Enter your keyword

ART. 4 BIS O.P. UNA REFORMATIO IN PEIUS?  CRONACA DI UNA NORMA ANNUNCIATA – DI STEFANIA PETTINACCI E RICCARDO DI NICOLA

ART. 4 BIS O.P. UNA REFORMATIO IN PEIUS? CRONACA DI UNA NORMA ANNUNCIATA – DI STEFANIA PETTINACCI E RICCARDO DI NICOLA

PETTINNACCI – DI NICOLA – ART. 4 BIS O.P. UNA REFORMATIO IN PEIUS.PDF

ART. 4 BIS O.P. UNA REFORMATIO IN PEIUS? CRONACA DI UNA NORMA ANNUNCIATA.

di Stefania Pettinacci e Riccardo di Nicola*

Alcune prime riflessioni sulle recenti modifiche dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e su una prima pronuncia della Cassazione. Il giudice di legittimità parrebbe, in prima battuta, aver ritenuto compatibile con la Costituzione il nuovo assetto delineato dal legislatore. Occorrerà, comunque, attendere i prossimi sviluppi della giurisprudenza di merito per comprendere leffettiva tenuta, sul piano della legittimità costituzionale, del nuovo assetto normativo.

L’art. 4 bis O.P., introdotto nell’ordinamento penitenziario dal d.l. 152/1991 (e immediatamente modificato – dopo le stragi di mafia di Capaci e di via D’Amelio – dal d.l. 306/1992), ha subìto nel tempo ricorrenti modifiche, sia a fronte delle frenetiche interpolazioni operate dal legislatore che per effetto dei plurimi interventi della Corte Costituzionale; attualmente rimodellato dalla l. 162/2022, a seguito della conversione del d.l. 150/22 di paternità del neo insediato Governo Meloni, è sotto la lente d’ingrandimento degli operatori del diritto, che, a giusta ragione, hanno già avuto modo di manifestare numerose perplessità.

La peculiare ratio di tale disciplina era, in origine, quella di differenziare il trattamento penitenziario dei condannati per reati di criminalità organizzata dal trattamento dei condannati “comuni” subordinando, per i primi, l’accesso alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario esclusivamente a determinate condizioni.

Ab initio, in presenza di condanne definitive per i delitti elencati dal comma 1 dell’art. 4 bis O.P, in assenza di collaborazione con la giustizia, era inibito l’accesso a qualsivoglia misura alternativa o beneficio premiale, eccetto la liberazione anticipata.

Una prima breccia a questo sistema di presunzione assoluta di pericolosità veniva ad aprirsi soltanto grazie all’intervento della Corte costituzionale con le note sentenze n. 357/1994 e n. 68/1995 (poi recepite successivamente dal legislatore), attraverso l’introduzione dell’istituto della collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante.

Per lungo tempo, dunque, l’unico varco percorribile per ottenere misure premiali nell’ottica della previgente normativa era quello di dimostrare – sovente con non poche difficoltà sul piano probatorio – l’impossibilità e/o inesigibilità e/o irrilevanza della collaborazione con la giustizia e contestualmente l’avvenuta recisione dei pregressi collegamenti con la criminalità organizzata ed in particolare con i circuiti criminali di appartenenza, fatta salva, ed è di tutta evidenza, l’eventuale accertata collaborazione con la giustizia ex art.58 ter O.P. e alla più “qualificata” collaborazione con la giustizia ex l. 82/1991 e succ. mod., in particolare l’art. 16 nonies l. 45/2001.

Solo con la sentenza n. 253/2019, la Corte Costituzionale – tornata nuovamente a pronunciarsi nel merito della disposizione in esame e sulla scia della sentenza della Corte EDU Marcello Viola c. Italia , tramite la quale era stata sancita la non conformità della misura dell’ergastolo cd.“ostativo” con l’art. 3 CEDU – aveva finalmente aperto la strada alla fruibilità dei permessi premio anche in assenza di collaborazione, allorchéé fossero stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che il pericolo del ripristino di tali collegamenti, così creando una sorta di tertium genus; si era infatti evidenziato, al contempo, l’importanza del decorso del tempo in termini rieducativi e del diritto alla speranza, al quale ogni detenuto inevitabilmente si affida, auspicando, nei tempi decisi dal Giudice della cognizione, l’agognata fuoriuscita dal circuito carcerario, in precedenza assolutamente preclusa all’ergastolano ostativo.

Dal punto di vista della Corte EDU si era precisato che lo Stato italiano avrebbe dovuto mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione “a vita” che garantisse la possibilità di un riesame della pena e permettesse quindi alle autorità preposte di valutare il percorso rieducativo del singolo ergastolano, nell’ottica di una sostanziale soppressione del “fine pena mai”.

