflittività, partecipano della natura della pena. Ha, altresì, intravisto profili di rilievo costituzionale in modifiche che incidono sul grado della privazione della libertà personale (sent. n. 188 del 1990 e n. 306 del 1993). Non ha, tuttavia, spinto il proprio ragionamento fino alla conseguenza logica del conferire a norme che negano ai ristretti la possibilità di godere di benefici premiali, la natura di norme sostanziali corredate dal divieto di applicazione retroattiva ove si traducano in conseguenze negative per il reo.

La Corte di Cassazione ha, negli anni, protetto l’indirizzo ermeneutico delle Sezioni Unite penali con sentenza n. 24561 del 2006, secondo cui: “e disposizioni concernenti le misure alternative alla detenzione, in quanto non riguardano l’accertamento del reato e l’ irrogazione della pena, ma attengono esclusivamente alle modalità esecutive della pena irrogata, non hanno carattere di norme penali sostanziali, e quindi, in assenza di specifiche norme transitorie, soggiacciono al principio tempus regit actum e non alla disciplina dell’articolo due codice penale e dell’articolo 25 della costituzione”. Tale orientamento, nella sua rigidità, esprimeva certamente anche la proiezione del sentire comune e una spinta di protezione sociale da fattispecie criminose di estremo allarme e pervasività e tendeva a salvaguardare la vocazione di tutela e di punizione del legislatore dell’emergenza di quegli anni bui che videro il volto di una nazione sfregiato dalle stragi dei giudici Falcone e Borsellino.

Con sentenza n. 273 del 2001, difatti, la Consulta chiamata a giudicare la legittimità della disciplina che precludeva ai condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis O.P. l’accesso alle misure alternative al carcere, aveva respinto la questione mancando di offrire una risposta al quesito ritenendo che le disposizioni censurate, nel pretendere la collaborazione con la giustizia ai fini della fruizione della misura di favore, apparivano in linea con gli elementi costitutivi dell’istituto che richiedevano al condannato una condotta tale da comprovare il suo sicuro ravvedimento. Operava, dunque, una sovrapposizione concettuale tra collaborazione e resipiscenza, tra offerta di aiuto nelle investigazioni e pentimento laico, dissociazione dal crimine e superamento delle logiche del delitto.

Da essa, in sostanza, la Corte Costituzionale deduceva, nel caso concreto, una sorta di inutilità del soffermarsi sulla applicabilità o meno della irretroattività della disciplina contra reum perché, comunque, l’assenza di collaborazione avrebbe determinato l’insussistenza del presupposto del compiuto ravvedimento del ristretto.

Soltanto nel 2019 lo scenario giurisprudenziale cambia e su due fronti entrambi determinanti per le sorti dall’istante.

1.Con la pronuncia della Sezione Prima della Cedu, Viola c. Italia, del 13.06.2019, definitiva l’08.10.2019 e, successivamente con la sentenza della Consulta n. 253 del 22.10.2019 la collaborazione con la giustizia cessa di essere criterio legale di ravvedimento.

La Cedu ha accolto il ricorso di Marcello Viola (ergastolano non collaborante condannato per reati ex art. 4 bis O.P.) ravvisando una violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU poiché una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che “è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno[2]“.

La Corte Europea non esclude la legittimità della pena perpetua ma afferma che viola l’art. 3 CEDU, una sanzione che non ammetta la speranza di restituzione in società al detenuto meritevole (prospect of release o possibility of review)[3].

Prosegue la Corte: “La natura della violazione riscontrata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato dovrebbe introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell’ergastolo che preveda la possibilità di un riesame di pena che consenta: alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione, il detenuto si è evoluto così tanto e ha progredito sul sentiero dell’emendamento che nessuna ragione legittima di ordine penologico giustifichi ancora la sua detenzione, e, alla persona condannata, di godere del diritto di sapere cosa deve fare per essere considerato per il rilascio e quali sono le condizioni. La Corte ritiene, pur ammettendo che lo Stato possa richiedere la dimostrazione di “dissociazione” dall’ambiente della mafia, che questa rottura possa essere espressa diversamente che con la collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente in vigore[4]”.

