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DETENZIONE DOMICILIARE EX ART. 123 DEL D.L. 17/2020 – DI GIAN LUCA MALAVASI

DETENZIONE DOMICILIARE EX ART. 123 DEL D.L. 17/2020 – DI GIAN LUCA MALAVASI

di Gian Luca Malavasi

NOTA DI COMMENTO IN MERITO ALLA DETENZIONE DOMICILIARE EX ART. 123 DEL D.L. 17/2020 (C.D. “DECRETO CURA ITALIA”). POSSIBILE APPLICAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA AI TEMPI DEL “CORONAVIRUS”

In considerazione dell’emergenza epidemiologica derivante dal virus COVID-19, il Governo ha adottato il Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 – c.d. Cura Italia – (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale Serie Generale n.70 del 17 marzo 2020), avente ad oggetto non solo misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese, ma anche misure finalizzate ad arginare il rischio di contagio della popolazione carceraria, nonché di coloro che ivi svolgono la propria attività lavorativa.

Se, soprattutto da un punto di vista mediatico, l’emergenza di intervenire nell’ambito carcerario – con le conseguenti critiche anche da un punto di vista politico – è stata amplificata da azioni di rivolta da parte di persone detenute in diversi istituti penitenziari , non può sottacersi come il dato oggettivo di casi di contagio di diversi detenuti (in primis nel penitenziario di Voghera) abbia reso inevitabile cercare soluzioni che garantissero ai detenuti – nonché a tutti gli agenti e a coloro che operano a vario titolo all’interno dei carceri – la tutela del diritto costituzionalmente tutelato della salute ex art. 32 Cost.

Con il presente contributo, tra le varie misure adottate dal Governo, si intende procedere alla disamina dell’art. 123 del D.L. 17/2020, rubricato “Disposizioni in materia di detenzione domiciliare”.

Trattasi di disposizione che introduce una serie di deroghe, valide nell’arco temporale compresa dal 17 marzo 2020 e al 30 giugno 2020, alla disciplina della detenzione domiciliare di cui alla Legge n. 199 del 26 novembre 2010 (Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno) – cd. “Svuotacarceri” – poi in seguito modificata e ampliata e da ultimo stabilizzata nell’ordinamento con il D.L. 23 dicembre 2013 n. 146.

In particolare, il Decreto estende la misura dell’esecuzione della pena presso l’abitazione del condannato (o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza) allorquando l’espiazione della pena della reclusione non sia superiore a 18 mesi, anche se residuo di maggior pena.

La soluzione adottata dal Governo con l’art. 123 D.L. 18/2020, dunque, in continuità con quella contemplata con la legge c.d. “svuota carceri” del 2010, con l’intento di incrementarne la concessione e semplificare l’istruttoria necessaria, vede ampliarsi il novero dei soggetti che almeno astrattamente possono beneficiare della misura della detenzione domiciliare, eliminando da parte del Magistrato di Sorveglianza l’accertamento in ordine alla valutazione della concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga, ovvero in ordine a specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti, sostituendo tale requisito con l’applicazione del braccialetto elettronico per coloro che hanno un residuo pena da 7 mesi a 18.

Sotto quest’ultimo profilo, si deve sottolineare come il Governo abbia espressamente previsto che “salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena da eseguire non è a superiore a sei mesi è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari”.

Non può sottacersi, in senso critico, come tale generalizzata procedura di controllo – subordinata alla manifestazione di un consenso espresso del detenuto – oltre alla difficile realizzazione connessa alla carenza dei mezzi elettronici – (o di non meglio precisati altri strumenti tecnici) si ritiene che dovrebbe essere lasciata alla valutazione personalizzata del Magistrato di sorveglianza a seconda della personalità del singolo detenuto.

A parte la patologica carenza dei dispostivi elettronici nella realtà dell’attuale situazione non può, altresì, non mettersi in rilievo, la difficoltosa applicazione in concreto della previsione secondo la quale, la predetta procedura di controllo venga disattivata – apparentemente in modo automatico – quando la pena residua da espiare scenda sotto la soglia di sei mesi.

La ratio della previsione normativa è evidentemente quella di introdurre una misura eccezionale per ridurre la popolazione carceraria – senza invero alcuna previsione specifica rispetto a coloro che si trovano ristretti in carcere in fase cautelare in attesa di giudizio – mediante una procedura almeno apparentemente semplificata, attribuendo il diritto di essere trasferiti in detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico per i detenuti con meno di diciotto mesi da scontare, salvo determinate esclusioni connesse alla tipologia dei reati commessi e/o alla personalità soggettiva del detenuto.

Sin da subito preme fare notare come l’Esecutivo abbia ritenuto opportuno – verosimilmente per contenere almeno da un punto di vista mediatico le reazioni critiche dell’opinione pubblica e parte dell’opposizione politica – individuare un’espressa preclusione alla concessione del beneficio della detenzione domiciliare per chi avrebbe partecipato ai disordini e sommosse a far data dal 7 marzo 2020 – individuati sulla base dei rapporti disciplinari – nonché i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari ex art. 77, comma 1, nn. 18, 19, 20 e 21 DPR n. 230/2000.

