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C’È CHI NON BUTTA LA CHIAVE? SULLA FUNZIONE SOCIALE DELLA DIFESA, TRA COSTITUZIONE, LEGALITÀ E RIEDUCAZIONE PER UN RIPENSAMENTO CORALE SULL’ATTUALITÀ DEL 41-BIS E DEI REGIMI OSTATIVI – DI VERONICA MANCA

C’È CHI NON BUTTA LA CHIAVE? SULLA FUNZIONE SOCIALE DELLA DIFESA, TRA COSTITUZIONE, LEGALITÀ E RIEDUCAZIONE PER UN RIPENSAMENTO CORALE SULL’ATTUALITÀ DEL 41-BIS E DEI REGIMI OSTATIVI – DI VERONICA MANCA

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C’È CHI NON BUTTA LA CHIAVE?

SULLA FUNZIONE SOCIALE DELLA DIFESA, TRA COSTITUZIONE, LEGALITÀ E RIEDUCAZIONE PER UN RIPENSAMENTO CORALE SULL’ATTUALITÀ DEL 41-BIS E DEI REGIMI OSTATIVI

Note sparse a margine di alcune pronunce della Magistratura di Sorveglianza sul diritto all’affettività e colloqui Skype in attesa della decisione della Consulta

 di Veronica Manca* 

Con questa breve nota, l’Autrice propone alcune riflessioni sul tema del regime del 41-bis, partendo dalla ratio di prevenzione dell’istituto, con l’analisi di dati ed elementi statistici attuali, fino all’analisi dei più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità su alcune questioni “calde” di primo piano. Si propone, infine, un primo esame della giurisprudenza di merito, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, sulla questione del divieto di colloqui Skype e detenuti al 41-bis, specie nel caso di figli minori.

Sommario: 1. Premessa: la funzione sociale del difensore nella tutela dei diritti. – 2. Diritti soggettivi e 41-bis ord. penit.: binomio costituzionalmente possibile. – 3. Chi sconta il 41-bis oggi? Diamo qualche dato. – 4. Emergenza sanitaria, carcere e diritti negati. – 5. Affettività e diritto ai colloqui nella legislazione d’urgenza. – 5.1. Passi avanti: per il 41-bis? Sugli effetti «bilaterali» della negazione del diritto. – 6. In attesa della Consulta: la Magistratura di Sorveglianza apre qualche spiraglio. – 7. Il punto: riflessioni di insieme. Quali visioni future?

 

  1. Premessa: la funzione sociale del difensore nella tutela dei diritti.

Trattare del regime del 41-bis ord. penit. non è mai semplice, specie in un periodo storico in cui la disciplina è salita alla ribalta delle cronache ed è diventata oggetto di dibattiti e show televisivi.

Il «carcere duro», espressione di per sé davvero infelice, rappresenta da sempre il parametro con cui misurare la temperatura di istanze politiche incentrate sulla sicurezza sociale, come se, con la repressione ulteriore di un regime già sospensivo dei diritti, si possa placare l’insofferenza collettiva di un Paese, in piena crisi politico-sociale, e con una pandemia in corso.

Eppure il problema sussiste e l’obiettivo – per nulla strumentale ed ideologico – che l’Avvocatura si è posta di fornire informazioni utili e corrette affinchè si possa avere un quadro complessivo del tema carcere, risulta rispetto al 41-bis e all’ostatività, di fondamentale importanza, specie per la funzione sociale (e costituzionale), che contraddistingue intrinsecamente l’esercizio della tutela dei diritti.

Partiamo, quindi, dalle basi: di cosa parliamo.

Spesso, si confondono i temi, parlare del regime del 41-bis ord. penit. è cosa assai diversa che parlare di ergastolo ostativo o di delitti ostativi puniti, anche con la pena dell’ergastolo, delitti tutti cioè riconducibili ad un’altra norma simbolo, «bis» della legge sull’ordinamento penitenziario.

Nel primo caso, si parla di un sistema di prescrizioni che sospendono le principali regole di trattamento penitenziario per soggetti ritenuti altamente pericolosi, essendo indagati, imputati, condannati o internati per reati inerenti la criminalità organizzata anche di stampo mafioso; la disciplina, quindi, dovrebbe mirare, in un’ottica preventiva, ad impedire qualsiasi contatto con l’esterno, elidendo i collegamenti con l’ambiente socio-familiare e con la consorteria criminale di appartenenza.

La previsione di una serie di regole – in parte sospese (si pensi alla disciplina della corrispondenza e dei colloqui) – fortemente restrittive dovrebbe mirare a contenere il rischio, che, nonostante la carcerazione, il soggetto continui a rappresentare un punto di riferimento per la criminalità organizzata, veicolando dal carcere messaggi per l’esterno.

Tale disciplina si applica in termini trasversali per il processo, sia che l’autore sia indagato (immaginando che la ratio della custodia cautelare, resa così ulteriormente restrittiva, si spieghi nell’ottica preventiva e investigativa), sia che l’autore stia affrontando il processo, o, che sia già stato giudicato con sentenza di condanna, nonchè, in alcuni casi (per una percentuale minima, ma esistente comunque), anche a pena detentiva espiata, nelle forme della misura di sicurezza della casa lavoro, per il soggetto internato. In altri termini, il disvalore penale del fatto oggetto di accertamento processuale giustifica la presunta – perenne – pericolosità sociale del soggetto, anche laddove l’intensità del comando punitivo dello Stato si sia allentato e la pena sia stata per intero espiata.

Eppure, anche chi viene sottoposto al regime del 41-bis ord. penit., è sottoposto all’autorità dello Stato, e, in particolar modo, al controllo giurisdizionale per la verifica sia dell’an sia del quomodo dell’esercizio proporzionale di tale strumento, preventivo.

Le polemiche infatti si inseriscono proprio su questo punto per nulla dolente, ma nemmeno scontato: non si discute sull’opportunità o meno di mantenere il regime – scelta di discrezionalità legislativa – e non lo discute nemmeno il difensore, che viene chiamato all’esercizio di diritti rispetto al dato normativo esistente, ma si dibatte sulla circostanza che anche tali soggetti possano adire l’autorità giudiziaria per lamentarsi di una violazione di un diritto soggettivo e che richiedano una verifica legittima da parte del giudice del rispetto del principio di legalità, che come tale, deve trovare applicazione per tutti i cittadini, tutti coloro che sono assoggettati al controllo dello Stato, siano essi liberi o reclusi.

Il 41-bis ord. penit. corre di pari passo, per i soggetti condannati, all’art. 4-bis ord. penit., norma «contenitore» che dà origine al c.d. «doppio binario penitenziario», cioè quell’insieme di regole che disciplinano una modalità diversa per l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative, diversificando l’intensità dei requisiti a seconda della gravità del reato.

Nel secondo caso, quindi, l’art. 4-bis ord. penit., che compie ormai trenta anni, nelle sue diverse versioni, vede la sua applicazione a casi radicalmente eterogenei tra loro e strutturalmente differenti rispetto ai delitti di mafia. Uno strumento normativo di incentivazione alla collaborazione con la giustizia, anche in sede esecutiva, per i delitti di criminalità organizzata, ad un mezzo per impedire o rendere più difficile l’accesso al circuito dell’esecuzione penale esterna per numerose categorie di condannati, dall’autore del peculato (v. la legge c.d. «Spazzacorrotti» n. 3 del 2019), alle fattispecie sull’immigrazione clandestina, alla rapina o estorsione aggravate, a tanti – ma non tutti – reati violenti contro la persona, specie a sfondo sessuale (da ultimo, v. il c.d. «Codice rosso» con l’inserimento dell’art. 583-quinquies c.p.).

