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DAL DECRETO-LEGGE ‘SICUREZZA-BIS’ A QUELLO ‘RISTORI’: ERRARE HUMANUM EST, PERSEVERARE AUTEM DIABOLICUM – DI CARMELO MINNELLA

DAL DECRETO-LEGGE ‘SICUREZZA-BIS’ A QUELLO ‘RISTORI’: ERRARE HUMANUM EST, PERSEVERARE AUTEM DIABOLICUM – DI CARMELO MINNELLA

MINNELLA – DAL DECRETO LEGGE SICUREZZA BIS A QUELLO RISTORI: ERRARE HUMANUM EST, PERSEVERARE AUTEM DIABOLICUM

di Carmelo Minnella*

Con il decreto legge 21 ottobre 2020, n. 130, il governo si è premurato di introdurre una fattispecie incriminatrice di nuovo conio che punisce chi introduce (e riceve) telefoni in carcere, oltre che aggravare le pene per chi consente al detenuto in 41-bis di comunicare oltre i confini legislativamente tracciati. Dopo pochi giorni, con il decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, dietro la falsa etichetta di “svuota carceri”, mentre vengono introdotte misure per la rapida fuoriuscita dei detenuti dal circuito carcerario, al contempo si inseriscono tante ipotesi derogatorie che diventano, queste ultime sì, la ‘regola normativa ordinaria’. Una disamina dei due decreti.

1.Il decreto legge sicurezza-bis e la punibilità della comunicazione carceraria contra legem. 2. Aggravamento delle pene per chi consente al detenuto in 41-bis il passaggio di comunicazioni all’esterno del carcere. 3. Punita penalmente l’introduzione o la detenzione di dispositivi mobile in carcere: l’annosa quaestio del ne bis in idem. 4. Applicare correttamente la giurisprudenza EDU sul ne bis in idem. 5. Valorizzazione e proroga del mandato del Garante nazionale dei detenuti. 6. Il decreto legge ‘ristori’ e misure per contenere il rischio di diffusione del covid-19 nelle carceri. 7. Il dettaglio delle ‘briciole’ svuota carceri. 8. La ‘ciliegina sulla torta’: niente scioglimento del cumulo per accedere ai permessi e all’esecuzione domiciliare. 9. Contribuire a dipingere il volto costituzionale della pena.

Con il decreto legge 21 ottobre 2020, n. 130, il governo si è premurato di punire coloro che introducono e ricevono telefoni in carcere, oltre che aggravare le pene per chi consente al detenuto in 41-bis di comunicare contra legem.

Tali scelte di criminalizzazione non sono condivisibili perché non affrontano ‘a monte’ le forme di comunicazioni dei detenuti con i familiari e col mondo esterno. Si riproporrà amplius l’annosa quaestio del ne bis in idem (in caso di doppio binario per l’inflizione per lo stesso fatto di una sanzione disciplinare al detenuto e di una sanzione penale). Questione troppo frettolosamente finora risolta dalla Suprema Corte, in contrasto con lo spirito e le linee ermeneutiche della CEDU, come delineate dalle pronunce della Corte di Strasburgo.

Mentre si ci preoccupava di punire, con la consueta legislazione d’urgenza, i tentativi di fare entrare negli istituti penitenziari dispositivi mobili di comunicazione, è stato purtroppo il coronavirus a varcare le soglie delle carceri italiane, con numeri che destano comprensibile allarmismo.

La risposta del ‘nuovo’ legislatore ordinario (visto che ormai si legifera a colpi di decreti legge) mal cela la preoccupazione governativa di salvaguardare comunque, anche in questa seconda ondata di emergenza sanitaria, le sbandierate esigenze di sicurezza pubblica. Dietro la falsa etichetta di “svuota carceri”, il decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, infatti, appena introdotte misure per la rapida fuoriuscita dei detenuti dal circuito carcerario (in verità, l’unica misura ‘sulla carta’ svuota carceri è l’esecuzione domiciliare), si premura di condirle di tanti sbarramenti, alcuni in aperto contrasto con la Costituzione.

Mentre si pensa a punire il fenomeno dell’ingresso in carcere dei cellulari (con tutte le riserve critiche, di metodo e di contenuto: ‘errare humanum est’), ad entrare pericolosamente dentro le carceri è il covid-19. Appare intollerabile riproporre le stesse identiche misure del c.d. Cura Italia (unanimemente ritenute, a voler essere buoni, ‘insufficienti’), con un mero ‘copia e incolla’ (salve diaboliche modifiche in sfavor detenuto, in antitesi con lo spirito che dovrebbe animare una ‘svuota carceri’): perseverare autem diabolicum!

  1. Il decreto legge sicurezza-bis e la punibilità della comunicazione carceraria contra legem.

Approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 5 ottobre, il decreto legge 21 ottobre 2020, n. 130 (c.d. decreto sicurezza-bis), all’interno dell’ampio contenitore della ‘sicurezza’[1], ha inserito alcune disposizioni riguardanti l’ordinamento penitenziario. Alcune hanno l’obiettivo di rendere più efficace l’esercizio delle attività del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; in altre si stabilisce un rafforzamento delle pene applicate in caso di comunicazioni dei detenuti sottoposti al regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit.; si prevede inoltre una nuova fattispecie di reato che sanziona chi introduce o detiene all’interno di istituti penitenziari telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione.

