4 BIS, AUTOMATISMI E PRECLUSIONI: È ORA DI CAMBIARE – DI GABRIELE TERRANOVA
TERRANOVA – 4 BIS AUTOMATISMI E PRECLUSIONI- È ORA DI CAMBIARE.PDF
di Gabriele Terranova*
Recensione del volume dell’Avv. Veronica Manca, «Reati ostativi ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative», edito da Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, collana Teoria e prassi del diritto – penale e processo.
Il tema del “doppio binario”, inteso nel senso della previsione di un trattamento differenziato, in particolare in ambito penitenziario, per gli autori di specifiche tipologie di reati, ritenuti manifestazione di particolare pericolosità, presenta oggi un accentuato interesse in ragione della concomitante emersione, forse non casuale, di due fattori.
Da un lato, il legislatore con la l. 3 del 2019, sembra avere superato ogni indugio nell’abbracciare l’idea, da tempo dibattuta, secondo cui il metodo di politica criminale che esso sottende, quello per cui l’eccezionalità dei fenomeni criminosi richiede interventi repressivi eccezionali, vada esteso dall’ambito nel quale è stato originariamente sperimentato, quello della criminalità organizzata, a tutti i fenomeni di illegalità meritevoli di efficace contrasto.
Dall’altro, la giurisprudenza costituzionale e sovranazionale si è segnalata, in tempi recenti, per ripetuti interventi in decisa controtendenza, tesi a delineare i limiti che una politica criminale extra ordinem, fondata su presunzioni di pericolosità, incontra nei principi fondamentali dell’ordinamento.
È dunque tempo di riflessioni, alla luce di un’esperienza ormai trentennale, il cui bilancio ci interroga sulle prospettive future.
Il lavoro di Veronica Manca[1] si inserisce consapevolmente nell’alveo di questa riflessione, con un’analisi che, tenendo sottotraccia gli accenti più accesi che il dibattito sulla materia potrebbe sollevare, persegue un approccio scrupolosamente analitico, come si addice alla ricerca scientifica, che si rivela, alla fine, quanto mai efficace, quasi maieutico, nella formulazione delle conclusioni.
L’obiettivo è apertamente dichiaratamente in apertura.
Si tratta di:
1) ricostruire l’assetto del “doppio binario penitenziario” imperniato sulla norma cardine dell’art. 4 bis O.P., ormai assurto a vero e proprio sotto-sistema, nel quale sono radicalmente sovvertite le regole generali in materia penitenziaria, talché l’eccezione assurge a regola e viceversa, anche alla luce della sua evoluzione storica, caratterizzata da un costante ampliamento, spesso “schizofrenico”, in quanto non conforme alla sua ratio originaria;
2) verificare quindi se esso risulti ancora compatibile con il volto costituzionale e convenzionale della pena, che costituisce il secondo focus dell’analisi, nella dialettica interazione tra funzione di risocializzazione e dignità della persona condannata.
L’analisi dei due termini del paragone viene condotta anzitutto in chiave storico – evolutiva.
Normativa ostativa e preclusioni ai benefici penitenziari sono storicamente ricostruite, con scrupoloso puntiglio, a partire dagli albori, riferibili alla c.d. legge Gozzini ed alla prima decretazione d’urgenza del 1991, che segnò l’introduzione dell’art. 4 bis O.P., all’inasprimento conseguente alla stagione delle stragi di mafia del 1992, passando attraverso le modifiche che ne estesero l’ambito di applicazione, prima, ai reati sessuali, poi, ormai ai giorni nostri, ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
L’attenzione è rivolta alla ratio ricavabile dall’ispirazione di volta in volta rinvenibile nei successivi interventi, le cui tracce non sempre risultano ancora riconoscibili nel testo normativo stratificato, anche a causa dell’eterogeneità delle categorie di reati nel tempo attinte, che sono andate via via discostandosi sempre più dall’originario ambito di interesse, rappresentato dalla criminalità organizzata di tipo mafioso.
Altrettanto ricca e completa è l’analisi, nel “dialogo tra le Corti”, della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale in materia di ostatività e presunzioni, che prende le mosse dai primi storici arresti della Consulta in materia di misure di sicurezza (sent. n. 110 del 1974) e di giurisdizionalizzazione del procedimento penitenziario (sent. n. 204 del 1974), per giungere a soffermarsi sulla “rivoluzione copernicana” rappresentata dalle note decisioni degli ultimi anni che prospettano oggi uno scenario inedito, aprendo verso un’evoluzione che lo stesso legislatore, sulla spinta di riflessioni scientifiche ormai mature, aveva tentato di percorrere, senza successo, nella recente stagione riformatrice inaugurata dalla convocazione degli Stati Generali dell’esecuzione penale e culminata con l’esito deludente della delega normativa impartita con l. 23 giugno 2017 n. 103.
Il riferimento è, anzitutto, alla sentenza 149 del 2018 della Corte Costituzionale che ha plasticamente scolpito la centralità e l’irrinunciabilità, anche al cospetto delle altre pur legittime finalità che la connotano, della funzione di risocializzazione della pena ed anche per gli autori di reati di gravità apicale, cui va comunque concessa la possibilità di un cambiamento.