A seguito della citata sentenza della Corte costituzionale, che aveva recepito i principi suggeriti  dalla Corte sovranazionale, si erano così sviluppate tre condizioni  di accesso ai benefici (rectius: al beneficio del permesso premio) per i condannati ostativi qualificati: a) la collaborazione con la giustizia; b) la prova della collaborazione impossibile, irrilevante  e/o inesigibile e dell’insussistenza di collegamenti con i circuiti criminali pregressi ; c) la prova dell’assenza di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o l’eventuale rischio di ripristino in futuro dei medesimi.

La Corte aveva, quindi, superato il requisito della collaborazione con la giustizia, quale unico presupposto prodromico all’accesso al beneficio premiale, convertendo la presunzione assoluta di pericolosità in presunzione relativa e, al contempo, mantenendo intatto l’istituto della collaborazione impossibile, irrilevante e/o inesigibile.

Tale possibilità era stata tuttavia limitata dalla Consulta al solo permesso premio, con esclusione degli altri benefici penitenziari.

Sicchéé, il permanere di una presunzione assoluta di pericolosità in capo ai condannati ostativi non collaboranti per l’accesso a benefici diversi dal permesso premio, aveva indotto la Prima Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 18518/2020, a riportare la questione dinanzi al Giudice delle leggi.

Investita ancora una volta della questione, la Corte costituzionale aveva messo in luce le criticità di un assetto fondato sulla presunzione assoluta di pericolosità in capo al condannato ostativo qualificatola collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali» cfr. ordinanza n. 97/2022), invitando il legislatore, con un vero e proprio monito, a modificare l’art. 4 bis O.P., pena un intervento demolitorio della disposizione per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e art. 3 CEDU.

Nel dettaglio, nell’occasione, la Consulta aveva rinviato l’udienza alla data del 10 maggio 2022 affinché il Parlamento regolasse la materia, tenendo conto della particolare natura delle norme di contrasto alla criminalità organizzata e della necessità di preservare la disciplina della collaborazione della giustizia in tali casi.

Rispetto alla volta precedente, la posta in gioco era più alta, perchéé il beneficio richiesto dal condannato a ergastolo ostativo non era il permesso premio, bensì la liberazione condizionale dopo 26 anni di espiazione della pena.

La pronuncia della Consulta era quindi attesa come la parola “fine” alla pena perpetua per tutti i condannati che si impegnano in un percorso effettivo di rieducazione, nonostante la mancata collaborazione con la giustizia.

In ragione dello stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge di modifica della disposizione, la Corte rinviava l’udienza al successivo 8 novembre 2022, in attesa dell’entrata in vigore dell’intervento del legislatore.

L’intervento normativo in commento – che importa la sedicesima modifica all’art. 4 bis O.P. – arriva, quindi, dietro “urgente sollecitazione” della Consulta.

La scelta legislativa emergente dal d.l. 162/2022 (convertito, con modifiche, dalla l. 199/2022) si colloca, tuttavia, a una distanza siderale rispetto all’esigenza di eliminare una presunzione assoluta di pericolosità in capo al condannato ostativo di c.d. “prima fascia”.

Se è vero infatti che, da un lato, si pone in linea con quanto statuito con la sentenza n. 253/2019, avendo dato veste normativa al tertium genus creato dalla Corte, dall’altro aggiunge presupposti normativi ulteriori che rendono la introdotta relatività della presunzione di pericolosità soltanto apparente.

Il condannato ostativo di cd. “prima fascia” non collaborante, invero, non solo dovrà fornire prova – in attuazione di quanto statuito con la sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale – di tutta una serie di requisiti piuttosto stringenti (prova dell’adempimento ovvero dell’assoluta impossibilità all’adempimento alle obbligazioni civili e pecuniarie, prova della non attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e dell’assenza di un pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi), ma dovrà anche fornirla attraverso elementi di fatto diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’associazione di eventuale appartenenza.

Nel dettaglio, il nuovo assetto prevede che l’interessato possa accedere ai benefici penitenziari, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, a patto che: 1) dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di adempimento; 2) alleghi elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, nonchéé il pericolo di ripristino di tali collegamenti, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione con la giustizia , della revisione critica della condotta criminosa.