La Corte costituzionale, chiamata a decidere della legittimità delle preclusioni assolute di cui all’art. 4 bis in rapporto al beneficio dei permessi premio ex art. 30 ter O.P., ha ravvisato la dedotta incostituzionalità pur apportando specifiche e puntuali precisazioni.

Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima, afferma la Corte. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria. Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari. In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante. In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost. In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza”[5].

Tanto dalla Corte Edu, dunque, quanto dalla Consulta pervengono indicazioni chiare rispetto alla necessità che l’individuo detenuto possa dimostrare di avere intrapreso un fattivo percorso di rivisitazione critica del proprio vissuto a prescindere dalla partecipazione attiva all’opera investigativa dello Stato. La collaborazione con la giustizia, in sé indice di dissociazione, non può essere strumento unico ed ineludibile di dimostrazione del ravvedimento e, di conseguenza, di speranza di accedere alle misure alternative al carcere. Ciò renderebbe tale scelta non più libera e, pertanto, non più autentica.

2.Con l’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, c.d. “spazzacorrotti”, che aveva determinato l’inclusione nel catalogo di cui all’art. 4 bis O.P. di alcune fattispecie di reato contro la pubblica amministrazione senza prevedere una normativa transitoria che disciplinasse l’applicazione di essa ai fatti criminosi pregressi, numerose sedi di merito hanno ravvisato l’illegittimità di una estensione retroattiva dei limiti scaturiti dalla nuova inclusione ai quali era da riconoscere natura “sostanzialmente penale” con conseguente soggezione al divieto di irretroattività contra reum di cui agli artt. 25, co. 2 Cost. e 7 Cedu.

Dal disagio della giurisprudenza di merito riguardo alla sostenibilità costituzionale e convenzionale della estensione degli effetti della nuova legge anche ai condannati per fatti commessi prima della sua entrata in vigore, sono scaturite numerose questioni di legittimità costituzionale risolte dalla Corte costituzionale con sentenza n. 32 del 2020, una pronuncia di accoglimento che rimeditava il divieto di retroattività sancito dall’art. 25 Cost. in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena.

Afferma la Corte: “Allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche della modalità esecutiva della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato, […] la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato. Ciò si verifica pragmaticamente allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita fuori dal carcere, la quale, per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma ‘dentro’ il carcere. Tra il ‘fuori’ e il ‘dentro’ la differenza è radicale: qualitativa prima ancora che quantitativa. […] E ciò vale anche laddove la differenza tra ‘fuori’ e ‘dentro’ si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo”.[6]

Riguardo alle misure di cui al Titolo I, Capo VI dell’ordinamento penitenziario, conclude la Corte, le stesse sono da qualificare misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e sulla quantità della pena modificando di fatto il grado di privazione della libertà del condannato ed offrendo allo stesso anche una più accentuata offerta rieducativa che si esplica in forme diverse dalla pena prettamente detentiva.

Ne consegue una pronuncia interpretativa di accoglimento che ha dichiarato illegittima la lettura della legge contestata, n. 3 del 2019, nel senso della sua applicabilità anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore.

Il criterio ermeneutico espresso dalla Corte costituzionale riguardava, all’evidenza, le misure alternative al carcere definendone la capacità di determinare una modifica sostanziale del tipo e della natura di pena espiata. Tuttavia la pronuncia atteneva espressamente soltanto alla c.d. “spazzacorrotti” e, sebbene ammettesse, a ben vedere, una lettura costituzionalmente orientata anche delle diverse fattispecie di cui all’art. 4 bis O.P., la stessa, tuttavia, non era certamente imposta. Ne dà prova il successivo ricorso al Giudice delle leggi da parte di altri remittenti per questioni solo in apparenza diverse perché comunque sospinte dal medesimo criterio ispiratore: l’incostituzionalità di una norma che determina la preclusione all’accesso ai benefici penitenziari per soggetti che hanno commesso i reati prima della sua entrata in vigore.

Con sentenza n. 193/2020 la Corte risponde ai dubbi di legittimità costituzionale sul d.l. n. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito in legge n. 43 del 17 aprile 2015. La questione nasce dalla modifica normativa del 2015 che aveva incluso il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell’art. 4 bis O.P. precludendo ai condannati per il delitto in questione la possibilità di ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione.

