DALL’IMMEDIATEZZA AL “DAR PER VISTO”: L’INVOLUZIONE DI UN CARDINE DEL GIUSTO PROCESSO – DI OLIVIERO MAZZA
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DALL’IMMEDIATEZZA AL “DAR PER VISTO”: L’INVOLUZIONE DI UN CARDINE DEL GIUSTO PROCESSO
di Oliviero Mazza*
La relazione, rivista dall’autore, tenuta nel corso della manifestazione “In difesa del principio di immutabilità del Giudice” del 28.06.2022 durante l’astensione dei penalisti italiani, nella sessione “Le regole, la presa di posizione degli studiosi del processo”.
La crisi in cui versa il principio di immutabilità del giudice pone, anzitutto, una questione politica rispetto alla quale l’avvocatura sta svolgendo un compito di supplenza rispetto alla magistratura.
Stiamo, infatti, difendendo un principio che tutela, in primo luogo, i giudici, che garantisce loro di essere messi nelle condizioni migliori per decidere.
Ritengo scandaloso che la magistratura si disinteressi al problema e che debbano essere gli avvocati penalisti a sostenere da soli questa battaglia in favore della funzione cognitiva del processo, in favore dei giudici ai quali vanno garantiti gli strumenti migliori per decidere, strumenti che non possono e non devono essere bilanciati con esigenze di pseudo-efficienza del processo.
L’unica efficienza ammissibile nel processo è quella cognitiva, il processo non può avere altre finalità sulle quali misurare la sua efficacia. Tutto deve essere strumentale al raggiungimento dello scopo conoscitivo, non essendo ammissibile l’efficienza del “far presto pur che sia”, sganciata dal risultato conoscitivo.
Altra questione politica è quella che riguarda la dilagante “incultura” processuale. Trovo altrettanto scandaloso che la sentenza costituzionale n. 132 del 2019 non abbia mai citato, nemmeno una volta, l’articolo 111, comma terzo, Cost. su cui si fonda il principio di immediatezza, elevato a diritto costituzionale di ogni imputato di interrogare o far interrogare i testimoni davanti “al” giudice, non davanti a “un” giudice; differenza lessicale fondamentale in quanto la preposizione articolata “al” significa proprio “il giudice chiamato a decidere”.
Stesso discorso vale per la decisione delle Sezioni Unite Bajrami che ha del tutto ignorato il preciso riconoscimento costituzionale del principio di immediatezza.
Eppure, nella giurisprudenza costituzionale vi era un precedente, la sentenza n. 205 del 2010, che si era confrontato con la previsione dell’art. 111, comma terzo, Cost., ammettendo che attraverso la stessa fosse stato costituzionalizzato il principio di immediatezza, cioè il rapporto diretto tra il giudice e la prova o meglio tra il giudice che deve giudicare e la prova utilizzata per la decisione.
L’incultura processuale non si misura solo sulla ignoranza (colpevole o incolpevole che sia) dei principi costituzionali, ma anche sulla sintassi del codice di rito.
La sentenza Bajrami non è un formante giurisprudenziale, ma fa il pari con la Battistella del 2008 nel costruire un sistema normativo non tanto “contra legem”, quanto “praeter legem”, al di fuori del codice.
Nell’articolo 190 c.p.p. non vi è traccia del criterio ammissivo della prova costituito dalla non manifesta superfluità della rinnovazione istruttoria: lo ha inventato la Bajrami; così come ha creato la sequenza procedimentale che va dal deposito delle liste alla assunzione della prova su circostanze nuove e ulteriori rispetto a quella già poste a fondamento del precedente esame.
Tutto il sistema creato dalla Bajrami sconta un evidente vizio di impostazione: si confonde la rinnovazione istruttoria con l’integrazione probatoria.
La rinnovazione della prova è infatti circoscritta a temi nuovi o comunque diversi, mentre il principio di immediatezza impone la rinnovazione da intendersi, giuridicamente e letteralmente, come la riassunzione della medesima prova sui medesimi temi di prova.
È sconcertante la banalità dell’errore di confondere la rinnovazione con l’integrazione probatoria, confusione che, tuttavia, è il portato logico della scelta di non invalidare l’attività istruttoria compiuta dinanzi al giudice sostituito.