Inoltre, il Magistrato di Sorveglianza dovrà accertare la messa in atto di iniziative del condannato a favore delle vittime, sia a titolo di risarcimento del danno che eventualmente nella forma della giustizia riparativa, elemento, quest’ultimo, valorizzato in particolare dal nuovo assetto normativo affacciatosi nel nostro ordinamento con la cd. riforma Cartabia. Il concetto di giustizia riparativa, approdato in Europa verso la fine degli anni’80 e che ha modificato il paradigma di mediazione autore-vittima, ha avuto le prime applicazioni principalmente nell’ambito della giustizia penale minorile. Negli anni successivi il concetto originario di restorative justice (termine che dovrebbe essere stato coniato in occasione di un articolo scritto nel 1977 dal criminologo inglese Albert Eglash) si è progressivamente diffuso in tutti i paesi d’Europa fino all’individuazione nella mediazione penale di un possibile strumento alternativo al processo penale (cd. diversion); strumento che invece nel nostro ordinamento ha stentato a decollare fino all’esordio, appunto, delle norme introdotte con la riforma Cartabia (sebbene “sospese” per la loro concreta applicazione fino a giugno p.v.) e che hanno fatto capolino nell’ordinamento penitenziario in punto di ravvedimento dell’autore del reato. L’impressione, complice anche la superfetazione di aggettivi e presupposti che caratterizza il nuovo art. 4 bis O.P., è quella che – come argutamente osservato da R. De Vito, Finisce davvero il fine pena mai”? Riflessioni e interrogativi sul decreto-legge che riscrive il 4-bis, in Questione Giustizia, 22 dicembre 2022 – «si sia passati dalla presunzione assoluta di pericolosità sociale alla prova impossibile di non pericolosità».

Non si comprende, infatti, quali potrebbero mai essere, in concreto, gli elementi ulteriori anche rispetto all’atteggiamento propositivo del detenuto sotto il profilo della partecipazione al percorso rieducativo.

In proposito, si renderà necessaria una interpretazione consona, da parte della Magistratura di Sorveglianza, che riporti il dettato normativo alla realtà: in questo senso, potrebbero essere valorizzate attività di volontariato, attività di riparazione del danno nei confronti delle vittime (sebbene tra i presupposti da provare ci sia anche l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato) e attività all’interno del carcere svolte dal detenuto spontaneamente, come il lavoro, il teatro, l’accesso al percorso scolastico o universitario.

La novella ha poi – inspiegabilmente – eliminato l’istituto della collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante, ripristinando, allo stato, un vulnus normativo insopportabile, attesa la vasta casistica di posizioni giuridiche fertili per l’applicazione dell’istituto in oggetto, notoriamente frequenti per un attento operatore del diritto. Pertanto, da qui in avanti, l’unico modo per accedere ai benefici penitenziari in capo ai cd. condannati “ostativi” sarà quello di collaborare de facto con la giustizia ovvero fornire la prova (sostanzialmente) diabolica dei requisiti introdotti al secondo comma del novellato art. 4 bis O.P.

Tertium non datur.

Va detto inoltre che, seppur con qualche ritardo, la legge di conversione ha quantomeno previsto una disciplina transitoria, volta a garantire una sorta di continuità rispetto ai condannati che hanno in corso d’opera il previgente regime (quanto alla c.d. collaborazione impossibile, irrilevante e/o inesigibile). La norma transitoria prevede, infatti, che l’accesso ai benefici penitenziari possa essere riconosciuta ai condannati che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore della novella, consentendo quindi la sopravvivenza della cd. collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante, fino all’esaurirsi delle posizioni comprese nel limite temporale indicato dalla legge.

A questo doppio binario obbligato, rimane irragionevolmente estranea soltanto la liberazione condizionale, il cui limite di pena espiata è stato peraltro innalzato a 30 anni rispetto ai previgenti 26; circostanza, quest’ultima, che, letta congiuntamente a quella dell’allargamento dell’alveo dei reati ostativi, tramite l’inserimento dell’ultimo periodo nell’area del comma (ovvero l’estensione ai reati teleologicamente connessi a quelli elencati), costituisce indice inequivoco dello spirito giustizialista sul piano dell’esecuzione della pena, che ha animato il neo insediato legislatore.

La nuova formulazione ha, infatti, imposto il divieto di operare il cd. “scorporo virtuale” del cumulo giuridico in presenza di esecuzione di pene inflitte anche per delitti diversi da quelli tassativamente indicati, in relazione ai quali il giudice della cognizione o dell’esecuzione ha accertato che sono stati commessi per eseguire od occultare uno dei reati di cui al medesimo primo periodo ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati. Tale disposizione rappresenta, a parere di chi scrive, un “revirement irragionevole, considerando che si pone in netto contrasto con la prolifica elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte, che, con numerose pronunce sul punto, aveva tracciato la strada maestra nella direzione di consentire la scindibilità “virtuale” dell’esecuzione delle pene al fine di consentire al condannato di accedere ai benefici penitenziari una volta scontato il reato ostativo (cfr., fra le altre, Cass. Pen.; sez. I, n. 41322/2009; Sez. I, n. 5158/2012).

D’altronde, non è certo una novità che il legislatore degli ultimi anni si sia mosso nella direzione diametralmente opposta rispetto alla ratio originaria dell’introduzione dell’art. 4 bis O.P., disposizione nata per ospitare solo gravi delitti associativi di stampo mafioso o terroristico e divenuta nel tempo protagonista di ogni effimera emergenza criminale.