Due istituti normativi differenti, che possono trovare applicazione congiunta, proprio per via del titolo di reato, e, perché il soggetto, oltre che presuntivamente non meritevole di chances rieducative, viene ritenuto socialmente pericoloso: in questi casi, lo Stato rinuncia, in sostanza, all’offerta del servizio pubblico della rieducazione, ritenendo legislativamente che colui che si rende responsabile di un reato ostativo non meriti una chance di reinserimento sociale, o, che non sia in grado di recepire le proposte.

Detta così, è evidente che tale ragionamento sconta un pesante errore di fondo: è proprio su questi autori di reato che si dovrebbe concentrare maggiormente l’offerta rieducativa, perché è nei confronti della violazione più grave della legalità che lo Stato dovrebbe esplicare la propria forza, di contenuto, proponendo un modello valido di legalità, alternativo e vincente. E tale non è un obiettivo che si pensa da perseguire, in un’ottica buonista e caritatevole verso il reo, ma è una prospettiva che coinvolge lo Stato e la collettività. Il rientro accompagnato, anche attraverso un circuito di misure alternative al carcere, rappresenta un passaggio fondamentale di monitoraggio, verifica e meritevolezza delle chances che l’ordinamento offre alla all’autore di reato, un patto di fiducia e di responsabilità.

Un passaggio, che si rivela molto più efficace della scarcerazione per fine pena, dopo una lunga detenzione, vissuta senza «assaggi» di vita esterna, senza riferimenti socio-familiari, senza controlli sul territorio da parte delle forze dell’ordine e del servizio sociale, e, soprattutto, senza il costante aggiornamento del percorso alla Magistratura di Sorveglianza.

In altri termini, ciò che fa discutere e si continua a negare, rappresenta invece la soluzione alle esigenze di sicurezza sociale: a meno che si intenda reintrodurre la pena di morte, o la muratura a vita della cella, è palese che anche gli autori di reati particolarmente gravi, prima o poi, faranno rientro in società. E allora perché non investire sul contenuto delle misure alternative, con prescrizioni e obblighi anche nei confronti della comunità, delle vittime del reato, con accertamenti pregnanti sull’attualità dei collegamenti con la criminalità, con indagini attuali e di largo spettro, dal contesto socio-familiare, a quello del territorio, al percorso intramurario, alle prospettive di riparazione, e all’impegno personale profuso nell’aderire al modello di legalità dello Stato.

Ed è su questo binario che si inserisce l’attività di divulgazione e di sensibilizzazione sulle misure alternative e sull’esecuzione penale esterna, anche per il mondo dei c.d. «ostativi»: perché è essenziale ritornare alle basi, senza tecnicismi, con un linguaggio il più accessibile e trasversale possibile, e narrare di un sistema normativo che non vuole togliere nulla a nessuno, che non è ingiusto, ma che è indispensabile per riportare – o tentare di farlo – ad armonia la società, dopo un reato, dopo la rottura dei legami con la legalità e lo Stato.

  1. Diritti soggettivi e 41-bis ord. penit.: binomio costituzionalmente possibile.

Partendo da queste premesse, e tenuto conto che il regime dell’art. 41-bis ord. penit. è una disciplina a contenuto preventivo, orientato alla riduzione del rischio che durante la carcerazione il recluso possa comunque esercitare sull’esterno il proprio «carisma criminale», non si capisce quale sia il fondamento della previsione di ulteriori regole afflittive, che riguardano invece la vivibilità interna, come ad esempio, la regola che impone la presenza in cella di un’unica fotografia dei familiari l’anno, oppure, quella che impone di indossare necessariamente il pantalone lungo (e non quello corto) o di indossare solo determinate tipologie di ciabatte, o, ancora quella che vieta l’ingresso di riviste o di quotidiani nazionali di informazione giuridica, e così via.

Sul punto, anche l’Amministrazione penitenziaria ha saputo negli anni, rallentare le maglie dell’afflittività del regime, riconoscendo alcune aperture, come ad es., in materia di perquisizioni personali.

È la stessa Circolare DAP del 2 ottobre 2017, che, in premessa, rammenta al Dipartimento che la regolamentazione del 41-bis ord. penit. mira alla razionalizzazione della disciplina in un unico documento – anziché in una molteplicità di circolari – con l’obiettivo dichiarato di perseguire un trattamento all’insegna della proporzionalità e dell’umanità della pena, dato che le singole prescrizioni «non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata». Il 41-bis ord. penit. – si dichiara – è funzionale ad impedire «la ideazione, pianificazione e commissione di reati da parte dei detenuti e degli internati anche durante il periodo di espiazione della pena e della misura di sicurezza», la cui applicazione al caso concreto quindi «non può prescindere da una valutazione della funzione alla quale sono legate»[1].

Uniformità e proporzionalità nel trattamento sono del resto due principi espressi dalla Corte costituzionale, guida sia dell’operato dell’Amministrazione penitenziaria sia dell’azione della giurisdizione. Secondo la Consulta, infatti, «non possono disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento. Mancando tale congruità, infatti, le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale»[2]. In questa direzione si muove la Corte costituzionale, quando dichiara l’illegittimità della prescrizione di cui alla lett. f) del co. 2 quater dell’art. 41-bis ord. penit., sul divieto di cottura dei cibi in cella, perché tale regola «si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva»[3]. Così nel caso del divieto di scambio di oggetti tra detenuti al 41-bis, appartenenti al medesimo gruppo di socialità: la Consulta ha ribadito la necessità di una valutazione sulla congruità della prescrizione sul caso concreto, verificando se da tale situazione possa effettivamente discendere il pericolo di permanenza dei collegamenti con l’ambiente esterno (o l’agevolazione dello status criminale di vertice all’interno delle sezioni 41-bis). Non viene abolita la regola, ma viene indicato un percorso di indagine sul caso concreto sia per l’Amministrazione penitenziaria, ex ante, sia per la giurisdizione, ex post, a presunta regola violata: «In definitiva, il divieto di scambiare oggetti prescritto dalla norma censurata, se applicato necessariamente a detenuti assegnati al medesimo gruppo di socialità, viola gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Si giustifica perciò, ad opera di questa Corte, l’adozione di un dispositivo di accoglimento che riconduca la disposizione censurata entro i limiti del rispetto dei citati parametri costituzionali, ne elimini la necessaria applicazione anche ai detenuti che a tale medesimo gruppo siano assegnati, e ne circoscriva l’applicazione ai detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità»[4].

Criteri direttivi, in parte, seguiti anche dalla giurisprudenza di legittimità.

Anche se con la sentenza n. 122/2017 della Corte costituzionale non sono state ritenute fondate le questioni di legittimità costituzionale del co. 2 quater dell’art. 41-bis lett. a) e c) ord. penit. in relazione al divieto di ricevere e/o inviare riviste o liberi all’esterno[5], con la pronuncia n. 35766/2019, la Prima Sezione ha ritenuto illegittima la preclusione «assoluta», fondata sul mero «sospetto» di vietare al detenuto al 41-bis ord. penit. la ricezione di tutta la stampa locale, a prescindere dalla soggettiva provenienza geografica[6]. Questione fortemente discussa, che è tornata all’attenzione anche in ragione di una recente pronuncia dell’Ufficio di Sorveglianza di Viterbo, che ha negato l’acquisto al detenuto di alcuni volumi, tra cui quello scritto da Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, perché – secondo la valutazione del Magistrato di Sorveglianza – tali testi avrebbero potuto contribuire a potenziare il carisma criminale del detenuto all’interno della sezione. Tema caldo, che investe, in generale, l’accesso di tutta l’informazione che riguardi il mondo del carcere (nel Mod. 72, per i ristretti al 41-bis, infatti è fatto divieto di acquisto/abbonamento a numerose riviste, come ad es., Ristretti, oppure, testate giornalistiche a tiratura nazionale, tra cui, Il Mattino, Il Dubbio, Il Manifesto, Il Foglio, Avvenire, o associazioni, come quella di Nessuno Tocchi Caino). Addirittura di quella a contenuto pornografico, in parte risolta innovativamente dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, con ordinanza del 2 ottobre 2020 (dep. il 7 ottobre 2020).