Prima di addentrarci nel cuore delle nuove interpolazioni normative, una questione di metodo. L’esigenza di punire in via d’urgenza con la massima sanzione, quella penale, vengono giustificate dal legislatore, nella relazione introduttiva il decreto, con il notevole numero di telefoni cellulari che si è tentato di introdurre all’interno delle carceri italiane[2].

Più precisamente, facendo ricorso ai dati criminologici, una volta assistito ad un esponenziale aumento del numero di casi di tentativi di introdurre dentro le mura carcerarie apparecchi di comunicazione, il legislatore arriva alla conclusione che vi è un bisogno della risposta penale (ritenendo insufficienti, alla luce del principio di sussidiarietà, le altre sanzioni extrapenali) per tutelare il bene giuridico della sicurezza interna degli istituti di pena e della corretta comunicazione nel perimetro penitenziario.

A parte l’abuso della decretazione d’urgenza che raccoglie in un unico decreto legge ambiti e settori di intervento profondamente distinti tra loro, per dirla con le parole di chi opera sul campo, «se non si affrontano più radicalmente le forme della comunicazione dei detenuti con i familiari e il mondo esterno, garantendola nella legalità, la sanzione penale è una minaccia vuota e che avrà solo effetti controproducenti»[3].

Il legislatore dovrebbe entrare prima, più a fondo, e soprattutto risolvere le problematiche legate al diritto di comunicazione de detenuti; e non invece ‘colmare’ le sue stesse lacune con la scorciatoia dell’inasprimento delle pene delle ipotesi di reato esistenti in materia e con l’introduzione di nuove. Comprendo che attraverso l’uso (rectius, l’abuso) del diritto penale si sazia la fame della collettività, rassicurata, anche a livello della comunicazione mediatica: ‘cittadini state tranquilli che il legislatore, soprattutto quello d’urgenza, è sempre vigile e pronto ad intervenire sui fenomeni che possono destare un pubblic panic’. Invece, se lo Stato non affronta seriamente l’emergenza carceri (mai superata da quanto la Corte di Strasburgo ha scoperchiato il vaso di pandora nella sentenza Torregiani dell’8 gennaio 2013) con la possibilità di garantire il corretto dispiegamento dei diritti fondamentali dei detenuti (tra cui, per l’appunto, quello di comunicazione), la sanzione penale non avrà alcun effetto deterrente, di prevenzione generale e non possiederà nessuna controspinta criminosa in capo all’agente.

  1. Aggravamento delle pene per chi consente al detenuto in 41-bis il passaggio di comunicazioni all’esterno del carcere.

Il decreto legge n. 130 del 2020 inasprisce il trattamento sanzionatorio per i responsabili del delitto ex art. 391-bis c.p., introdotto dalla legge n. 94 del 2009, che punisce chi favorisce i detenuti sottoposti al regime del 41-bis.

Sono adesso previste pene più severe per chi agevola il detenuto in carcere duro, facendo passare all’esterno comunicazioni oltre il perimetro consentito dalla legge. Si aumenta sia il tetto mimino che quello massimo: si passa da uno a quattro anni di reclusione a da due a sei anni. Nelle ipotesi aggravate – se il reato è commesso da un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o da chi esercita la professione forense – la cornice edittale, prima da due a cinque anni di reclusione, adesso sarà da tre a sette anni.

Viene ampliato l’ombrello dei soggetti attivi del reato in quanto si estende la punibilità e le relative pene «anche al detenuto sottoposto alle restrizioni di cui all’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 il quale comunica con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte».

Doverosa, anche qui, una premessa. La normalizzazione del c.d. carcere duro sembra avere spazzato via le voci insistenti dell’evidente contrasto del regime differenziato con la Costituzione e la CEDU. Non è così: «il 41-bis è il più stridente punto di rottura dei principi costituzionali e convenzionali che governano e delineano il senso della pena. Si contrappone con forza ad ogni aspetto del vivere umano: affettività, territorialità, segretezza della corrispondenza, diritto allo studio ed alla libera informazione, diritto al lavoro, alla socialità. Perfino il diritto alla parola. È sospeso, a norma di legge, il trattamento intramurario ordinario e quello residuo, di rieducativo, ha ben poco»[4].

Quando il legislatore mostra i muscoli, sostenendo che la Corte costituzionale e la Corte EDU ne hanno consacrato la sua legittimità, rimane, ancora una volta, in superficie e dimentica che, proprio in tema di comunicazione, sono arrivate dai giudici delle leggi e di quelli di Strasburgo, anche di recente, pronunce che vanno in direzione opposta a quella odierna intrapresa dal Governo.

La Corte Costituzionale, infatti, in più occasioni ha ritenuto vessatorie alcune prescrizioni del regime di massimo rigore. L’ultima in ordine di tempo, la sentenza n. 97 del 2020[5] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ord. penit., nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità»[6], sottolineandone il carattere inutilmente e meramente afflittivo della misura[7].

La Corte EDU, dal canto suo, ha ribadito che, laddove le misure previste e/o adottate impediscono de facto qualsiasi contatto del detenuto col mondo esterno (fatta eccezione per i suoi difensori), queste non possono essere considerate necessarie e proporzionate nel contesto di una società democratica[8].

Pure la Suprema Corte ha respinto qualunque tentativo, portato aventi da certa magistratura di sorveglianza di merito, di ridurre il quantum dei colloqui con i familiari in caso di incontri con i Garanti locali dei diritti dei detenuti, non potendo incidere su quello (unico mensile) con familiari e conviventi[9].