Dato che la prova è già stata acquisita, ancorché dinanzi al giudice diverso da quello che sarà chiamato a decidere, la Bajrami offre solo un potere di integrazione, ma non la rinnovazione pura e semplice che viene vissuta come una inutile duplicazione di quanto già compiuto ritualmente e validamente. L’errore concettuale è proprio questo, la prova assunta dinnanzi al giudice diverso non rispetta il principio di immediatezza e, come tale, deve considerarsi invalida, non potendo entrare nell’orizzonte conoscitivo del nuovo giudice.
La rinnovazione viene quindi osteggiata perché è vista come una perdita di tempo, perché quelle conoscenze già esistono e si ammette solo la possibilità di una limitata integrazione intesa quale graziosa concessione alle parti.
Come diceva poco fa il Prof. Dinacci, per assicurare la tenuta del sistema il legislatore dovrebbe sancire espressamente la nullità assoluta di tutte le prove acquisite in precedenza, ossia decretare la nullità del dibattimento e ripartire da zero, solo così si potrebbe davvero assicurare la regola per cui il giudice deve avere la possibilità di assistere fin dall’inizio a tutte le attività dibattimentali.
La marchiana confusione fra rinnovazione e integrazione non è l’unico errore di impostazione.
Spesso si confonde anche l’immutabilità del giudice con il tema della immediatezza, ma si tratta di due concetti e di due questioni nettamente distinte che si pongono in rapporto di genere a specie.
L’immutabilità, ai sensi dell’art. 525, comma 2, c.p.p., impone testualmente che “alla deliberazione concorr[a]no, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”
Questo significa che a decidere deve essere non solo lo stesso giudice che ha presenziato all’assunzione della prova, ma anche lo stesso giudice che ha deciso le questioni preliminari, che ha ammesso le prove, che ha assunto tutte quelle decisioni in rito che oggi stanno pacificamente (secondo le Sezioni Unite) fuori dalla necessità della rinnovazione. L’articolo 525, comma 2, c.p.p. impone, invece, che l’immutabilità del giudice abbracci tutte le attività dibattimentali e non solo quelle strettamente istruttorie.
Il rispetto delle regole costituzionali e processuali non si può certamente recuperare con le videoregistrazioni offerte dalla “riforma Cartabia” che non sono altro se non il succedaneo prefigurato dalla sentenza n. 132 del 2019 nella contestabile ottica dei rimedi compensativi.
In chiave pragmatica ed europea, le videoregistrazioni potrebbero essere il male minore, a patto però che la loro visione sia formalizzata. Il maggior problema non è, infatti, la videoregistrazione in luogo della trascrizione, ma stabilire quando, dove e come il giudice guarderà il film del processo.
Abbiamo già conosciuto il “dar per letto” nell’articolo 511 c.p.p., non vorremmo dover affrontare a breve anche il “dar per visto”.
La nostra battaglia deve cominciare da lì e deve riguardare la formalizzazione dell’atto processuale che non può essere un atto privato del giudice e certamente non si può nemmeno ipotizzare che avvenga in camera di consiglio, ma deve rispondere a una ritualità formale del processo: un’udienza dedicata, probabilmente più di un’udienza, in funzione dello sviluppo precedente del dibattimento.
Queste udienze destinate alla visione delle registrazioni costituiranno il vero banco di prova della tenuta del sistema dei rimedi compensativi: non è difficile prevedere che, a fronte dell’alternativa tra una formalizzazione nella presa visione della videoregistrazione e la rinnovazione istruttoria, probabilmente i giudici procederanno con la seconda. Per questo bisogna essere rigorosi nell’esigere che il giudice sia posto dinanzi all’alternativa stringente fra l’udienza dedicata alla rinnovazione e quella dedicata alla visione formalizzata delle registrazioni. Se, invece, l’alternativa fosse il “dar per visto”, finirebbe come per le letture ex art. 511 c.p.p. e la rinnovazione non verrebbe mai disposta, con buona pace per l’efficienza cognitiva del processo.
La sentenza costituzionale n. 132 del 2019, oltre a proporre i rimedi compensativi, fonda il suo ragionamento sulla mera presa d’atto dell’impossibilità di garantire la concentrazione delle udienze per giustificare l’abbandono della immediatezza. È un modo di procedere assai singolare da parte di un giudice costituzionale: invece di adottare una sentenza monitoria rivolta al legislatore per sollecitare riforme in grado di garantire la concentrazione e, con essa, anche l’immediatezza, ci si è limitati alla rassegnata presa d’atto dell’inconveniente come se fosse un argomento di decisione.