La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni poste alla sua attenzione ed ha declinato un principio di portata generale precisando che, per effetto della sentenza n. 32/2020, deve ritenersi ormai “modificato il principio espresso dal diritto vivente relativo al regime intertemporale delle modifiche normative che inseriscono nuovi reati nel catalogo dell’art. 4 bis, comma 1, o. p. […] Nessun ostacolo si oppone più a che il giudice adotti rispetto ai nuovi reati l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020”[7].

Nel valutare l’istanza proposta, dunque, il tribunale di Firenze si trovava a rapportarsi ad un panorama giurisprudenziale e normativo mutato ma che non aveva mai risolto positivamente il quesito del regime intertemporale dei criteri preclusivi degli artt. 4 bis e 58 ter O.P. rispetto ad un reato di matrice mafiosa con tutto il portato ad esso annesso: “il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale”[8].

Oltre al principio del tempus regit actum occorreva che i giudici fossero disposti a forzare, con l’avallo dell’ultimo approdo della Consulta, la assiomatica perequazione collaborazione/ravvedimento e ad ammettere la possibilità per il detenuto di affermare diversamente il ripudio di scelte di vita deviate.

Apprezzate positivamente le osservazioni degli operatori del carcere secondo cui il detenuto aveva negli anni dimostrato “un orientamento positivo all’autocritica”; “atteggiamenti collaborativi ed autocritici nel rapportarsi e nella disamina articolata sulle circostanze correlate alla commissione del reato”; verificata “l’assenza di pericolosità sociale”, e l’insussistenza di “elementi concreti in ordine al mantenimento di collegamenti con la criminalità organizzata”; accertata la volontà del richiedente di ricucire lo strappo con le vittime dei suoi crimini, il tribunale di sorveglianza di Firenze approdava a riconoscere all’istante la meritevolezza dell’invocato beneficio.

Quanto al risarcimento del danno arrecato, a fronte della mancata richiesta di indennizzo degli eredi delle vittime, il Tribunale affermava: “il risarcimento del danno nel procedimento di concessione della liberazione condizionale è considerato non tanto in funzione oggettiva di reintegrazione patrimoniale del danno causato, quanto indice rivelatore del ravvedimento del condannato (cfr. Cass. 11.12.1992, Di Miccoli). L’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, infatti, costituisce una fattiva dimostrazione della riappropriazione da parte del condannato dei valori di solidarietà economica e sociale, della dimensione dell’interesse nei confronti degli altrui beni e della vittima, dimostrazione da valutarsi insieme agli altri indici di risocializzazione in concreto sussistenti. In tal senso si pronuncia anche la costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui il risarcimento del danno previsto dall’ultimo comma dell’art. 176 deve essere valutato nel quadro delle dimostrazioni di ravvedimento che il condannato deve fornire, come atto comprovante la fattiva volontà del reo di eliminare o attenuare le conseguenze dannose. La lettura del requisito in esame quale indice soggettivo dell’intervenuto ravvedimento è confortata dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell’art. 176 nella parte in cui tale norma, secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, attribuirebbe un particolare rilievo ai fini della valutazione del sicuro ravvedimento all’effettivo ed integrale adempimento delle obbligazioni civili, e nel caso di condannato che si trovi nell’impossibilità di adempiere, ad alternative forme di interessamento alle sorti della persona offesa, più precisamente «alle manifestazioni di effettivo interessamento del condannato stesso per la situazione morale e materiale delle persone offese ed ai tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, per attenuare, se non per riparare interamente, i danni provocati» (v. C. Cost. n. 138/2001; negli stessi termini già C. 20.12.1999, Campana, CP 2001, 505). La circostanza, infatti, che il condannato nella, seppur parziale, impossibilità di adempiere integralmente alle obbligazioni civili, dimostri per altro verso solidarietà nei confronti della vittima non può non avere un particolare peso nella verifica dei risultati del percorso rieducativo, del quale una tappa fondamentale è la riappropriazione della solidarietà sociale come valore fondamentale della vita in comune. In ogni caso va tenuta in maggior considerazione la manifestazione di interesse nei confronti della vittima (cfr. Cass. 8.5.1989, Vitale; Cass. 3.4.1985, Lettieri) anche per il positivo riflesso che rappresenta per il ravvedimento. Fondamentale indice della riappropriazione dei valori morali di solidarietà sociale è rappresentato proprio dall’atteggiamento assunto dall’autore del reato anzitutto nei confronti della vittima”[9].