Si ribadisce la questione di metodo: anziché prendere atto che ci sono alcuni aspetti della comunicazione carceraria, anche per i detenuti in 41-bis, che non funzionano – al punto di essere dichiarate in contrasto con la carta costituzionale e che, laddove si limitano al massimo le comunicazioni, sconfinano verso una pena disumana e degradante, in aperto contrasto con la Costituzione e la CEDU – il legislatore d’urgenza si preoccupa di inasprire il trattamento sanzionatorio di alcune condotte meritevoli di sanzione penale. Se non si risolvono, a monte, i deficit del diritto al rispetto della vita familiare e della comunicazione del detenuto, si rivela inutile l’apportato inasprimento sanzionatorio.

  1. Punita penalmente l’introduzione o la detenzione di dispositivi mobile in carcere: l’annosa quaestio del ne bis in idem.

L’art. 9 del decreto legge n. 130 del 2020 introduce nel codice penale l’art. 391-ter per contrastare l’introduzione e l’utilizzo di dispositivi di comunicazione in carcere. Il reato di nuovo conio, rubricato ‘accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti’, prevede che, fuori  dagli appena citati casi previsti dall’articolo 391-bis c.p., «chiunque indebitamente procura  a  un detenuto un apparecchio telefonico  o  altro  dispositivo  idoneo  ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso  indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto  penitenziario  uno dei predetti strumenti al fine renderlo  disponibile  a  una  persona detenuta è punito con la pena della  reclusione  da  uno  a  quattro anni». Pena aumentata da due a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense. La punibilità viene estesa anche qui ai detenuti che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni.

Il legislatore d’urgenza, come si legge nella relazione illustrativa al decreto legge sicurezza-bis, ha così ritenuto di punire non più (solo) con la sanzione disciplinare tali condotte, facendo ricorso all’opera dissuasiva e di prevenzione generale della pena. Si ribadisce tuttavia che occorre primariamente affrontare le forme della comunicazione dei detenuti con i familiari e il mondo esterno, altrimenti la sanzione penale non arresterà il dilagare del fenomeno.

La novella riproporrà l’annosa quaestio se integri o meno la violazione del principio del ne bi in idem l’irrogazione al detenuto per il medesimo fatto della sanzione disciplinare penitenziaria equiparabile a quella penale. Questione per approfondire la quale occorre alzare lo sguardo alle norme della CEDU e al prezioso contributo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Il ne bis in idem era stato precisamente delineato, con la sentenza del 10 febbraio 2009, n. 14939, Zolotouikhine contro Russia, come divieto del perseguimento (o del giudizio) di una persona per una seconda volta per un reato che ha ad oggetto i medesimi fatti o fatti che siano “sostanzialmente” gli stessi di quelli per i quali è già stato giudicato. Dopo tale decisione – riferita precipuamente alla definizione di “stesso fatto” ai sensi dell’art. 4, del Protocollo n. 7, CEDU – era seguita, tra le altre e con particolare riferimento all’ordinamento italiano, la sentenza del 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, in base alla quale se la sanzione qualificata come amministrativa sul piano interno è di una severità tale da essere equiparabile ad una penale.

Muovendosi su tali binari, qualche pronuncia di merito, in un caso in cui un detenuto distruggeva uno sgabello ed uno scrittoio a muro presenti nella cella occupata, ha dichiarato non doversi procedere per bis in idem, avendo subito l’imputato, all’esito di un procedimento definitivo, una condanna per il medesimo fatto ad una sanzione disciplinare (quest’ultima qualificata come disciplinare nel nostro ordinamento, ma da ritenersi matière pénale, ai sensi degli artt. 6 CEDU e 4 del Protocollo 7 della CEDU)[10].

Il cambiamento di rotta nella giurisprudenza interna, con conseguente possibilità di ammettere l’inflizione della doppia sanzione (disciplinare e penale) per lo stesso fatto, si appoggia alla decisione della Grande Cambre del 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia[11], che ha ridotto l’ambito operativo del divieto di ne bis in idem, come risultante dall’interpretazione della stessa Corte. Si è così ammesso il bis in idem, ma solo ove sussista una stretta connessione tra i due procedimenti, sia dal punto di vista della loro contemporaneità sia dal punto di vista dei fatti presi in considerazione.

La Suprema Corte, approfittando del nuovo approdo della Corte EDU (letto erroneamente come un revirement), si è subito premurata, dopo appena un mese dalla sentenza europea, di escludere la violazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. – così come interpretato dalla rilevante giurisprudenza della Corte di Strasburgo – sempre in un caso di danneggiamento per rottura del vetro di una finestra della casa circondariale in cui era ristretto, nel quale al detenuto era già stata inflitta una sanzione disciplinare[12].

Ponendosi in tale direzione, pure la successiva e recente giurisprudenza di legittimità ammette la possibilità di cumulare le due sanzioni, oltre che nel danneggiamento[13], anche nel caso di resistenza al pubblico ufficiale[14] od oltraggio a pubblico ufficiale[15], commesse dal detenuto ai danni degli agenti di polizia penitenziaria, consentendo l’esercizio dell’azione penale (nonostante la sanzione disciplinare assuma chiaramente, alla stregua dei criteria Engel, i crismi di una sanzione afflittiva e punitiva).