Non solo. Ancora più acceso il dibattito in relazione al tema della difesa, tra diritto alla riservatezza del rapporto tra difensore-assistito, ed esigenze investigative connesse alla ricerca e al pericolo di inquinamento della prova. Un punto dolente, affrontato anche dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, nella Relazione del 2019, con riguardo all’acceso da parte del detenuto al 41-bis di documentazione giudiziaria, specie se voluminosa o, ancora, se da imputarsi ad altro detenuto o procedimento (anche se di rilievo per il caso del detenuto), nonostante di provenienza dal difensore[7].

Il diritto di difesa sembra essere stato poi ridimensionato anche rispetto alla corrispondenza. Con la sentenza n. 36041/2019, la Prima Sezione della Cassazione ha rigettato il ricorso del detenuto che lamentava una violazione del diritto di corrispondere con il proprio avvocato[8].

Maggiore continuità con la Corte costituzionale, si rinviene, al contrario, nell’orientamento della Cassazione in materia di accesso alle «ore di aria» all’aperto del recluso al 41-bis: con la sentenza n. 40761/2018, la Cassazione ha infatti stabilito che «la permanenza del detenuto all’aria aperta risponde ad esigenze igienico-sanitarie, mentre lo svolgimento delle attività in comune in ambito detentivo è valorizzata nell’ottica di una tendenziale funzione rieducativa della pena, che non può essere del tutto pretermessa neppure di fronte ai detenuti connotati da allarmante pericolosità sociale, come appunto quelli sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis Ord. Pen.»[9]. Con tale pronuncia si è confermata, quindi, l’interpretazione estensiva portata avanti dalla Magistratura di Sorveglianza di Sassari che ha tentato, sin dalle prime applicazione, di attuare una disciplina sì conforme ed unitaria, ma anche rispettosa della dignità umana della persona ristretta (e, in specie, del diritto alla salute della stessa; così anche: sent. n.  17579/2019)[10].

Sempre sul tema della vivibilità, la Cassazione ha posto fine a quell’interpretazione per cui anche il «mero saluto» tra detenuti al 41-bis possa rappresentare uno strumento per veicolare comunicazione e messaggi potenzialmente pericolosi: così per il «saluto» a carattere neutro e il «»buon appetito» tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (v. sent. n. 35215/2020)[11].

Ad ogni modo, è evidente che il vulnus del 41-bis ord. penit. si coglie maggiormente nel contatto con l’esterno, siano essi familiari, operatori penitenziari, difensori[12] o garanti dei diritti dei detenuti: è noto a tutti quell’orientamento giurisprudenziale teso a sminuire il ruolo di monitoraggio delle condizioni legali di detenzione da parte dei garanti territoriali (v. sent. nn. 11585/2018; 474/2018; 46169/2018); sul punto specifico, è intervenuto anche il Legislatore con il d.l. n. 28/2020 (convertito con modifiche con legge n. 70/2020), rimodulando le prerogative di accesso con i reclusi al 41-bis ord. penit., riconoscendo pieni poteri solo al Garante Nazionale per lo svolgimento di colloqui riservati; monitorati al contrario per i garanti regionali; e, infine, mere ispezioni accompagnate per i garanti comunali. Quest’ultima previsione giunge al termine di una fase concitata, in cui il carcere ed i regimi differenziati vengono visti come simboli di allarme sociale, instabilità e pericolosità sociale; portatori di incertezza di «una pena certa», fissa ed immutabile[13].

  1. Chi sconta il 41-bis oggi? Diamo qualche dato.

Sul 41-bis, diamo anche qualche numero.

Secondo i dati forniti dal Ministro della Giustizia, l’On. Bonafede, il 28 gennaio 2021, nella Relazione «istituzionale» consegnata alle Camere, sono n. 759 i detenuti al regime del 41-bis ord. penit., di cui n. 152 ristretti a L’Aquila, n. 100 a Milano-Opera, n. 91 a Bancali-Sassari, n. 81 a Spoleto. Di questi, solo n. 204 sono condannati definitivi (ciò vuol dire, all’incontrario, che per il 73% sono indagati o imputati o in posizione mista). Solo n. 304 sono stati condannati alla pena dell’ergastolo, residuando quindi un 40% di detenuti condannati a pene temporanee, per posizioni non di vertice (bensì meri partecipi) nell’associazione di stampo mafioso.

Con la Relazione del Ministro della Giustizia, si danno anche delle indicazioni rispetto all’appartenenza di clan mafiosi, con n. 266 affiliati alla Camorra, n. 210 per la ‘Ndrangheta, n. 203 di Cosa Nostra. Non solo. Al 41-bis, n. 43 detenuti appartengono alla criminalità organizzata pugliese, di cui n. 19 alla Sacra Corona Unita; n. 28 sono affiliati ad altre forme di criminalità siciliane; n. 3 lucane. Si registrano n. 3 detenuti per delitti di terrorismo, e n. 3 persone ristrette per altre forme minori di criminalità organizzata. Nel complesso, quindi, ci sono circa n. 80 soggetti che non appartengono agli schemi della mafia «tradizionale».

Tali dati trovano conferma anche nell’ultima Relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, del 2019, che fotografava la situazione sul biennio 2016-2018[14].

Le persone ristrette al 41-bis erano n. 748, di cui n. 10 donne. Ben n. 18 risultavano ricoverati in aree di assistenza sanitaria intensiva (Sai), con Parma con il numero più elevato, n. 9 al Sai e n. 3 in sezioni per persone con disabilità. Si registravano già percentuali alte di indagati ed imputati, circa il 52% dei casi; con n. 363 persone ristrette a titolo definitivo. Residuava inoltre il 0,5% di persone ristrette a titolo di misura di sicurezza, in una casa lavoro (situati a Tolmezzo).

Ciò che desta allarme è invece la durata media del regime: secondo i dati riferiti dalla Commissione straordinaria per i diritti umani, nel 2017 (su n. 730 ristretti al 41-bis), solo n. 174 erano destinatari del decreto ministeriale di prima applicazione; mentre n. 536 erano stati soggetti a decreti reiterati di proroghe. La durata media del regime oscilla tra i dieci ed i venti anni, per il 26% dei ristretti; con una percentuale – seppur minima – di decreti reiterati oltre i venti anni. Ancora. Per tipologia di reato: n. 140 con una posizione di vertice nell’associazione per delinquere; n. 538 a titolo di partecipe; n. 20 a titolo di omicidio aggravato dal vincolo mafioso; n. 3 per terrorismo ai sensi dell’art. 270-bis c.p.; n. 20 per associazione per delinquere in materia di stupefacenti; mentre n. 6 per estorsioni/tentate estorsioni anche aggravate[15].

Una fotografia di dati ed elementi interessantissimi solo ad una prima lettura, e che inoltre non possono non far riflettere, anche perché emergono dei risultati radicalmente diversi da quello che rappresenta da sempre l’immaginario collettivo dei ristretti al 41-bis ord. penit., e che aiutano a comprendere come il regime differenziato si sia evoluto e diversificato nel corso del tempo, rispetto alle volontà originarie e alle primissime applicazioni.

  1. Emergenza sanitaria, carcere e diritti negati.

Durante l’emergenza sanitaria, il regime del 41-bis è diventato oggetto di polemiche mediatiche, per le c.d. «scarcerazioni dei boss», in relazione, in realtà, a pochissimi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, che peraltro non facevano riferimento alla situazione pandemica da Covid-19, ma si basavano su valutazioni discrezionali sì, ma oggettive e documentate, di quadri clinici fortemente, se non irreversibilmente compromessi, che erano quindi oggettivamente incompatibili con la gestione sanitaria dal carcere o da centri clinici specializzati.

A ogni modo, anche per una narrazione non sempre corretta, tali provvedimenti hanno determinato l’introduzione di un aggravamento della disciplina in materia di misure alternative alla detenzione per grave infermità fisica: da una parte, l’implementazione dell’istruttoria per la Magistratura di Sorveglianza, con l’acquisizione di pareri obbligatori da parte delle Procure Distrettuali; dall’altra, termini acceleratori per la rivalutazione del caso, con una cadenza che tendenzialmente agevola anche la revoca della misura alternativa, in precedenza concessa, in favore di soluzioni intramurarie.

Se l’arricchimento dell’istruttoria per il giudice non può che essere letto in termini favorevoli, anche con l’apporto di informative attuali sulla pericolosità sociale del detenuto, è anche vero, che, in questi casi, parliamo di persone gravemente malate, rispetto alle quali non ha più efficacia nemmeno il vincolo della detenzione, proprio perché il detenuto non ha più percezione della propria condizione a causa della gravità dell’infermità fisica da cui è stato colpito. Con ciò, per placare l’insofferenza collettiva, lo Stato ha rinunciato, non solo a offrire un servizio di rieducazione – in primis alla legalità – ma ha manifestato sfiducia sia verso la giurisdizione di prossimità, chiamata in prima battuta a valutare tali casi, sia verso il sistema normativo delle misure alternative alla detenzione da esso stesso ideato, come se fossero proprio le misure alternative il luogo di commissione/agevolazione di reati, e come se l’ordinamento, di fronte a tale possibilità, già non avesse a sua disposizione strumenti per ripristinare la carcerazione (proprio ad opera di valutazioni della Magistratura di Sorveglianza e dalle forze dell’ordine deputate al controllo della misura stessa, nonché dalle Procure Distrettuali Antimafia).

Su questo fronte, la Magistratura di Sorveglianza ha investito la Corte costituzionale, in diverse occasioni: con due ordinanze simili, gli Uffici di Sorveglianza di Avellino e di Spoleto avevano, in prima battuta, segnalato delle carenze normative in punto proprio di esercizio del diritto di difesa (v. parità delle armi e contraddittorio con la Procura), nella misura in cui – nell’iter di rivalutazione con cadenza ravvicinata di soli quindici giorni per la prima volta, e mensile per le successive – il Magistrato di Sorveglianza è chiamato a decidere con un provvedimento interlocutorio, immediatamente esecutivo, senza la presenza del difensore e della parte interessata, unicamente a fronte della documentazione sanitaria, delle indicazioni del Dipartimento e dalle informative di polizia[16].

Nelle more della decisione della Consulta, è intervenuto il Governo, prima con il decreto legge n. 29/2020, e, successivamente con la legge di conversione n. 70/2020. Abrogando, in sostanza, il decreto legge n. 29/2020, trasposto nel testo del decreto legge n. 28/2020, il Legislatore ha ovviato a tale lacuna, in parte, prevedendo la trasmissione degli atti, nonché del provvedimento di revoca, al Tribunale di Sorveglianza competente, che deve decidere entro trenta giorni, pena la perdita di efficacia del provvedimento più restrittivo di ripristino della detenzione. Alla luce del neo-introdotto art. 2 del decreto legge n. 28/2020, come convertito in legge n. 70/2020, la Consulta – forte del precedente in tal senso, come ord. n. 125 del 2018 – ha restituito gli atti alla Magistratura di Sorveglianza per la rivalutazione dell’attualità dell’interesse alla proposizione della questione di legittimità costituzionale[17].

L’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto ha reiterato le questioni di legittimità, ribadendo le contraddizioni di un procedimento come quello introdotto dall’art. 2-bis del decreto legge n. 29/2020, senza precedenti nel panorama dei riti semplificati, in esecuzione e in materia di sorveglianza[18].

L’epilogo è, tuttavia, noto. Con sentenza n. 245/2020, la Consulta ha rigettato le questioni di costituzionalità, asserendo che il novum apportato dal decreto legge n. 29/2020, così come trasposto poi nella legge di conversione n. 70/2020, avrebbe trovato un rimedio nel «contraddittorio differito» dinanzi al Tribunale di Sorveglianza, in tempi stretti, al diritto di partecipazione e di difesa della parte assistita; rientra nella sfera di discrezionalità del Legislatore imporre dei criteri istruttori in sede di valutazione delle misure alternative, laddove riguardino autori di reati di criminalità organizzata e/o di soggetti sottoposti al 41-bis ord. penit. Non si tratta infatti di abbassare qualitativamente gli standard di tutela del diritto alla salute, bensì di arricchire il patrimonio conoscitivo del Magistrato di Sorveglianza «sulla possibilità di opzioni alternative intramurarie o presso i reparti di medicina protetti in grado di tutelare egualmente la salute del condannato, oltre che sulla effettiva pericolosità dello stesso, in modo da consentire al giudice di mantenere sempre aggiornato il delicato bilanciamento sotteso alla misura in essere, alla luce di una situazione epidemiologica in continua evoluzione». L’iter tratteggiato dal Legislatore, quindi, non pare irragionevole, perché rispetto a tali categorie di detenuti comunque «occorrerà tutelare in modo pieno ed effettivo il loro diritto alla salute; ma è evidente che il bilanciamento con le pure essenziali ragioni di tutela della sicurezza collettiva contro il pericolo di ulteriori attività criminose dovrà essere effettuato con speciale scrupolo da parte del giudice, sulla base di una piena conoscenza dei dati di fatto che gli consentano di valutare se, e a quali condizioni, sia possibile il ripristino della detenzione, in modo comunque idoneo alla tutela della loro salute».

Non si ravvisano inoltre interferenze sulla discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza – così come aveva rilevato il Tribunale di Sorveglianza di Sassari – specie, perché non si ritiene che la disciplina introdotta sia di applicazione retroattiva. Secondo la Consulta, quindi, «tale disciplina, tuttavia, non ha a ben guardare effetto retroattivo, applicandosi bensì alle misure extramurarie concesse a partire da una data antecedente all’entrata in vigore del d.l. n. 28 del 2020, ma con effetto esclusivamente pro futuro, imponendo al giudice, da quel momento in poi, un obbligo di periodica rivalutazione delle condizioni che giustificano un provvedimento attualmente in essere, che eccezionalmente consente a condannati il cui percorso rieducativo ancora imporrebbe una permanenza intramuraria di scontare parte della propria pena all’esterno, in ragione della tutela della loro salute in un contesto di emergenza epidemiologica. Né la legge pretende – ciò che le sarebbe evidentemente precluso (sentenza n. 85 del 2013) – di travolgere ipso iure i provvedimenti già adottati, bensì soltanto di imporre al giudice di effettuare ulteriori adempimenti istruttori, suscettibili di sfociare in un distinto provvedimento di revoca; revoca che, peraltro, il giudice non è in alcun modo tenuto ad adottare, come si è avuto modo di osservare, laddove ritenga che la salute del detenuto non sia ragionevolmente tutelabile anche in ambito intramurario, ovvero mediante il suo ricovero in appositi reparti di medicina protetti. Né, ancora, una illegittima interferenza con le prerogative della giurisdizione può essere riscontrata in ragione dell’asserita vanificazione del termine contenuto nell’originario provvedimento di concessione della misura. Tale termine, infatti, non viene affatto travolto dalla disposizione censurata, e potrà continuare ad operare laddove il giudice ritenga, pur in esito alle periodiche rivalutazioni, di non disporre la revoca della misura stessa»[19].