L’ordinanza in discorso, dunque, valutava l’atteggiamento del condannato che, pur nella impossibilità di adempiere, aveva offerto alle vittime una sincera e autonoma richiesta di perdono e ne era scaturito uno scambio epistolare che dava contezza della bontà e della sincerità dei sentimenti manifestati. Accoglieva, pertanto, l’interpretazione riportata – e della Suprema Corte e della Consulta – nel segno di una valutazione della condotta risarcitoria da effettuare soprattutto riguardo a propositi di solidarietà umana e morale palesati da una vicinanza emotiva e partecipata al dolore arrecato.

Riguardo all’operare del criterio di legalità di cui agli artt. 2 c.p., 25, co. II Cost., 7 Cedu, il tribunale di sorveglianza di Firenze apre all’ingresso del criterio interpretativo offerto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 193 del 2020.

La questione più spinosa era quella relativa all’operatività della norma transitoria prevista dall’art. 4 del dl n. 15 del 1991 conv. in legge n.203 del 1991 che, con il richiamo al rinvio ‘mobile’ contenuto nell’art. 2 stessa legge, esclude espressamente dalla retroattività della norma, allora considerata di natura processuale, la disposizione del comma 2 dello stesso art. 2 dl 152/91. In altre parole, la norma che innalzava i limiti temporali di accesso alla liberazione condizionale per le pene temporanee (art. 2 co. 2 dl. 152/91) trovava applicazione espressa solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore (art. 4 co. I dl. 152/91).

Da ciò scaturiva la deduzione che gli altri limiti di accesso alla liberazione condizionale (tra cui il requisito della collaborazione che verrà introdotto l’anno successivo) dovrebbero trovare applicazione anche ai reati commessi prima e, certamente, alla pena dell’ergastolo. In difetto di una previsione normativa esplicita, infatti, la norma veniva applicata retroattivamente in considerazione della sua pretesa natura processuale.

Il tribunale di sorveglianza di Firenze, tuttavia, evidenziava come proprio la natura di tali norme sia stata oggetto di rivisitazione ad opera dei pronunciamenti del Giudice delle leggi che “ha proposto come unica interpretazione conforme a Costituzione quella che vede non retroagire, in materia di liberazione condizionale, le modifiche peggiorative che incidono sulla natura stessa della pena. Pertanto anche la norma transitoria, anziché essere a sua volta censurabile di illegittimità costituzionale, laddove è ‘reticente’, come nel caso di specie, non può che essere interpretata in senso conforme a Costituzione e dunque nel senso che i requisiti di ammissibilità per l’accesso alla misura, introdotti con norma posteriore (nel caso di specie nel 1992), non possono retroagire ai reati commessi prima della sua entrata in vigore”.

In definitiva l’istanza di liberazione condizionale veniva dichiarata ammissibile e il beneficio invocato veniva concesso.

Un passo importante del cammino verso l’attuazione del paradigma programmatico dell’art. 27 della Costituzione: al centro dell’esecuzione della condanna non il reato ma l’uomo, con il suo percorso di colpa e di superamento dell’errore, il suo cammino responsabile verso la libertà.

*Avvocato del Foro di Roma

[1] Provvedimento del 29 ottobre 2020 su istanza formulata dall’avvocato Michele Passione nell’interesse del suo assistito.

[2] CEDU, Sez. I, sent. Viola v. Italia, 13.06.2019, § 43.

[3] F. Viganò, in Diritto Penale Contemporaneo, ‘Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 Cedu: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo.

[4] CEDU, Sez. I, Viola v. Italia, 13.06.2019, § 43.

[5] C.Cost. sent. 253 del 22.10.2019, § 8

[6] C.Cost. sent. n. 32 del 2020, § 4.3.3.

[7] C.Cost. sent. n.193 del 2020, § 4.3.

[8] C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 § 8.

[9] T. Sorv. Firenze, ord. 3341 del 2020.