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COSTITUZIONE, CARCERE, CORONAVIRUS E “DIRITTO DI DIFESA”. DI RICCARDO POLIDORO

COSTITUZIONE, CARCERE, CORONAVIRUS E “DIRITTO DI DIFESA”. DI RICCARDO POLIDORO


di Riccardo Polidoro*

La Costituzione non sempre ha trovato piena attuazione dalla sua entrata in vigore ed alcuni principi fondamentali sono stati ignorati o comunque applicati in maniera parziale. Le ragioni di tali inadempienze sono da ravvisarsi nella diversità dei valori di cui sono stati portatori i vari partiti che hanno governato l’Italia fino ad oggi.
Nell’attuale, inaspettata e gravissima emergenza sanitaria, il Paese deve ritrovare la sua unità e questo percorso non può prescindere dalla piena attuazione delle norme costituzionali, quale collante sociale che possa effettivamente rassicurare i cittadini per il futuro.
La Costituzione è stata definita da Giovanni Maria Flick un “patto che esprime la pari dignità sociale, l’uguaglianza e la diversità, la solidarietà; un patto di reciprocità fra i diritti e i doveri; un patto di garanzia dei diritti inviolabili dei singoli, in sé e nelle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità. Un patto che guarda al futuro facendo tesoro della memoria del passato; un patto d’inclusione e di partecipazione, non di esclusione e di appartenenze; un vero e proprio manuale di convivenza”**.
A questo “patto”, oggi stanno facendo onore in molti. I medici, gli infermieri, gli amministrativi degli ospedali, i farmacisti, gli addetti alle ambulanze, in prima linea sul fronte sanitario; i produttori, gli autotrasportatori, i negozianti sul fronte degli approvvigionamenti; tutti gli addetti ai servizi pubblici per garantire il minimo necessario perché il Paese possa sopravvivere a quella che ormai è stata definita una pandemia.
In questo clima di solidarietà nazionale, le immagini andate in onda delle violenze in alcune carceri (meno del 10% degli istituti) con detenuti (circa 300 su più di 60.000 presenze) che hanno devastato le strutture con atti vandalici di inaudita violenza, hanno confermato nell’opinione pubblica il giudizio che i detenuti, brutti, sporchi e cattivi, dopo aver violato il patto sociale ed essere stati giustamente condannati, si ribellano ora, nel disperato tentativo di ottenere benefici che possano riportarli in libertà, in uno dei momenti più difficili della storia del Paese.
Immagini tremende, raccapriccianti accompagnate da notizie allarmanti di scontri, aggressioni, fughe, feriti, morti. Giustificare quanto è stato visto è compito impossibile, ma trovare la vera ragione di questo spettacolo indegno di un Paese civile è il compito di chi crede ancora che la Costituzione – il patto sociale che deve unirci – è l’unica strada maestra da seguire.
Il “Diritto di Difesa” è un diritto assoluto, legittimo, non criticabile e spetta a tutti. Non necessariamente deve mirare all’assoluzione, ma contribuisce in maniera determinante al “giusto processo” mentale, di chi vuole giudicare o solo valutare una condotta, il comportamento di altri.
Partire dal contesto e dai luoghi dove i fatti sono avvenuti è il primo passo da compiere. Circa un mese fa, per il pericolo di diffusione del Covid-19, sono state raccomandate ai cittadini precauzioni al fine di evitare il contagio. Con il passare dei giorni si è passati dal “lavarsi spesso e bene le mani”, a “mantenere la distanza di almeno un metro dagli altri” e, infine (speriamo), a “non uscire di casa se non per ragioni di urgenza”. Non seguire tali consigli, poi diventati veri e propri ordini, avrebbe comportato il concreto pericolo di contrarre il virus, con conseguenze probabilmente mortali.
Questo è il messaggio che costantemente, tutti i giorni, i programmi televisivi e radiofonici hanno trasmesso, annunciando, di ora in ora, la sospensione di qualsiasi attività, che potesse presupporre un sovraffollamento anche di poche persone. Chiusura delle scuole e delle università, sospensione delle udienze nei tribunali, manifestazioni sportive e culturali rinviate, zone rosse regionali, poi estese a tutto il territorio nazionale.
Il terrore ha travolto qualsiasi regola di buon senso ed i cittadini hanno dato sfogo al loro istinto di sopravvivenza, con comportamenti illogici, irrazionali e pericolosi. Folle ai supermercati per accaparrarsi il cibo, assalto ai treni per fuggire dalle zone ritenute infette e vicine alla chiusura totale. Una condotta incivile, dettata dal radicato egoismo dell’uomo.
E i cittadini ristretti nelle carceri?
Nel guardare la televisione, nel sentire la radio nelle loro anguste celle, dove nella maggior parte dei casi la distanza tra persone è certamente inferiore al metro e dove l’igiene è una chimera, tra mura scrostate, inumidite e wc a vista, si sono chiesti: e di noi non si parla? Nemmeno una parola! Non si rendono conto che qui vi è un enorme pericolo di contagio e che è necessario intervenire immediatamente con presidi sanitari per salvaguardare la nostra vita e quella di coloro che lavorano negli istituti di pena? E cosa sta accadendo alle nostre famiglie, alle mogli ai figli, ai fratelli e sorelle?