Una sentenza molto prudente e conservativa, che mira a preservare la disciplina emergenziale, come esercizio ragionevole del potere legislativo. Restano, tuttavia, delle criticità in ordine all’esercizio di diritto di difesa, che, per quanto, in parte risolte con l’integrazione apportata con il d.l. n. 29/2020, rimangono attuali rispetto alla fase provvisoria dinanzi al Magistrato di Sorveglianza.

  1. Affettività e diritto ai colloqui nella legislazione d’urgenza.

Questa la fotografia di una vicenda processuale, che ha visto la Magistratura di Sorveglianza e l’Avvocatura allineate su principi e valori costituzionali comuni, segnalando patologie e distorsioni del sistema, senza alcuna pretesa di sostituirsi al Legislatore o di voler individuare delle soluzioni alternative ad una questione, che evidentemente ha una base politica, complessa e storica.

La legislazione d’emergenza, tuttavia, non ha reso solo più complicato l’esercizio del diritto di difesa, ma ha anche esasperato il rapporto con l’esterno, ed in particolare, con i familiari.

Ripercorrendo, infatti, quei mesi concitati, durante la primavera, ai detenuti veniva sospesa la possibilità di effettuare i colloqui visivi con i familiari: solo con il DPCM del 26 aprile 2020, il Governo apriva alla possibilità – eccezionale – di un colloquio mensile per le persone ristrette, con il previo necessario coordinamento tra le Direzioni locali, i Provveditorati e le Autorità sanitarie regionali per l’individuazione del numero massimo di colloqui in presenza e per la predisposizione di misure preventive-organizzative dal punto di vista sanitario. Gradualmente, solo con aprile, e con maggiore costanza in giugno, le carceri riprendevano ad accogliere il flusso di familiari anche in presenza.

Cruciale per il mantenimento dei rapporti con i familiari sono state due diverse soluzioni, fortemente coltivate dall’Amministrazione penitenziaria: da un lato, (i) si sono potenziate le telefonate, rispetto alle quali si è registrata una maggiore flessibilità da parte delle stesse Direzioni locali, che hanno autorizzato le chiamate «straordinarie» in più rispetto a quelle consentite, sia per numero e per modalità e anche sui numeri di cellulare[20].

Dall’altro (ii) si è fatto ampio uso alle tecnologie come la piattaforma Skype for business o quella di Whatsapp: anche in questo caso, si trattano di possibilità che il Dipartimento non aveva mai colto strutturalmente, dato che l’ultima circolare con cui si autorizzavano colloqui visivi – sostitutivi di quelli in presenza – con l’ausilio della tecnologia, di fatto, non era stata attuata su larga scala, anche per la mancanza di risorse adeguate[21]. L’innovazione ha riguardato l’applicabilità di tali disposizioni a tutte le tipologie di detenuti, sia quelli comuni o di media sicurezza, sia quelli in regime ostativo di cui all’art. 4-bis ord. penit.: per i primi, i colloqui visivi si sono svolti con maggiore regolarità, grazie ad un significativo impegno organizzativo da parte delle Direzioni; con maggiore rigidità – stante il limite massimo normativo – per i detenuti con un reato annoverato nell’art. 4-bis ord. penit., per i quali è stata predisposta la possibilità di usufruire di un colloquio a settimana di un’ora ciascuno (per il numero massimo di n. quattro colloqui), a differenza delle modalità visive.

 

5.1. Passi avanti: per il 41-bis? Sugli effetti «bilaterali» della negazione del diritto.

Se, quindi, si è colta con favore l’innovazione apportata dal Dipartimento anche con riguardo ai detenuti in Alta sicurezza, si è da subito criticata, invece, la diversa impostazione di trattamento adottata per i detenuti in regime speciale di detenzione di cui all’art. 41-bis ord. penit.: tale categoria, infatti, è stata totalmente esclusa da qualsiasi deroga alla disciplina dei colloqui telefonici e visivi.

Solamente con la nota del DAP, del 21 marzo 2020, si è precisato che i familiari della persona ristretta al 41-bis ord. penit., in mancanza della possibilità di effettuare il colloquio visivo, avrebbero potuto accedere alla telefonata, che si sarebbe effettuata o presso il comando dei carabinieri o della struttura penitenziaria più vicina al luogo di residenza del familiare, per evitare spostamenti ulteriori.

Il DAP, con ulteriore nota del 27 marzo 2020, ha poi aggiunto che: «la concessione di un ulteriore colloquio telefonico, in aggiunta a quello sostitutivo spettante per i detenuti, sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41-bis, co. 2 ord. penit.» sia da intendersi per il numero massimo di due familiari per colloquio, con esclusione della presenza dei figli minori. L’ulteriore circolare del 12 maggio 2020, che consente il ripristino dei colloqui in presenza, nulla aggiunge circa la disciplina del 41-bis ord. penit.: così anche il decreto legge n. 29 del 2020, ai sensi dell’art. 4, che consente la prosecuzione delle modalità a distanza per i colloqui visivi; né l’art. 2-quienquies del decreto legge n. 28 del 2020, così come convertito dalla legge di conversione, che, pur ampliando la discrezionalità della direzione del carcere, non interviene in materia di 41-bis ord. penit.

Nulla di nulla è stato previsto, perciò, con riguardo al colloquio con il figlio minore e il genitore ristretto al 41-bis ord. penit.: con ordinanza del 9 giugno 2020, il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, su sollecitazione della Procura, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata proprio l’assenza di una previsione – anche provvisoria – che consenta il mantenimento del rapporto genitore-figlio, anche laddove il genitore sia sottoposto al regime speciale di detenzione[22].

Udienza in Consulta è fissata al prossimo 9 marzo, a breve, insomma.

Secondo il Tribunale dei minorenni, l’azzeramento degli interessi del minore, in assoluto, a fronte di interessi contrapposti, di prevenzione e difesa sociale, stride con il più recente orientamento della Corte costituzionale, che sin dalle prime pronunce degli anni ’90, fino alla più vicina, la n. 97/2020, ha indicato al Legislatore, anche in tema di 41-bis, il massimo rigore sul bilanciamento degli interessi antagonistici, se entrambi di rilevanza costituzionale. Con la sent. n. 97/2020, la Consulta ha affermato, infatti, che: «Da questo punto di vista, l’applicazione necessaria e generalizzata del divieto di scambiare oggetti anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, sconta il limite di essere frutto di un bilanciamento condotto ex ante dal legislatore, a prescindere, perciò, da una verifica in concreto dell’esistenza delle ricordate, specifiche, esigenze di sicurezza, e senza possibilità di adattamenti calibrati sulle peculiarità dei singoli casi. È, in definitiva, la previsione ex lege del divieto assoluto a costituire misura sproporzionata, anche sotto questo profilo in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.»[23].

Sulla scia di tale indirizzo, si è allineata anche la Prima Sezione della Cassazione: con un’interpretazione sistematica ed evolutiva, la Cassazione ha ritenuto legittima la concessione di colloqui telefonici – sostitutivi di quelli visivi – con il sistema della video-conferenza, nel caso di due coniugi, entrambi reclusi in regime di 41-bis ord. penit.

In difformità ad un precedente della stessa Sezione, che aveva negato l’accesso a modalità alternative di svolgimento dei colloqui visivi, per l’assenza di una regolamentazione normativa, la Cassazione sembra ora adeguarsi a quell’orientamento che, in determinate circostanze, aveva avallato prassi di autorizzazioni di colloqui visivi, tra coniugi, per il tramite del sistema della videoconferenza[24]. Secondo la Cassazione, infatti, la mancanza di una regolamentazione è da imputarsi all’Amministrazione penitenziaria, e ciò non può ricadere sulle persone interessate, al punto da sopprimere totalmente un diritto soggettivo.

Tale diritto deve essere garantito, secondo la Cassazione, anche per il tramite del sistema della videoconferenza, o con le modalità che l’Amministrazione penitenziaria è chiamata a individuare, soprattutto nei casi di impossibilità oggettiva o di gravissima difficoltà ed onerosità a svolgersi con le modalità ordinarie. La Cassazione, quindi, individua tale possibilità, come possibilità estrema, laddove le altre modalità standard non siano eseguibili: ciò perché nessuna norma dell’ordinamento penitenziario preclude di estendere tali modalità al regime del 41-bis ord. penit., né la norma di legge, né la disciplina emergenziale[25].

 

  1. In attesa della Consulta: la Magistratura di Sorveglianza apre qualche spiraglio.

Ancor più rilevante, la Magistratura di Sorveglianza, che, anche se in relazione a pochissimi casi segnalati, ha autorizzato colloqui a distanza tra familiari e ristretti al 41-bis: è palmare la rilevanza di una pronuncia della Corte costituzionale, proprio per garantire una regola uniforme, per tutti i casi, per garantire una uniformità di trattamento nell’esercizio del diritto all’affettività.

Due sono le pronunce, in esame. La prima dell’Ufficio di Sorveglianza di Roma, del 30 novembre 2020 (dep. il 16 gennaio 2021)[26], che ha rammentato come «in materia di limitazioni all’esercizio di diritti costituzionali della persona, la regolamentazione del diritto dei detenuti sottoposti al regime differenziato ai colloqui con gli stretti familiari non si sottrae al criterio della proporzionalità della misura rispetto al fine». La soppressione totale del diritto al colloquio visivo rappresenta «un grave pregiudizio al diritto del detenuto di coltivare gli affetti familiari più stretti». In altri termini, il colloquio visivo a distanza è diventato «uno strumento avanzato per agevolare il mantenimento delle relazioni tra soggetti distanti nella vita comune e a maggior ragione in carcere e, non essendo espressamente prevista peri detenuti al 41-bis la possibilità di effettuare i colloqui in modalità di video-collegamento». Le richieste dei detenuti in tal senso, perciò, dovrebbero essere valutate in «un’ottica di bilanciamento del diritto a coltivare i propri rapporti affettivi familiari con la finalità di tutela dell’ordine interno e di sicurezza sottesa al regime detentivo speciale».

Secondo il Magistrato di Sorveglianza di Roma, quindi, «il mancato riconoscimento del colloquio in videoconferenza ai detenuti ristretti all’art. 41-bis si reputa una deroga non congrua, e indebitamente afflittiva, rispetto alla ratio delle restrizioni sottese al regime speciale, che ben si prestano ad essere soddisfatte da parte della AP attivando gli strumenti tecnici e le previste garanzie (utilizzo di rete riservata, registrazione della chiamata, vigilanza da remoto, ecc.) funzionali allo scopo»[27].

Così il Tribunale di Sorveglianza di Trieste, con ord. del 13 ottobre 2020 (dep. il 14 ottobre 2020), sottolinea alcuni passaggi fondamentali sull’utilità dello strumento del colloquio visivo a distanza, proprio per soddisfare esigenze di sicurezza. Secondo il Collegio, è la Circolare del DAP del 30 gennaio 2019, che prevede espressamente tutte le indicazioni per agevolare le attività e per predisporre tutti gli interventi necessari per assicurare la garanzia in ordine all’identificazione della persona, con la quale viene effettuato il colloquio ed alla rilevazione di qualsiasi anomalia durante il colloquio stesso.

I colloqui a distanza si svolgono sempre sotto il colloquio visivo del personale della polizia penitenziaria, che da postazione remota può infatti visualizzare le immagini che appaiano sul monitor del computer in corso di utilizzazione; in caso poi di comportamenti non corretti del detenuto o dei familiari, è previsto che il videocollegamento venga interrotto immediatamente, con conseguente preclusione del servizio per occasioni future (così come accade per i colloqui visivi, v. art. 37, co. 4 reg. esec.).

Ancora. Il Tribunale di Sorveglianza di Trieste rammenta che: «la video-chiamata può essere notoriamente registrata attraverso l’applicazione Skype for business o altra equivalente, venendo generato un file temporaneo che, collocato in una cartella presente sul computer utilizzato per la comunicazione, può essere sempre masterizzato e custodito, per essere poi inviato, a richiesta, alla Direzione Distrettuale Antimafia, o ad altra autorità giudiziaria che dovesse avere la necessità di accedere alla comunicazione»[28].

 

 

  1. Il punto: riflessioni di insieme. Quali visioni future?

È proprio la prospettiva segnalata dalla Magistratura di Sorveglianza, in queste ordinanze, come in altre, che dovrebbe far riflettere attentamente.

In tutte le pronunce esaminate, così come nelle richieste avanzate dai difensori, non si discute mai della legittimità o meno del 41-bis, ma in ossequio alla Costituzione e alla giurisprudenza costituzionale, si veglia affinchè la stessa disciplina venga applicata nel rispetto della legge e secondo i canoni della proporzionalità.

Lasciando da parte, per un secondo, per paradosso, i principi dell’umanità della pena, rieducazione e progressione di trattamento, dovrebbe diventare imprescindibile, per qualunque ragionamento (anche quello diretto unidirezionalmente verso la prevenzione e la difesa sociale), una corretta comprensione del canone costituzionale della proporzionalità.

Un canone, che, in realtà, a ben vedere, non si trova nella materia penitenziaria (quanto meno riportata per esteso nella legge sull’ordinamento penitenziario).

Nelle disposizioni della legge n. 354 del 1975, si fa, invece, rinvio al diverso concetto di necessarietà, da intendersi, quale criterio di azione che si traduce nell’obbligo per l’Amministrazione penitenziaria di adottare unicamente solo quelle misure restrittive, che, a parità di efficacia, rechino il «minor sacrificio» possibile ai diritti e alle libertà delle persone sottoposte all’esecuzione della pena detentiva.

La nozione finale di proporzionalità si ricava, quindi, da una valutazione complessiva dei principi sottesi alle disposizioni penitenziarie, che non si limiterebbe al solo principio di necessarietà, proprio perché tale dovrebbe porsi solo come uno degli elementi costitutivi di una valutazione più ampia e complessa.

Si individuano infatti, all’interno di tale operazione concettuale, più passaggi sequenziali dall’idoneità, alla adeguatezza tecnica, dalla necessarietà, appunto, fino alla c.d. proporzionalità in senso stretto.

E allora sulla scia di tale principio guida, perché non inserire le critiche e perplessità di una disciplina, di lontana origine e lunga applicazione, in una riflessione di più ampio respiro con i diretti protagonisti di applicazione della stessa? Perché non ripensare alla normativa, in termini strutturali, con la Magistratura di Sorveglianza e l’Avvocatura, consapevoli che il fine ultimo è quello di restituire un insieme di regole, conformi alla legge e alla Costituzione, risultato di un bilanciamento tra le istanze preventive, da ritenersi prevalenti, e quella della tutela dei soggetti sottoposti alla misura.

Non esiste certo la soluzione, nè esistono soluzioni migliori di altre, che soddisfino a pieno tutti gli interessi in gioco. Ma la presa di coscienza delle criticità, da parte di tutti gli operatori coinvolti, può rappresentare un punto di inizio, in cui sicuramente l’Avvocatura può dare un contributo di rilievo.

Perché, ad es., non pensare di circoscrivere tassativamente i titoli di reato (come si è visto, in precedenza, il regime del 41-bis viene applicato anche a reati-fine strutturalmente diversi da quello associativo per eccellenza), che abbiano strettamente a che fare con i reati associativi di stampo mafioso e di tipo terroristico/eversivo, e con quei reati-fine che siano effettivamente riconducibili al fenomeno associativo: le caratteristiche del processo, dell’iter esecutivo, la struttura del reato, della sanzione e delle conseguenze successive alla condanna sarebbero infatti simili, e più funzionali per una più uniforme gestione dal punto di vista anche del trattamento penitenziario. Sempre in applicazione del principio di proporzionalità.

Perché ancora, non escludere dalla permanenza nel regime tutti quegli autori che abbiano già espiato la pena per intero, o che abbiano espiato la pena per il delitto associativo?

In applicazione del principio di proporzionalità, non solo a monte dal Legislatore, ma anche a valle in sede amministrativa, si dovrebbe pervenire a una selezione più efficace di quei casi per cui la sola detenzione non è sufficientemente idonea al raggiungimento del fine ultimo di prevenzione.

Per questo dovrebbe essere ipotizzato uno schema differente, a seconda della posizione giuridica del destinatario, specie, se il regime è stato reiterato per numerose volte, fino al fine pena o anche oltre, in esecuzione di misure di sicurezza: quale mai potrà essere l’effetto sulla persona e sul contesto sociale di appartenenza di un soggetto che viene scarcerato direttamente dal fine pena dal 41-bis?

Un soggetto alienato e alienante, che passa da un totale isolamento all’ebbrezza delle libertà, portatore altresì di valori e codici più tipici del carcere che della società, e cioè di quell’entroterra che ha lasciato in sé immutato prima della carcerazione, quale unico modello di identificazione personale e sociale.

La differente centralità della posizione giuridica non è questione di poco conto: in fase di indagini preliminari, la pericolosità sociale insita nel provvedimento ministeriale ben si può sovrapporre all’esigenza probatoria di una misura cautelare in carcere: perché non riallineare le disposizioni degli artt. 273 c.p.p. e seguenti con quella dell’art. 41-bis ord. penit.? La ratio dell’art. 41-bis, in questa fase, ha un significato rafforzato anche dallo svolgimento di indagini e dal corso del processo. Perché non pensare che la pericolosità sociale ritenuta sussistente dal giudice delle misure cautelari possa fungere da titolo anche per l’applicazione del 41-bis ord. penit.? E una decisione di segno contrario, possa rappresentare un indice di assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata tali da non richiedere come necessario l’applicazione ministeriale del 41-bis ord. penit.?

Il principio di proporzionalità è il criterio più adeguato per l’individuazione anche delle prescrizioni strettamente necessarie per l’attuazione del fine preventivo: quali di tutte le prescrizioni indicate dal Legislatore si rivelano come assolutamente necessarie per la riduzione o l’eliminazione del pericolo di contatti con l’esterno? Quali potrebbero essere espunte o rimodulate? Quali da mantenere come prevalenti perchè indispensabili al raggiungimento del fine preventivo?

Quale potrebbe essere inoltre la tecnica più idonea per la rimodulazione del contenuto delle singole prescrizioni, individuate come necessarie? Proprio perché, in questa materia, la prescrizione del Legislatore trova diretta applicazione, e contenuto per mano dell’Amministrazione penitenziaria, non sarebbe più opportuno individuare tassativamente il limite massimo di compressione del diritto soggettivo, come regola standard e uniforme di trattamento, oltre il quale l’Amministrazione non è legittimata a muoversi, e al di sotto del quale, solo laddove – nel bilanciamento degli interessi del singolo caso – vi siano elementi tali da consentire una maggiore apertura per la persona ristretta, consentire alla Direzione locale un maggiore individualizzazione dell’applicazione del regime o di alcune prescrizioni, come parte integrante del percorso intramurario.

I rapporti tra Amministrazione penitenziaria, singole Direzioni, e Magistratura di Sorveglianza, in questi casi, sono in costante tensione, dato che il Legislatore non ha individuato delle regole comuni all’interno delle singole prescrizioni, lasciando, in alcuni casi, il potere all’Amministrazione penitenziaria di agire anche in peius, e, in altri, di rendere impossibile qualsiasi valutazione sia positiva o negativa (da parte della singola Direzione) sul singolo caso concreto in gestione. Tutto ciò, ovviamente, a valle comporta la necessità di sottoporre alla Magistratura di Sorveglianza la violazione del diritto soggettivo (sempre post violazione), con buona pace dell’azione preventiva dell’Amministrazione penitenziaria, che si vede disapplicare le proprie determinazioni, e con buona pace dell’uniformità di trattamento dei detenuti sottoposti al regime.

È evidente, quindi, che sia necessaria una riforma strutturale della materia, che non possa prescindere da un ripensamento alle origini della suddivisione dei compiti tra Amministrazione penitenziaria, Direzione penitenziaria locale, e Magistratura di Sorveglianza.

Per fare ciò, risulta dirimente una riflessione corale, senza esclusioni né pregiudizi concettuali, perché la posta in gioco è alta, e i risultati di una auspicabile concertazione potrebbe produrre benefici collettivi, di ampissima portata, sia nella direzione della sicurezza sociale, sia in quella della tutela dei diritti soggettivi, di quegli standard minimi di protezione dei diritti umani, che la Costituzione appresta nei confronti di tutti i soggetti, anche quelli sottoposti al 41-bis.

*Avvocato del Foro di Trento

[1] V. Circolare DAP, 2 ottobre 2017, n. 3676/6126.

[2] V. Corte cost., 26-28 maggio 2010, n. 190, in Giur. cost., 2010, 3, p. 2256 ss.; così: Corte cost., 3-7 giugno 2013, n. 135, ivi, 2013, 3, p. 2073 ss.; Corte cost., 17-20 giugno 2013, n. 143, ivi, p. 2164 ss.

[3] V. Corte cost., 26 settembre-12 ottobre 2018, n. 186, in Giur. cost., 2018, 5, p. 2077 ss.

[4] V. Corte cost., 5-22 maggio 2020, n. 97, in Giur. cost., 2020, 3, p. 1181 ss.

[5] V. Corte cost., 8 febbraio-26 maggio 2017, n. 122, in Foro it., 2018, 12, I, p. 3786 ss.

[6] V. Cass. pen., Sez. I, 6 agosto 2019, n. 35766, in ilpenalista, 2019. A corollario di tale pronuncia, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha accolto il reclamo di un detenuto al 41-bis ord. penit., ristretto a Sassari-Bancali, con cui lamentava una violazione del proprio diritto di informazione, alla luce delle pesanti restrizioni/esclusioni contenute nel Mod. 72, allegato alla Circolare DAP n. 3637/6126: secondo il Collegio, al detenuto è consentito l’accesso anche a riviste e libri non tassativamente previste nel Mod. 72 (da intendersi, quindi, esemplificativo), residuando, invece, una più generale limitazione rispetto alla stampa locale del luogo di provenienza del detenuto (v. Trib. Sorv. Sassari, 21 luglio 2019). Si è chiusa altresì la questione del saluto (della buonanotte) come elemento di infrazione base di provvedimento disciplinare: il solo gesto del saluto o l’espressione della buonanotte, indirizzato ad un altro gruppo di socialità, non è elemento fondante una «conversazione» o «una comunicazione» che può dare origine ad un procedimento disciplinare; così Cass. pen., Sez. I, 16 gennaio 2020, n. 16244, in Diritto&Giustizia, 2020.

[7] Così nella sezione rapporti, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it.

[8] V. Cass. pen., Sez. I, 8 giugno 2018, n. 40761, in Dejure, n. m.

[9] V. Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio 2019, n. 17579, in Guida al diritto, 2019, 21, p. 30 ss.

[10] V. Uff. Sorv. Sassari, 2 ottobre 2015, in Dejure, n. m.; Uff. Sorv. Sassari, 23 settembre 2016, in Dejure, n. m.; Uff. Sorv. Spoleto, 18 aprile 2017, in Dejure, n. m.; Uff. Sorv. Spoleto, 9 maggio 2017, in Dejure, n. m. Orientamento confermato anche dalla Corte di Cassazione, con sent. n. 17579/2019, che è intervenuta a dirimere l’interpretazione della prescrizione, anche alla luce della circolare DAP n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017, che confermava l’orientamento restrittivo delle precedenti circolari.

[11] V. altresì Cass. pen., Sez. I, 10 dicembre 2020, n. 35215, in C.E.D. Cass. 2021.

[12] V. Cass. pen., Sez. I, 14 giugno 2019, n. 36041, in Dejure, n. m. In senso di apertura: Cass. pen., Sez. III, 18 aprile 2019, n. 38609, in Guida al diritto, 2019, 41, p. 34 ss.

[13] Così il neo-introdotto co. 2-quater.1. e seguenti dell’art. 41-bis ord. penit.: «l. Garante nazionale dei diritti delle   persone detenute o private  della  libertà  personale,  quale   meccanismo nazionale di prevenzione (NPM) secondo il Protocollo  opzionale  alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002, ratificato e reso esecutivo ai sensi  della  legge  9  novembre 2012, n. 195,  accede  senza  limitazione  alcuna  all’interno  delle sezioni speciali degli istituti  incontrando  detenuti  ed  internati sottoposti al regime speciale di cui al presente  articolo  e  svolge con essi  colloqui  visivi  riservati  senza  limiti  di  tempo,  non sottoposti  a  controllo  auditivo o a videoregistrazione e non computati ai fini della limitazione dei colloqui personali di cui  al comma 2-quater. 2-quater.2. I garanti regionali dei diritti dei detenuti, comunque denominati, accedono, nell’ambito del territorio di competenza, all’interno delle sezioni speciali degli   istituti   incontrando detenuti ed internati sottoposti al regime speciale di cui al presente articolo e svolgono con essi colloqui visivi esclusivamente videoregistrati, che non sono computati ai fini della limitazione dei colloqui personali di cui al comma 2-quater. 2-quater.3.  I garanti comunali, provinciali   o   delle   aree metropolitane dei diritti dei   detenuti, comunque   denominati, nell’ambito del   territorio   di   propria   competenza, accedono esclusivamente in visita accompagnata agli istituti   ove   sono ristretti i detenuti di cui al presente articolo. Tale visita è consentita solo per verificare le condizioni di vita dei detenuti. Non sono consentiti colloqui visivi con i detenuti sottoposti al regime speciale di cui al presente articolo».

[14] Così nella sezione rapporti, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it.

[15] V. www.senato.it.

[16] V. Uff. Sorv. Avellino, 3 giugno 2020, in Dejure, n. m.; Uff. Sorv. Spoleto, 26 maggio 2020, in Dejure, n. m.; contra, tra le molte: Uff. Sorv. Milano, 19 maggio 2020, inedita; Uff. Sorv. Siena, 12 maggio 2020, inedita.

[17] V. Corte cost., (ord.) 22 luglio 2020, n. 185, in Foro it., 2020, 10, I, p. 2955 ss.

[18] V. Uff. Sorv. Spoleto, 18 agosto 2020, in Dejure, n.m.

[19] V. Corte cost., 4-24 novembre 2020, n. 245, in Diritto&Giustizia, 2020.

[20] Con nota del 12 marzo 2020, il DAP ha autorizzato l’utilizzo del numero di cellulare per le chiamate con i familiari (in automatico, se congiunti o familiari già autorizzati dall’Amministrazione, o previe verifiche, in caso di persone mai autorizzate). Il ricorso al numero di cellulare è stato esteso alle telefonate al difensore: una possibilità prima mai concessa, che ha reso praticabile la continuità della difesa, anche durante l’emergenza sanitaria. Linea seguita anche con la legge di conversione 25 giugno 2020, n. 70, del decreto legge n. 28 del 2020: l’art. 2-quinquies, destinato a incidere in maniera significativa sulla disciplina dei colloqui telefonici prevista ai sensi dell’art. 39 del reg. esec., prevede, infatti, che il numero delle telefonate autorizzate può derogare a quello generale (di n. sei al mese, per i detenuti comuni, e di n. quattro per i detenuti in regime ostativo, di cui all’art. 4-bis ord. penit.), laddove vi siano motivi di urgenza o di particolare rilevanza, o ancora in caso di trasferimento.

[21] Dal cavo Internet, alla linea telefonica, alla strumentazione elettronica, dal personal-computer, al tablet o allo smartphone, di cui si è dotata l’Amministrazione penitenziaria, anche grazie ad una copiosa donazione da parte di una compagnia telefonica.

[22] V. Trib. min. Reggio Calabria, (ord.) 9 aprile-23 giugno 2020, in Arch. pen. web, 3, 2020.

[23] V. Corte cost., 5-22 maggio 2020, n. 97 in Giur. cost., 2020, 3, p. 1181 ss.

[24] V. Cass. pen., Sez. I, 22 marzo 2019, n. 16557, in C.E.D. Cass. 2019. Un orientamento estensivo contrario: Cass. pen., Sez. I, 12 dicembre 2014, n. 7654, in C.E.D. Cass. 2015.

[25] L’art. 4 del decreto legge n. 29 del 2020, così come trasfuso nell’art. 2-quinquies del decreto legge n. 28 del 2020, nel consentire la prosecuzione anche con le modalità a distanza, non preclude infatti espressamente tale opportunità al regime del 41-bis ord. penit.; dove, al contrario, lo ha voluto fare, lo ha chiaramente indicato (come ad es., nell’art. 2-sexies, in materia di colloqui telefonici, in modifica dell’art. 39 del d.P.R. n. 230 del 2000, che esclude l’applicabilità al 41-bis ord. penit.). V. Cass. pen., Sez. I, 22 giugno 2020, n. 23819, in Diritto&Giustizia, 2020; contra: Cass. pen., Sez. I, 22 marzo 2019, n. 16557, in C.E.D. Cass. 2019.

[26] V. Uff. Sorv. Roma, 30 novembre 2020, inedita.

[27] V. Trib. Sorv. Trieste, 13 ottobre 2020, inedita. Così in precedenza: Trib. Sorv. Roma, 16 gennaio 2020, inedita.

[28] V. Trib. Sorv. Trieste, 13 ottobre 2020, inedita.