L’unico intervento di segno contrario – soltanto in parte distonico con l’animo dell’attuale esecutivo – si registra con riferimento ai c.d. “white collar crimes”, avendo la legge di conversione rimosso dal perimetro dell’ostatività i delitti contro la pubblica amministrazione.

Sotto altro profilo, anche con la legge di conversione sono stati incrementati, senza una reale necessità, a parere di chi scrive, gli adempimenti istruttori connessi alle istanze presentate nell’interesse dei condannati ostativi di “prima fascia”, con indubbio aggravio del lavoro delle cancellerie, già in sofferenza a causa della grave carenza di organico e di risorse a cui il ministero della giustizia non sembra voler porre rimedio.

Quantomeno, fra i vari ripensamenti concretizzati con la legge di conversione, può accogliersi con favore quello di riportare la competenza in capo al Magistrato di Sorveglianza in tema di approvazione del programma di lavoro esterno e concessione di permessi premio: infatti, l’originaria improvvida scelta di rendere titolare il Tribunale di questa attività, nell’ottica di una sorta di sfiducia verso il singolo magistrato, avrebbe creato un potente vulnus in capo ai potenziali  beneficiari, considerata la mole di lavoro degli uffici e le lunghe attese per le fissazioni delle udienze collegiali.

Vale la pena evidenziare come la normativa speciale, in relazione alla collaborazione con la giustizia qualificata, sia rimasta saldamente ancorata alla l. 82 /1991 (modificata dalla l. 45/2001), la quale ha introdotto nuovi e più stringenti limiti temporali per l’accesso ai benefici penitenziari rispetto al preesistente quadro normativo, e secondo cui,  in forza  dell’art. 16 nonies medesima legge, il condannato ostativo qualificato che ha collaborato con la giustizia, avrà accesso alle misure alternative della semilibertà, della detenzione domiciliare e della più ampia misura della liberazione condizionale, solo dopo aver scontato un quarto della pena inflitta. La disciplina speciale ha espressamente escluso la misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali; i permessi premio sono stati invece mantenuti nell’alveo della originaria previsione, potendo il detenuto presentare istanza al magistrato di sorveglianza in ogni tempo dall’inizio della esecuzione, essendo tale beneficio concedibile in deroga a qualsiasi limite temporale.

Di converso e per completezza espositiva, anche la norma fissata dall’art. 58 ter O.P. in merito al riconoscimento della qualifica di collaboratore di  giustizia, ha mantenuto i confini originari, prevedendo la possibilità di accedere ai benefici penitenziari per le persone condannate per reati di cui all’art. 4 bis, comma 1, O.P. che hanno collaborato con la giustizia, nei modi indicati dal comma 1 dell’art. 58 ter O.P., e applicando, tuttavia, i limiti temporali ordinari sia in relazione ai permessi premio che alle misure alternative.

L’auspicio è certamente orientato a un ripensamento dei principi fissati dalla legge di riferimento, così rigidamente ancorati alla dimostrazione di elementi di prova contraria, francamente di arduo se non di impossibile individuazione per l’interessato e il suo difensore, potendosi in conclusione affermare che la ratio della novella è connotata in realtà da elementi peggiorativi rispetto alla norma previgente, che viceversa il legislatore, quantomeno in aderenza alla proclamata dichiarazione di intenti, voleva rendere non solo più accessibile ma anche del tutto conforme ai principi enucleati dalla nota sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale.

Nel frattempo la Consulta, all’udienza dell’8 novembre 2022, con l’ordinanza n. 227/2022, preso atto della modifica intervenuta, ha rinviato gli atti per un nuovo esame della questione di costituzionalità alla Corte di Cassazione, giudice rimettente.

Come già precisato, la Consulta aveva posto all’attenzione del Parlamento l’incompatibilità di un regime penitenziario che subordinasse l’ammissione dei condannati definitivi per delitti c.d. di “prima fascia” alla sola condizione della collaborazione con la giustizia, prospettandone l’incostituzionalità per violazione con il principio di rieducazione sancito dall’art. 27, comma 3, Cost. e art. 3 CEDU (come in primis ampiamente rilevato dalla nota sentenza della Corte EDU Marcello Viola c. Italia).

In data 9 marzo 2023 la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza impugnata, affinché il Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente, alla luce della nuova disciplina, possa valutare con accertamenti di merito, preclusi al giudice di legittimità, la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati ostativi di c.d. “prima fascia” non collaboranti.

Il giudice di legittimità parrebbe pertanto, in prima battuta, aver ritenuto compatibile con la Costituzione il nuovo assetto delineato dal legislatore.

Occorrerà, comunque, attendere i prossimi sviluppi della giurisprudenza di merito per comprendere l’effettiva tenuta, sul piano della legittimità costituzionale, del nuovo assetto normativo.

*Avvocati del Foro di Bologna