Giorno dopo giorno, l’attesa per un minimo di prevenzione e di informazione istituzionale, si è fatta sempre più stressante, fino al momento in cui sono stati resi pubblici i provvedimenti del Governo, senza alcun preavviso e senza conoscerne la durata: sospensione immediata dei colloqui con i familiari, con gli avvocati e con i volontari, interruzione di ogni attività (invero pochissime) scolastica e trattamentale, revoca dei permessi premio per evitare che il detenuto una volta uscito faccia rientro in carcere. In poche parole, la permanenza fissa in cella senza alcun contatto con l’esterno, ma anche con coloro che nel carcere vi lavorano.
Una blindatura totale ovvero una pre-sepoltura.
Nei circa 200 istituti di pena è montata la preoccupazione e la disperazione di chi, ancora una volta ed invero da sempre, non si è sentito tutelato dallo Stato. Di chi ha trasgredito probabilmente le regole civili, ma sta comunque pagando il suo debito. Sul punto è bene ricordare che circa il 40% dei detenuti non ha ancora una condanna definitiva (quindi è presunto innocente) e che vi sono stati circa 1.000 risarcimenti per ingiusta detenzione nell’ultimo anno riportato dalle statistiche, il 2018. Tre al giorno! Una cifra enorme, se si tiene conto che, in tale calcolo, non sono inseriti coloro che il risarcimento non l’hanno chiesto.
Come tutelarsi? Come far sentire con urgenza l’angoscia, il timore, di una comunità abbandonata in un momento di estremo pericolo?
La strada della violenza, quella conosciuta dai più, è stata la scelta di quei pochi che non ce l’hanno fatta a contenere la rabbia. In alcuni istituti vi sono state gravi devastazioni, vere e proprie guerriglie tra detenuti e forze dell’Ordine, con feriti e 12 detenuti morti “per overdose”, dopo l’assalto ai locali farmacia del carcere. Sarà la magistratura a fare luce su questi decessi, ma se il dato fosse vero – per quanto inverosimile – manifesta la disperazione di queste persone che, all’apice della protesta, ingurgitano farmaci perché in crisi di astinenza ovvero per porre fine ad un’esistenza straziante.
Il giudizio sulle rivolte di questi giorni, nelle quali pochi detenuti si sono resi protagonisti d’intollerabili atti di violenza, non può prescindere dalla violazione quotidiana da parte dello Stato dei principi costituzionali e delle norme dell’Ordinamento Penitenziario, che ha come conseguenza diretta il numero di morti che affliggono il sistema penitenziario: al 5 marzo di quest’anno (senza effetto covid-19): 20 decessi, tra cui 9 suicidi: un morto ogni tre giorni. Né può prescindere dalla circostanza che, in un momento di grave emergenza sanitaria del Paese, il Ministro della Giustizia ed il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non hanno informato i diretti interessati e la stessa opinione pubblica dei provvedimenti che si sarebbero adottati nei confronti di oltre 60.000 cittadini ristretti, già in precarie condizioni igienico-sanitarie.
Né la valutazione complessiva può ignorare, come è stato fatto, che nonostante tutto, gli atti gravissimi di violenza sono stati perpetrati da un numero insignificante di persone, le cui iniziative non possono ricadere sugli altri che, in silenzio ovvero con proteste pacifiche, stanno attendendo di conoscere quale sarà la loro sorte.
Né va ignorato che solo dopo le ribellioni i media hanno dedicato un minimo spazio anche alle enormi problematiche da affrontare per coloro che sono in stato di detenzione e, finalmente, l’Amministrazione Penitenziaria ha annunciato l’arrivo di mascherine e presidi sanitari, nonché la possibilità di regolamentare i colloqui visivi, ammettendo che quelli a mezzo Skype sostitutivi, in realtà possono riguardare pochissimi istituti già attrezzati e comunque non potrebbero far fronte alle richieste di un numero così elevato di detenuti.
Vale la pena di ricordare che, in questi terribili giorni di paura e di angoscia, non vi sono stati solo atti di violenza, ma anche testimonianze di grande senso di responsabilità. Tra queste la lettera scritta dai detenuti della media-sicurezza del carcere di Livorno, che è stata diffusa dalla Direzione dell’istituto. In essa si legge: “Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo d’intolleranza. In realtà anche se per adesso siamo tutti prigionieri, alcuni in cella con grate, alcuni senza, siamo convinti che si tratti di un fenomeno non irreversibile, siamo convinti che l’angoscia che oggi ci attanaglia sia destinata a spegnersi….pensiamo dunque che l’unico possibile antivirus contro questo temporaneo malessere sia dato dalla forza dell’umanità, della bellezza, della solidarietà, del rispetto reciproco, dell’unione anche dietro le sbarre….tutto questo darà forse l’input ai buoni per sentirsi tutt’uno con i cattivi, una volta realizzato che dall’altra parte della barricata ci sono padri, mariti, figli, fratelli che aspettano, soffrono, amano, sperano proprio come voi”.
Una lezione di diritto costituzionale che giunge da un mondo dimenticato, ma che fa riferimento proprio a quel “manuale di convivenza” che non dovremo mai ignorare, ma ricordare sempre, soprattutto nei momenti di difficoltà del Paese.
Approfittiamo di questa emergenza per rileggere i principi che regolano il “patto sociale” del 1948, apprezziamone l’alto contenuto e comprenderemo che la sana convivenza civile non può prescindere dal rispetto dei diritti dei detenuti, che pur perdendo la libertà, vanno comunque tutelati e accompagnati ad un immediato inserimento sociale.

*Responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane

**“La Costituzione: un manuale di convivenza” di Giovanni Maria Flick