Volendo soffermarsi su qualche aspetto critico, si nutrono anzitutto forti dubbi sulla qualificazione di “diritto consolidato” della giurisprudenza di Strasburgo, immediatamente dopo il cambiamento di rotta del 2016 con la sentenza A. e B. contro Norvegia. Sarebbe stato più corretto, vista l’assenza di una sentenza-pilota o di un leading case, aspettare successive altre pronunce della Corte EDU; che, in effetti (come vedremo infra), si sono poste in tale solco ermeneutico, delineandone però in modo restrittivo i contorni applicativi derogatori rispetto al suo precedente orientamento di divieto assoluto di ne bis in idem.

In ogni caso, occorre uno stretto legame materiale e temporale «sufficiently close connection in substance and time»), tale da dimostrare la configurazione di una «sanzione penale integrata», nascente dalla congiunzione dei risultati sanzionatori di procedure complementari. Più precisamente, devono sussistere, alla luce del rivisto orientamento, alcune condizioni per la coesistenza della due sanzioni, analiticamente indicate dalla Corte EDU: (i) i diversi procedimenti perseguono finalità complementari e quindi riguardano, non solo in astratto ma anche in concreto, diversi aspetti dell’atto pregiudizievole per la collettività; (ii) la natura duplice del procedimento in questione è una conseguenza prevedibile, sia in diritto che di fatto, del medesimo comportamento illecito; (iii) il procedimento in questione sia stato condotto in modo da evitare, per quanto possibile, la ripetizione della raccolta e della valutazione delle prove, in particolare attraverso un’adeguata interazione tra le varie autorità competenti, da cui risulti che l’accertamento dei fatti effettuato in un procedimento si è ripetuto nell’altro; (iv) la sanzione comminata nel procedimento conclusosi per primo è stata presa in considerazione nel procedimento conclusosi per ultimo, in modo da non gravare l’interessato di una sanzione nel complesso troppo gravosa.

Deve trattarsi in ogni caso di una ‘sanzione penale integrata’ che non deve violare il principio di proporzionalità. Restando sempre all’interno dei binari dell’orientamento convenzionale, al fine di rispettare il principio di proporzionalità della pena (complessivamente intesa) al fatto commesso dall’imputato sarà necessario che, nell’irrogazione della stessa, i giudici tengano conto della sanzione disciplinare già inflitta allo stesso imputato, pena altrimenti la violazione del divieto di ne bis in idem come interpretato innovativamente dalla Corte EDU.

  1. Applicare correttamente la giurisprudenza EDU sul ne bis in idem.

Ci aveva visto lungo il giudice della Corte EDU Pinto de Albuquerque che, nella lunga ed articolata dissenting opinion alla sentenza A. e B. contro Norvegia, dopo aver denunciato la vaghezza e l’arbitrarietà del concetto di sufficiently close connection in substance and in time, ha sostenuto come la decisione della Grande Camera apra le porte «to an unprecedented, Leviathan-like punitive policy based on multiple State-pursued proceedings, strategically connected and put in place in order to achieve the maximum possible repressive effect»[16].

Nei casi finora sottoposti alla Suprema Corte sembra che proprio quella lamentata vaghezza si sia prestata ad una interpretazione “di comodo” dei giudici interni i quali, pur formalmente utilizzando i criteri forniti dalla Grande Chambre, li abbiano in realtà adattati alle specificità dell’ordinamento interno, al fine di giustificare un sistema sanzionatorio che appare poco compatibile con il principio del ne bis in idem, così come affermato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 Cedu.

Non convince la statuizione della giurisprudenza di legittimità secondo cui la sanzione penale e quella disciplinare si distinguerebbero per le diverse finalità cui mirano: dopo aver affermato la natura “sostanzialmente penale” della sanzione ex art. 39 ord. penit., riesce difficile sostenere che la sanzione de qua non assuma anche una funzione generalpreventiva e specialpreventiva. All’opposto, la sanzione disciplinare comporta, nel proseguo dell’esecuzione della pena, gravi conseguenze, a cascata, sull’eventuale sbarramento alle misure alternative (in primis quelle intramurarie come la liberazione anticipazione, e di conseguenza, quelle che comportano finestre di libertà più ampie).

Non si comprende soprattutto come la Corte di Cassazione possa ritenere integrato il criterio cronologico, accontentandosi del mero dato di fatto che i due procedimenti sono “temporalmente contigui”, laddove, come sempre accade, il procedimento disciplinare si conclude subito, dopo pochi giorni, mentre il procedimento penale si concluda a distanza di anni!

In tale prospettiva appare arduo continuare a parlare di “sanzione penale integrata”, invece che di vera e propria duplice sanzione dell’idem factum.

Non solo, ma se si volge uno sguardo alla giurisprudenza europea post 2016, al fine di verificare come essa venga applicata dalla stessa Corte EDU, si evince che da un divieto ‘assoluto’ di ne bis in idem nel caso di due procedimenti riguardanti gli stessi fatti (consacrato nel 2014 dalla Grande Stevens), si è passati ad un divieto ‘relativo’ superabile solo dove sussistono rigorosi presupposti. Quindi più di un revirement, si è trattato di un ‘ammorbidimento’ del precedente orientamento che lascia inalterato il rapporto regola (ne bis in idem)-eccezione.

Nella sentenza della Prima Sezione del 18 maggio 2017, la Corte di Strasburgo indica agli interpreti i limiti entro i quali va ricondotto il criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”, ritenendo nel caso di specie, i giudici europei non soddisfatto il test della sufficiently close connection.