Non credo, però, che vi sia un rapporto così inscindibile fra concentrazione e immediatezza, certamente non tale da giustificare l’abbandono del principio costituzionale d’immediatezza sul presupposto della (presunta) impossibilità di organizzare il lavoro giudiziario in modo tale da garantire la concentrazione delle udienze, come peraltro stabilito dall’art. 477 c.p.p.
Sulla base degli studi di psicologia della testimonianza e di psicologia del decidere trova conferma il fatto che il giudice mantiene un ricordo pregnante e indelebile della formazione della prova avvenuta al suo cospetto. Egli non ricorderà perfettamente ciò che ha detto il testimone, ma ricorderà l’impressione che ne ha tratto, ossia se si tratta di un testimone attendibile o inattendibile, ricorderà se la testimonianza lo ha convinto o meno.
In definitiva, l’impressione che il giudice trae dalla formazione della prova garantita attraverso l’immediatezza non è cancellata dalla mancanza di concentrazione e dalla latenza mnestica, e ciò consente di escludere la fondatezza scientifica di quel ragionamento circolare della Corte costituzionale in ordine alla dipendenza della immediatezza dalla concentrazione.
Tante volte abbiamo sentito ripetere l’argomentazione secondo cui i giudici non possono motivare la propria decisione sull’impressione o sui tratti prosodici e paralinguistici della testimonianza, elementi che esporrebbero la sentenza a una sicura impugnazione. È tutto vero, purché si convenga sul fatto che la decisione viene assunta in base dell’intimo convincimento, e poi solo motivata sul paradigma del libero convincimento.
Il libero convincimento è l’argomentazione, la motivazione, postuma e logica della decisione assunta sulla base dell’intimo convincimento. Il giudizio rimane ancora quel momento irrazionale, non governabile, in cui scocca la scintilla nella testa del giudice quando capisce come deve decidere: l’intimo convincimento, nella forma più pura, viene garantito solo dalla immediatezza e non certo dalla videoregistrazione che passa necessariamente attraverso lo schermo, inteso nella sua duplice accezione di dispositivo atto a diffondere le immagini, ma anche di barriera e di filtro.
Sul piano più squisitamente tecnico, tornando alla supplenza delle ragioni della magistratura, potremmo invocare l’ulteriore argomento che le videoregistrazioni non consentono l’esercizio delle prerogative del giudice sancite dall’art. 506 c.p.p., non solo in favore del presidente del collegio, ma anche di tutti i componenti.
Sotto quest’aspetto è insostenibile l’idea che la videoregistrazione sia un surrogato del principio di immediatezza.
In conclusione, non bisogna arrendersi all’idea di un processo sempre più lontano dall’oralità, chiovendianamente intesa come sintesi di contraddittorio, immediatezza e concentrazione, ridotto a un accumulo di carte da impilare sul tavolo del giudice nella speranza che costui abbia il tempo e la voglia di leggersi tutto l’incarto processuale. L’oralità è faticosa, anche per gli avvocati, ma è il metodo migliore che abbiamo a disposizione per approssimarci al fine conoscitivo del processo.
Rivendichiamo l’esigenza imprescindibile che, in caso di cambiamento del giudice, tutti gli atti compiuti in precedenza siano affetti da nullità assoluta ex art. 525, comma 2, c.p.p. e che, per tale ragione, sia necessario ripartire da capo, senza scorciatoie di sorta, e non solo con riferimento agli atti istruttori, ma anche alle decisioni in rito assunte dal giudice diverso.
Mettiamo alle strette la magistratura, mettiamola davanti alle sue responsabilità organizzative, come bene ha ricordato la professoressa Cavallini.
Già esistono poteri di applicazione straordinaria dei magistrati – e qui l’esperienza milanese di Giovanni Canzio ci ha insegnato come si può evitare il problema del mutamento dei giudici – si tratta solo di esercitarli senza esitazioni o indebiti condizionamenti.
Se il mutamento del giudice nel corso del dibattimento diverrà un’eccezione limitata, come dovrebbe essere in un ordinamento giudiziario ispirato alla tutela prevalente delle attività processuali rispetto agli interessi del singolo giudice, allora sarà più facile tenere fermo il principio per cui, concentrazione o non concentrazione delle udienze, la prova deve formarsi al cospetto del solo giudice che poi andrà a decidere in camera di consiglio.
* Professore ordinario di diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca