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“CONFESSO CHE HO PENATO” – DI FRANCO LARENTIS

“CONFESSO CHE HO PENATO” – DI FRANCO LARENTIS

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“CONFESSO CHE HO PENATO”

di Franco Larentis*

Una breve recensione di “Confesso che ho penato”, di Fausto Biagio Giunta. Un condensato di ventitré brevi racconti confessori, accomunati da un insolito punto di vista. A parlare delle loro pene, come fossero persone, sono categorie penalistiche e figure di reato. Sullo sfondo delle ironiche narrazioni sta un “penale” totalizzante, sempre più svincolato dalle garanzie liberali.

Ci accompagna, Professore, quest’anno a “Pitti pena”? Vorremmo tanto visitarla la Mostra monstre del diritto vivente (del diritto fremente, precisò sottovoce la studentessa Prescrizione).

Non è roba per voi, disse il Professore.

No no, siamo grandi ormai da tempo, sappiamo che è tutto un gioco: c’è la camera degli specchi deformanti, la camera degli spaventi per ridere, degli errori sempre fasulli, degli orrori in giudicato. Quest’anno c’è anche la camera anecoica. Professore, sia buono, ci porti.

Non è roba per voi, ripeté il Professore. La camera anecoica poi è rischiosa, il suo silenzio assoluto toglie al visitatore la maschera della personalità e ne mette a nudo l’essenza che non sospetta. La confessione canonica e il lettino di Freud sono giochetti al confronto. Meglio fare come la vostra compagna Massima, certa e fedele come l’Arma. No e ancora no.

Sia buono, Professore, Massima resti a casa, se vuole, ma noi siamo grandi e mature, non esiste rischio che ci possa fermare. Sia buono.

Come volete, si rassegnò il Professore, ma vi impegno a raccontarmi con sincerità quel che la camera anecoica vi dirà.

Il silenzio assoluto della camera avvolse le studentesse, durò insopportabile quel tanto, appena un respiro, da spaesarle: subito ne uscirono i suoni sordi mai prima sentiti dei battiti cardiaci, delle arterie inceppate, dei neuroni sconnessi, i suoni dei pensieri nascosti, dei rimorsi rimossi, degli errori propri ma sempre altrui, i suoni del non voluto, non fatto, non si dica, dell’altrimenti sarebbe una novità peggio un errore.

Più che nude si sentirono le studentesse, irriconoscibili, anzi sconosciute a sé stesse, senza la maschera confortante della personalità. Si precipitarono all’aperto nell’aria salvifica del “Pitti pena”.

Paziente, Fausto Giunta, professore di diritto penale all’Università di Firenze, aspettò che tornassero in sé e chiese loro i racconti.

Ne ebbe i “ventitré brevi racconti confessori” di altrettante “categorie penalistiche e figure di reato”, che ora leggo nel “Confesso che ho penato”[1].

È un vero Moriae Encomium Iustitiae, esempio degno d’Erasmo.

La foto in copertina, della camera anecoica, incuriosisce e invita. La lettura è subito presa da un linguaggio nitido come pochi. Non una parola superflua. I pensieri trovano chiarezza in frasi che di rado superano le venti parole. Più che un esempio, è una sfida (dura), non solo per i giuristi. Orazio vuole che si scrivano solo le parole che siano degne di essere lette (Satira I – X vv. 72-3): il prof. Giunta l’ha fatto.

Senza requie l’epitaffio di Legalità: “alla (mia) vicaria – la cartomanzia – la funzione di garanzia”.

Dalla confessione di Analogia: «Preferisco i puntini di sospensione […]. Dovrebbero essere loro l’ultimo segno di ogni enunciato normativo. […] Non basta vietarmi per farmi fuori. Il giudice mi protegge: sono il suo frutto proibito e mi nasconde sotto falso nome. Mi chiama Interpretazione estensiva».

Dalla confessione di Massima: “Il diritto vivente siamo noi. […] Siamo epitaffi giuridici”.

La Colpa confessa di essere in colpa: “E se c’era tutto, imputavo il troppo.”

E se Amnistia solo “di tanto in tanto riceve la visita di qualche storico del diritto”, la sorella minore Prescrizione – dopo una vita “lungamente trascorsa nel più assoluto riserbo” – subisce invece l’accusa di “favoreggiamento personale […] colpevole di sottrarre i colpevoli alle loro responsabilità”. Con l’ordine di rassegnarsi: “Sappiamo bene che la giustizia non è infinita, ma vogliamo essere noi a scegliere con chi farla finita”.

Del “Cappio d’accusa” il racconto più schietto: “Sono un infido atto di lealtà. La determinatezza non mi si addice, per carità”.

Basta: al lettore (non solo) penalista il piacere degli altri racconti confessori, per stupirsi, divertirsi, penare.

È un breviario di meditazione quotidiana, questo del prof. Giunta, all’insegna dell’allegro ma non troppo, nella scia dei suoi “Ghiribizzi penalistici per colpevoli, ‘malalegalità’, dintorni”[2].

V’è sarcasmo in sottofondo? No. Ironia tenuta a freno? Non sempre. Rispetto della norma che si è fatta parola? Sì. Pena? Quanto basta.

*Avvocato del Foro di Trento

[1] Confesso che ho penato, Mimesis Edizioni, 2022, con la postfazione di G. Insolera.

[2] ETS edizioni, Pisa 2019