In primo luogo, la Corte europea ha rilevato una duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove: l’autorità di polizia aveva infatti condotto una propria indagine indipendente, pur avendo ricevuto copia dei rapporti investigativi dell’amministrazione finanziari. A giudizio della Corte, quindi, «the applicants’ conduct and their liability under the different provisions of tax and criminal law were thus examined by different authorities and courts in proceedings that were largely independent of each other» (§ 53)[17].

Secondariamente, la Corte ha constatato che non fosse sussistente il requisito della connessione temporale, in quanto i due procedimenti in effetti si erano svolti in parallelo soltanto per un breve periodo, di poco più di un anno, mentre il procedimento penale era proseguito per diversi anni dopo la definizione di quello tributario (§ 54). Nel suo complesso la durata dei due procedimenti (dall’inizio dell’indagine tributaria fino alla decisione della Suprema Corte nel processo penale) si era prolungata, senza alcuna colpa dei ricorrenti, per oltre nove anni.

Sulla stessa lunghezza d’onda, si segnala altra recente sentenza della Corte EDU[18] che, ancora una volta, ha applicato in maniera rigorosa e non estensiva (a differenza di quanto sembra compiere la giurisdizione italiana), gli elementi rilevanti per determinare se esiste una connessione sufficientemente stretta dal punto di vista materiale, giungendo anche in questo caso a rilevare la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, ritenendo non rispettati alcuni dei suddetti criteri.

In definitiva, «perché la CEDU ed i princìpi ivi contenuti possano trovare una piena attuazione nell’ordinamento domestico, occorre che i giudici interni non si limitino ad un formale rispetto delle indicazioni della giurisprudenza europea in un’ottica troppo spesso “conservativa”, dovendo sempre rammentare anche, e soprattutto, lo spirito che anima la Convenzione. Solo così si può scongiurare il rischio che le parole del giudice Pinto de Albuquerque diventino tristemente profetiche»[19].

  1. Valorizzazione e proroga del mandato del Garante nazionale dei detenuti.

L’art. 13 del decreto legge n. 130 del 2020, oltre a prorogare la carica di due anni oltre la scadenza naturale del Garante nazionale dei detenuti, prevede che quest’ultimo opera quale meccanismo nazionale di prevenzione ai  sensi dell’articolo 3 del  Protocollo  opzionale  alla  Convenzione  contro tortura e altre pene o trattamenti  crudeli,  inumani  o  degradanti, adottato il 18   dicembre   2002 con  Risoluzione A/RES/57/199 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e ratificato con legge  n. 195 del 2012.

Visto il particolare momento emergenziale, si consente al Garante nazionale di delegare i garanti territoriali, in specifiche circostanze e per un limitato periodo di sei mesi, per lo svolgimento dei compiti dei compiti assegnati dalla legge. È un passaggio importante che garantisce il costante monitoraggio nelle carceri (così come nei luoghi dove le persone sono private della libertà personale), a fortiori al tempo della pandemia. Un tempo in cui i detenuti vivono in una condizione di doppia reclusione e di separazione, dalla vita civile e da quei legami-ponte (con i familiari, con i volontari, con la comunità esterna) che generalmente ne garantiscono una minima tollerabilità. Le carenze del sistema di accoglienza sul territorio sono un ostacolo all’uscita dagli istituti di reclusione di migliaia di persone e necessitano – come sottolineato dalla conferenza dei Garanti del mese scorso – di scelte di investimento finanziario, anche con il Recovery Fund, in luoghi e forme dell’accoglienza e dell’integrazione sociale[20].

  1. Il decreto legge ‘ristori’ e misure per contenere il rischio di diffusione del covid-19 nelle carceri.

Il crescente e preoccupante numero dei contagiati tra i detenuti e il personale penitenziario, ha di nuovo fatto salire il livello di attenzione. Così, all’interno del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137[21] sono state introdotte delle misure per contenere il rischio di diffusione della pandemia nel contesto penitenziario, ossia in luoghi in cui è pressoché impossibile rispettare le norme di distanziamento sociale. A ciò si aggiunga che, salvo qualche caso, le strutture non possono fare tamponi autonomamente. E molti istituti non riescono nemmeno a isolare i nuovi arrestati che entrano. Pertanto, è serio e drammaticamente concreto che le carceri diventano delle bombe sanitarie pronte ad esplodere.

Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, è molto chiara: «Nella prima ondata non è scoppiata una bomba sanitaria, ma non è detto che la scampiamo anche questa volta. Il carcere è un ambiente ad alto rischio, chiuso e sovraffollato. Molte persone arrivano dalla marginalità estrema, non si sono mai curate prima o hanno patologie pregresse»[22].

Aggiunge il Garante Nazionale: «Ricordiamoci che quella carceraria è una popolazione molto vulnerabile dal punto di vista sanitario. Bisogna lavorare per abbassare il numero delle persone ristrette in carcere, è l’unico modo per creare più spazi … Dobbiamo puntare ad avere dei ricoveri dedicati, che oggi non ci sono, dove gestire i detenuti con sintomi lievi, in questi casi non bisogna gravare sugli ospedali»[23].

Da Nord a Sud, le paure si sprecano. A Terni il focolaio più preoccupante, in alta sicurezza. Gli addetti ai lavori evocano il cosiddetto “effetto RSA”, quello di un contagio che potrebbe diffondersi senza controllo tra le mura della prigione. Gli agenti temono nuove rivolte, dopo che a marzo una cinquantina di penitenziari sono stati devastati e tredici persone hanno perso la vita.