La vera svolta, tuttavia, è arrivata con la sentenza 253 del 2019 della Corte Costituzionale, che ha finalmente aperto un varco, pur nella ristretta cornice dell’accesso ai permessi premio, all’assolutezza della presunzione di pericolosità dei condannati per reati di c.d. prima fascia non collaboranti, disconoscendo l’equazione fra collaborazione con la giustizia e rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Analogamente, ma con una visuale anche più estesa, perché originata dal caso di un condannato cui era stato precluso l’accesso alla liberazione condizionale, aveva argomentato la sentenza Viola (n. 2) c. Italia della Corte EDU del 13 giugno 2019, che, ancor prima, aveva sancito la contrarietà al divieto di pene disumane e degradanti del c.d. ergastolo ostativo, in quanto pena non riducibile, ovvero non sufficientemente aperta alla possibilità di una revisione. E nella circostanza, i giudici di Strasburgo, pur non avendone fatto oggetto di formale statuizione, rivolgevano al legislatore italiano un preciso monito circa la necessità di un intervento riformatore di adeguamento.
Sempre la giurisprudenza della Corte EDU (in particolare per le decisioni Scoppola (n. 2) c. Italia, Del Rio Prada c. Spagna, M. c. Germania, Contrada (n. 3) c. Italia) ha offerto un rilevante impulso all’intervento operato dalla Corte costituzionale con la sentenza 32 del 2020, che ha ribaltato il tradizionale approccio formale al rapporto fra principio di legalità e normativa penitenziaria, riconoscendo natura sostanziale alle disposizioni sull’accesso alle misure alternative alla detenzione, in quanto incidenti sulla natura stessa della pena, riconducendole conseguentemente all’alveo delle garanzie previste dall’art. 7 CEDU e dall’art. 25 Cost.
La costante attenzione all’inquadramento delle singole scelte normative di politica criminale nella cornice dei principi ordinamentali su cui vanno ad incidere, nell’analisi condotta da Veronica Manca, forma oggetto di una precisa scelta metodologica, che vi coglie il senso del recepimento in ambito giuridico del metodo scientifico c.d. transazionale.
Ulteriore filo conduttore dell’opera, forse quello che più colpisce, per l’efficacia rappresentativa, si coglie nello sforzo di classificazione e di sintesi delle diverse figure di autori di reato enucleabili dal dato normativo, condotto anche attraverso il reiterato ricorso all’uso di mappe concettuali in forma di tabelle.
La prima categoria è quella degli autori di reati di c.d. prima fascia, individuata dal primo comma dell’art. 4 bis, cui si associa una “ostatività assoluta alla rieducazione”. Solo la collaborazione con la giustizia consente di superare la presunzione, altrimenti assoluta di pericolosità.
È l’occasione per un approfondimento della nozione di collaborazione con la giustizia, che ripercorre l’evoluzione della normativa premiale in materia di terrorismo, prima, e di mafia, poi, disvelando come, dalla valorizzazione in termini di favore, delle condotte attive di resipiscenza e di contributo alla ricostruzione investigativa o processuale dei fatti, si sia passati alla penalizzazione discriminatoria della loro mancata adozione.
Il binomio tra mancanza di collaborazione e pericolosità trovava il proprio originario fondamento nell’osservazione sociologica della stabilità dei vincoli associativi propri delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e del rilevante valore, anche simbolico, negli stessi contesti, dell’omertà. Sopravvive tuttavia fino all’odierna estensione del medesimo regime ostativo anche all’ambito dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, perfino monosoggettivi, sebbene qui la collaborazione rilevante possa assumere contorni significativamente diversi, incentrati soprattutto sulla restituzione, sul risarcimento e sulla eliminazione delle conseguenze dannose del reato.
Ai collaboratori, fino a ieri, erano equiparati solo coloro per i quali la collaborazione fosse irrilevante, impossibile o inesigibile, secondo le nozioni elaborate dalla giurisprudenza costituzionale e recepite dal legislatore, su cui l’opera recensita si sofferma puntualmente.
La sent. 253 del 2019, ha introdotto una terza via, che prescinde del tutto dalla collaborazione e si fonda sull’acquisizione di elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, sia il pericolo del loro ripristino. Lo sbocco consentito è solo quello dell’accesso ai permessi premio, ma è un limite correlato alla natura della concreta fattispecie oggetto di esame, rispetto al quale è ragionevolmente ipotizzabile un successivo allargamento. È anzi già sub iudice, per effetto di investitura della Consulta operata dalla Corte di Cassazione, l’estensione all’accesso alla liberazione condizionale.
Il nuovo percorso delineato, che si incentra sul già richiamato accertamento dell’assenza di collegamenti criminali (attuali o potenziali), in parte ricalcando forme ormai ben esplorate negli accertamenti ex art. 58 ter O.P., in parte prefigurando un inedito onere della prova a carico del condannato, per certi versi rappresenta un ritorno alle origini del doppio binario, quando ciò che lo caratterizzava era l’obbligo di un’istruttoria rafforzata e qualitativamente più qualificata.
Il criterio di giudizio, acquisizione della prova negativa sui collegamenti ovvero mancanza di prova circa la loro sussistenza, costituiva in origine l’elemento di differenza rispetto ai delitti di c.d. seconda fascia, quelli definiti dal catalogo di cui al comma 1-ter dell’art. 4 bis, per i quali tuttora, nell’opera recensita, si parla di “ostatività probatoria”. Difficile però negare che, in concreto, questi assumono ben maggiore rilevanza in ragione dell’intreccio dei rinvii normativi riferiti indistintamente all’intero disposto dell’art. 4 bis, le cui plurime ricadute preclusive nulla hanno a che vedere con l’innalzamento del tasso di approfondimento richiesto per la decisione. Vi rientrano l’esclusione dalla detenzione domiciliare per ultrasettantenni (art. 47 ter c. 01), da quella generale infraduennale (art. 47 ter c. 1 bis), dall’esecuzione pena presso il domicilio (art. 1 l. 199/2010) e da quella speciale prevista per il regime pandemico (art. 123 d.l. 18/20, oggi anche art. 30 d.l. 137/20), nonché, con qualche eccezione, dall’espulsione del condannato straniero a titolo di misura alternativa alla detenzione (art. 16 c. 5 ss. d.lgs. 286/1998) ed infine, forse la più rilevante, dalla sospensione dell’ordine di carcerazione al passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva (art. 656 cc. 5 e 9 lett. a) c.p.p.).
Tutte le preclusioni appena citate, per effetto dei medesimi rinvii, si applicano anche agli autori di reati di c.d. terza fascia, la cui previsione normativa mira a prescrivere, sempre in chiave di rafforzamento dell’accertamento, un periodo minimo garantito di un anno di osservazione scientifica collegiale condotta in Istituto (art. 4 bis c. 1 quater). Si tratta dei c.d. sex offenders, categoria il cui interesse criminologico, come ben mette in luce lo spaccato dedicatole dal lavoro che commentiamo, è totalmente eterogeneo rispetto a quello che destano i fenomeni di criminalità organizzata mafiosa od eversiva, ma che tuttavia, attraversa, con varie delimitazioni, tutte e tre le fasce di reati del catalogo dell’art. 4 bis, con la conseguenza che anch’essa può richiedere l’attivazione del contraddittorio con il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, procure antimafia o questure per le pertinenti informazioni circa i collegamenti con quelle forme di criminalità e perfino per l’accertamento della collaborazione con la giustizia, nelle sue varie forme.
Né si tratta di un unicum, perché anche i reati in materia di immigrazione, peraltro con un criterio divisorio di cui l’autrice censura giustamente la ragionevolezza, ricadono sia nella prima che nella seconda fascia.
Si è poi già sopra accennato al fatto che l’inclusione nei reati di prima fascia dei delitti contro la pubblica amministrazione abbia esteso anche a questi il necessario accertamento della collaborazione, così come, analogamente, quello sui collegamenti criminali, con l’attivazione dei relativi canali informativi specializzati.
Il risultato è un dedalo di presunzioni e preclusioni che ostacolano l’individualizzazione del trattamento, l’attuazione della finalità di risocializzazione della pena e, in ultima analisi, anche della sua funzione di prevenzione speciale.
E non si tratta solo dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, naturalmente, ma anche del regime penitenziario (dalla sottoposizione a quello differenziato di cui all’art. 41 bis c. 2, alle diverse modalità di accesso ai colloqui, all’allocazione in sezioni differenziate ecc.) ed oggi anche della sottoposizione ad effetti sempre più penalizzanti che sopravvivono anche all’estinzione della pena (su questo tema, ancora decisamente pionieristico, l’opera recensita offre interessanti spunti).
I quadri di sintesi e le mappe concettuali riassuntive di Veronica Manca, da questo punto di vista, oltre che un’utile cartina di tornasole per l’operatore, costituiscono la migliore rappresentazione grafica di questo confuso affresco, poiché ne disvelano eterogeneità e disarmonie, conducendo con assoluta linearità alla riflessione finale con cui il lavoro si conclude: la disciplina del regime differenziato sta diventando la regola e, in nome della certezza della pena, finisce per travolgere i cardini del sistema costituzionale dello Stato di diritto.
Siamo ormai ad un punto di non ritorno ed è urgente cambiare rotta.
Lo dice la Corte EDU nella sentenza Viola (n. 2) c. Italia, lo dice la dottrina con inequivocabile chiarezza.
L’auspicio è che il legislatore ascolti.
*Avvocato del Foro di Prato
[1] Veronica Manca, «Reati ostativi ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative», edito da Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, collana Teoria e prassi del diritto – penale e processo. Per l’indice e la presentazione https://shop.giuffre.it/media/Catalogo/Indice/INDICE_024207394.pdf