Si aspettava una risposta normativa ‘forte’ per fronteggiare la seconda ondata, dopo le timide risposte legislative del decreto legge “Cura Italia” n. 18 del 17 marzo 2020 (poi convertito con legge 24 aprile 2020 n. 27) che aveva previsto alcuni interventi volti a deflazionare i numeri dei detenuti negli istituti penitenziari. Anche se sin da subito si era percepito come si trattasse di soluzioni non destinate ad incidere con numeri particolarmente importanti sull’endemico sovraffollamento[24].

Tali lacune hanno costretto una coraggiosa giurisprudenza di sorveglianza a un delicatissimo ruolo di supplenza, soprattutto per la fuoriuscita soggetti con pluripatologie, con l’accesso alla detenzione domiciliare ‘umanitaria’ o ‘in deroga’ ex art. 47-ter, commi 1-ter e quater ord. penit.[25].

Si ricorderà come alcuni questi provvedimenti non siano stati ‘graditi’ (oggetto di una feroce campagna mediatica) e hanno generato la ferma risposta del legislatore sia stata in seguito caratterizzata da due decreti legge, nn. 28 e 29 del 2020, che avevano di mira essenzialmente un freno alle uscite o comunque il rientro in carcere delle persone ammesse a quelle misure domiciliari (soprattutto legate a gravi motivi di salute), ove condannate o imputate per delitti di criminalità organizzata ed alcune altre gravi fattispecie di reato.

  1. Il dettaglio delle ‘briciole’ svuota carceri.

Ancora una volta, le aspettative sono rimaste deluse. Il legislatore d’urgenza, agli articoli 28, 29 e 30 del c.d. decreto ristori riprende, con un formidabile ‘copia e incolla’, le stesse misure del Cura Italia, con la sola aggiunta dei permessi premio.

L’art. 28 del nuovo decreto stabilisce che alle persone condannate ammesse al regime di semilibertà possano essere concesse licenze premio straordinarie anche di durata superiore a quella prevista dalla legge, cioè 45 giorni complessivi per ogni anno di detenzione. Questo fino al 31 dicembre 2020 e «salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura». La “straordinarietà” riguarda solamente la lunghezza delle licenze, non aumenta il numero delle persone che ne potranno beneficiare. Tali licenze, per durata, si sono rivelate assai utili nella gestione di condannati che avrebbero altrimenti quotidianamente alternato momenti in libertà e in detenzione, con evidente maggior rischio di portare il contagio con sé.

L’art. 29, a differenza di quanto aveva colposamente dimenticato il Cura Italia, statuisce che, sempre sino al 31 dicembre 2020, si possano concedere permessi premio senza i limiti di durata previsti nell’art. 30 ter ord. penit., e dunque anche più lunghi di quindici giorni e complessivamente più ampi di quarantacinque giorni annui. La misura però è destinata soltanto a chi abbia già fruito di permessi premio e sia stato già assegnato a svolgere un lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 ord. penit. (o sia ammesso all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno, nel contesto dell’ordinamento penitenziario minorile). Quindi a pochissimi detenuti!

La disposizione è poi arricchita di ulteriori limitazioni, non potendo trovare applicazione a quei detenuti che espiino pene per delitti compresi nell’art. 4-bis ord. penit. oppure siano stati condannati per i delitti di maltrattamenti in famiglia o di atti persecutori; o ancora la impossibilità di operare lo scorporo in presenza di alcuni reati (su tale ultima ipotesi ci soffermeremo a breve).

Nell’art. 30 del decreto legge n. 137 del 2020 rispunta l’esecuzione della pena presso il domicilio per i residui di pena fino a diciotto mesi (già prevista nell’art. 123 del decreto legge n. 17 del 2020), anche in deroga all’esecuzione ex art. 1 legge 199 del 2010, con la specifica che per le pene superiori a sei mesi tale misura occorre il c.d. braccialetto elettronico (si reperiranno in tempo?).

Con una disposizione cervellotica si incrementa esiguamente il ventaglio temporale di un mese di residuo di pena (da sei a sette mesi) senza che siano necessario istallare il dispositivo elettronico di controllo: «nel caso in cui la pena residua non superi di trenta giorni la pena per la quale è imposta l’applicazione delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, questi non sono attivati». Norma orribile nella forma e poco comprensibile nella sostanza.

Il comma 9 prevede, sulla falsariga dell’art. 123 comma. 8-bis, introdotto in sede di conversione del decreto legge n. 18 del 2020, che questa forma particolare di detenzione domiciliare possa applicarsi ai detenuti che ne maturino i presupposti entro il 31 dicembre 2020, e dunque non ne è esclusa la concedibilità anche con istanze pervenute, o soltanto con istruttorie conclusesi, in data successiva.

  1. La ‘ciliegina sulla torta’: niente scioglimento del cumulo per accedere ai permessi e all’esecuzione domiciliare.

È sintomatico che un provvedimento etichettato come ‘svuota-carceri’ contenga delle misure in cui il legislatore, subito dopo averne disposto la possibilità di concessione, si premuri di indicare un folto elenco di ipotesi derogatorie, sulla falsariga di quanto già avvenuto nel decreto legge Cura Italia, dove si ci limita ad un pressoché totale ‘copia e incolla’.

In verità si fa di peggio: si pensa ‘adesso’, in questa fase emergenziale, di introdurre una ulteriore causa di esclusione dell’esecuzione domiciliare, legata all’impossibilità di sciogliere il cumulo in presenza di ipotesi di connessione secondo l’art. 12 comma 1 lettera b) e c).

La domanda sorge spontanea: il legislatore è così preoccupato di svuotare le carceri e pensa, all’opposto, di sbarrare l’accesso ad una misura che dovrebbe alleggerire la densità penitenziaria?

Ad ogni modo, il permesso premio e l’esecuzione domiciliare non sono concedibili a chi veda compreso nel proprio titolo esecutivo un delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso od altro reato commesso con modalità mafiose o con la finalità di agevolare un gruppo criminale ex art. 416-bis c.p., oppure di terrorismo anche internazionale, anche se ha già espiato la quota di pena relativa a questi delitti, se i reati residui siano stati giudicati, anche in sede esecutiva, avvinti da una connessione con quelli ostativi perché commessi con una sola azione od omissione o in esecuzione di un medesimo disegno criminoso (art. 12 comma 1 lett. b) c.p.p.) o per eseguire od occultare i reati ostativi (art. 12 co. 1 lett. c) c.p.p.).

Com’è stato ben rilevato, «non immediatamente comprensibile appare la scelta di evocare l’art. 12 comma 1 lett. b) e c) c.p.p., disposizione dagli scopi tutti interni al processo, invece che l’art. 81 c.p. e l’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p. Un profilo non meramente formale, ulteriormente complicato nel testo dal riferimento alla necessità che la sussistenza della connessione sia deducibile dall’accertamento operato dal giudice di cognizione o dell’esecuzione (per quest’ultimo sarebbe stato al più opportuno richiamare l’art. 671 c.p.p., esclusa una rilevanza dell’art. 12 comma 1 lett. c) in questa fase)»[26].

Di più. La soluzione normativa contrasta espressamente con i consolidati orientamenti, di costituzionale e di legittimità, che ormai da tempo hanno puntualizzato – con riferimento ai reati di cui all’art. 4-bis ord. penit., quando occorre valutare l’accesso alle misure alternative alla detenzione, si debba procedere in favor rei, alla scissione del cumulo, calcolando per prima come pena espiata quella riferibile al reato ostativo.

Dal lontano 1994 la Corte costituzionale afferma che «non si rinvengono dati normativi per sostenere che la nuova disciplina dell’art. 4-bis abbia creato una sorta di status di detenuto pericoloso che permei in sé l’intero rapporto esecutivo a prescindere dal titolo specifico di condanna»[27]. Ed anche le Sezioni Unite Ronga (30 giugno 1999) hanno fugato ogni dubbio circa l’operatività del meccanismo di scorporo.

Per il legislatore d’urgenza, invece, il detenuto condannato per un reato 4-bis indossa l’abito del detenuto pericoloso per sempre, trasferendo tale status anche alle altre eventuali condanne per delitti non ostativi, in aperto contrasto con le elementari regole di ragionevolezza (rilevanti sotto il parametro costituzionale dell’art. 3) e del principio di rieducazione della pena in quanto il trascinamento degli ostacoli all’accesso di misure alternative per il detenuto non più pericoloso, anche dopo aver finito di espiare la pena per il delitto ostativo, non consentono al condannato di valorizzare i progressi del percorso rieducativo, sboccandolo, in aperto contrasto con l’art. 27, comma 3, Cost.

  1. Contribuire a dipingere il volto costituzionale della pena.

I tanti lacci confezionati dal legislatore alla concessione delle misure necessarie (ancora largamente insufficienti) per alleggerire il cronico sovraffollamento carcerario nascono dal pericolo, vissuto ansiosamente dalla componente governativa, che il permesso premio e l’esecuzione domiciliare possano essere concessi a soggetti che ‘in passato’ si siano macchiati di gravi reati e che quindi possano ricadervi, destando allarme sociale. La logica, sbagliata, è sempre quella di chiudere nella cella e buttare la chiave e di associare al concetto di certezza della pena quello della sua immutabilità.

Il volto della pena dipinto dalla Costituzione è, invece, quello di una pena necessariamente ‘flessibile’, di un’esecuzione penale che non si volta indietro ma che guarda ‘avanti’, tentando di rieducare il condannato (proprio per evitare la ricaduta nel reato) valorizzando i risultati dei progressi compiuti. Anche a voler accettare l’idea di un doppio binario trattamentale (uno più complesso per i condannati ‘pericolosi’ e uno più semplice per i condannati ‘comuni’), è il titolo esecutivo in atto a dettare la scelta del sentiero rieducativo da seguire. Ragionare diversamente – il detenuto che in passato abbia commesso delitti ostativi resta sempre pericoloso e non può accedere ai benefici penitenziari o vi può accedere molto difficilmente[28] – significa iniettare al detenuto una pena con sterili speranze.

Ci eravamo illusi che la grave emergenza sanitaria potesse rappresentare l’occasione per rimeditare sull’esecuzione penale e per uscire dalla visione carcero-centrica. Sembra invece che il covid-19 abbia continuato ad allontanare la pena dalla sua rotta costituzionale.

Ai sognatori rimasti il costante impegno di contribuire a dipingere, ognuno nei propri ruoli, il volto della pena (e dei diritti dei condannati) all’interno della sua cornice costituzionale e convenzionale.

* Avvocato penalista e Cultore di diritto penitenziario dell’Università di Catania, Facoltà di Giurisprudenza

[1] Il decreto legge 21 ottobre 2020, n. 130, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale serie generale n. 261 del 2020, entrato in vigore il giorno successivo, è infatti intitolato «disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 c.p., nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale».

[2] Come riassume l’AINI, nei primi nove mesi di quest’anno sono stati scoperti 1.761 cellulari «confusi nel cibo, sistemati negli indumenti intimi, ingoiati, nascosti nel corpo, inseriti dentro un pallone per poi essere lanciati, traportati da un drone, collocati nel fondo delle pentole».

[3] S. ATANASIA, portavoce dell’Assemblea della Conferenza dei Garanti, e Garante per le regioni Lazio e Umbria. in Bene il decreto sicurezza, ma no alla criminalizzazione dei cellulari, https://www.tusciatimes.eu/carceri-anastasia-bene-il-decreto-sicurezza-ma-no-alla-criminalizzazione-dei-cellulari/, 9 ottobre 2020.

[4] M. BRUCALE, Dal 41bis non si esce. Così Francesco resta sepolto vivo, Il Riformista, 30 ottobre 2020.

[5] Corte Costituzionale, 22 maggio 2020 (ud. 5 maggio 2020), sentenza n. 97, in Giurisprudenza penale, 24 maggio 2020.

[6] In precedenza la stessa Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo lo stesso art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f).  sul divieto di «cuocere cibi»: Corte Costituzionale, 12 ottobre 2018 (ud. 26 settembre 2018), sentenza n. 186.

[7] Tra le prescrizioni inutilmente afflittive per il detenuto al carcere duro, si segnala Trib. Sorv. Roma, 2 ottobre 2018 (ud. 27 settembre 2018), n. 4164, in Giurisprudenza penale, 3 dicembre 2018, che ha considerato sproporzionata, incongrua ed ingiustificata la disposizione che limita temporalmente al detenuto di accendere la televisione in cella (con conseguente disapplicazione della circolare D.A.P. in parte qua).

[8] Corte EDU, Sez. V, 17 settembre 2020, Mirgadirov c. Azerbaijan e Turchia, Osservatorio Corte EDU: settembre 2020, in Sistema Penale, 19 ottobre 2020.

[9] Si veda in argomento, M. PASSIONE, La danza immobile, in Giurisprudenza penale web 2019, 12. La Suprema Corte ha anche sancito che il “carcere duro” non può impedire al detenuto di essere presente alla nascita del figlio: Sez. I, ud. 26 maggio 2017, dep. 20 ottobre 2017, n. 48424.

[10] Trib Brindisi, 17 ottobre 2014, in Dir. pen. proc., 2015, 438.

[11] Pubblicata, tra le tante, in Archivio Penale, 16 novembre 2016.

[12] Sez. II, ud. 15 dicembre 2016, dep. il 24 febbraio 2017, n. 9184 in ll penalista, 20 aprile2017.

[13] Sez. II, ud. 16 febbraio 2018, dep. il 23 maggio 2018, n.23043, in Diritto & Giustizia, 24 maggio 2018.

[14] Sez. VI, ud. 12 novembre 2019, dep. 16 gennaio 2020, n. 1645, in CED Cass. pen. 2020.

[15] Sez. VI, ud. 9 maggio 2017, dep. 3 luglio 2017, n.31873, in Diritto & Giustizia, 4 luglio 2017.

[16] In Archivio penale, 16 novembre 2016, cit.

[17] Corte EDU, Sez. I, sentenza 18 maggio 2017, Jóhannesson e altri contro. Islanda, in Giurisprudenza penale, 18 maggio 2017.

[18] Corte EDU, Sez. IV, 21 luglio 2020, sul caso Velkov contro Bulgaria, in Giurisprudenza penale, 30 agosto 2020.

[19] E. ZUFFADA, La Corte di Cassazione alle prese con i principi stabiliti dalla Corte europea in materia di ne bis in idem in relazione al “doppio binario” sanzione penale – sanzione disciplinare, in Penale contemporaneo, 21 aprile 2017.

[20] Cfr., S. ATANASIA, in Bene il decreto sicurezza, ma no alla criminalizzazione dei cellulari, cit..

[21] Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 269 del 2020 ed entrato in vigore il giorno successivo) ed intitolato “Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”.

[22] In Linkiesta, 30 ottobre 2020.

[23] Ivi, op.  cit. nota prec..

[24] Se vis, C. MINNELLA, Le insufficienti misure adottate dal convertito decreto “cura Italia” e la supplenza della magistratura di sorveglianza, in Diritto Penale e Uomo, 29 aprile 2020.

[25] In argomento, V. MANCA, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, in Giurisprudenza penale, 2 maggio 2020; A. DELLA BELLA, La magistratura di sorveglianza di fronte al COVID: una rassegna dei provvedimenti adottati per la gestione dell’emergenza sanitaria, in Sistema Penale, 29 aprile 2020.

[26] F. GIANFILIPPI, Decreto legge Ristori, le disposizioni emergenziali per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia nel contesto penitenziario, in Giustizia Insieme, 30 ottobre 2020.

[27] Corte cost., sentenza n. 361 del 1994, in Cass. pen., 1995, 502 s.

[28] Non è qui la sede per aprire la parentesi della ‘collaborazione’ quale requisito necessario per accedere alle misure extramurarie, oggetto d censura sia dalla Corte EDU nella pronuncia Viola contro Italia e poi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019.