E’ prevista, analogamente a quanto accade per la misura adottata ai sensi della L. 199/2010, una serie di eccezioni all’applicazione, in relazione alla commissione dei delitti di particolare allarme sociale previsti dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (L. 354/1975), ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare in carcere, ai sensi dell’art. 14-bis dell’ordinamento penitenziario (salvo che sia stato accolto dal tribunale di sorveglianza il reclamo di cui all’art. 14-ter avverso il provvedimento che lo dispone o lo proroga), e i detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.

Diversamente dall’ambito applicativo dell’art. 1 c.2 L. 199/2010, l’art. 123 D.L. 18/2020 preclude poi l’acceso al beneficio in esame a coloro che sono stati condannati per i delitti di cui agli articoli 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari o conviventi) e 612-bis c.p. (Atti persecutori).

Con riferimento a questa previsione normativa, si ritiene che sarebbe stato più opportuno lasciare al vaglio del Magistrato di sorveglianza la possibilità anche per i condannati per tali tipologie di delitti di beneficiare dell’istituto, a fortiori allorquando l’adozione di misure di controllo avrebbe potuto assicurare la tutela delle relative persone offese.

Oltre che per i sopracitati delitti e per le categorie di persone espressamente individuate non meritevoli della misura de qua, deve sottolinearsi come l’art. 123 c. 2 D.L. 18/2020 rimette – con una sorte di clausola di salvaguardia – al Magistrato di sorveglianza la valutazione relativa all’adozione della misura, qualora ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura.

Trattasi invero di previsione alquanto generica che pone invero un ampio potere discrezionale in capo all’ufficio della magistratura di sorveglianza, che a ben vedere pare compensare l’omessa previsione di una relazione di accertamento di prognosi positive ex legge 199/2010, sostituita dall’apparente sola verifica dell’assenza di sanzioni disciplinari nell’anno antecedente.

Il magistrato di sorveglianza decide quindi con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, non prima di cinque giorni dalla richiesta di parere al pubblico ministero, ed anche nell’ipotesi che lo stesso non sia emesso. Resta poi prevista la possibilità per il difensore, l’interessato e il pubblico ministero, di proporre, entro dieci giorni dalla comunicazione, reclamo al Tribunale di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’art. 678 c.p.p.

Non può non sottolinearsi come – anche in considerazione del limitato periodo temporale di validità della misura in questione – la disposizione in commento possa comportare un aggravio del carico di lavoro della magistratura di sorveglianza, pur essendo chiamato l’istituto penitenziario a provvedere alla fase istruttoria, rendendo prevedibile un ritardo nella concessione della misura in questione per coloro che ne avranno il diritto.

In forza del rinvio operato alla legge 199/2010, astrattamente, può ritenersi applicabile anche a questa nuova misura il divieto di cui all’art. 58-quater O.P., di concessione per tre anni dall’avvenuta revoca di una misura alternativa o dal momento di in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena dopo una condotta di evasione.

Deve, invero, osservarsi come, anche con riguardo all’ampia categoria di reati ritenuti ostativi e della serie di categorie soggettive escluse dall’ambito di applicazione della misura in questione, si debba ipotizzare (anche alla luce della gravità della situazione delle strutture penitenziarie) un ampio intervento della magistratura di sorveglianza che possa operare una verifica della sussistenza dei presupposti di applicazione del beneficio.

Si deve sempre rammentare, infatti, come nella materia dei benefici penitenziari è un criterio “costituzionalmente vincolante” quello che esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata caso per caso” (Corte Cost., sentenza n. 436/1999).

La Corte Costituzionale ha avuto occasione di ribadire come l’esclusione di criteri individualizzanti comporta che “l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo” (Corte Cost., sent. n. 257/2006) e ciò determina un giudizio del dettato normativo “sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena” (Corte Cost., sent. n. 255/2006).

Si ritiene, in sostanza che nel diritto penitenziario, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, dovrebbe essere precluso ogni automatismo o valutazione presuntiva in malam partem, vincolato dalla verifica in concreto della sussistenza dei presupposti che legittimano l’adozione dei vari istituti previsti (così ordinanza Magistrato di Sorv. Milano del 9.11.2011).

È noto, invero, che, in ordine alla situazione regolata dal comma 1, all’esito della pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 189 del 2010), che ha dichiarato inammissibile la relativa questione, affermando la possibilità di una lettura della norma costituzionalmente orientata, in primaria relazione con il disposto dell’art. 27 Cost., comma 1, l’interpretazione prevalente si è espressa nel senso che l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione in carcere, con particolare riferimento alla detenzione domiciliare, del soggetto nei cui confronti sia intervenuta condanna per il delitto di evasione non può essere automaticamente preclusa, senza limiti di tempo, per effetto della condanna stessa, dovendo il giudice procedere a un esame approfondito della personalità del condannato e della sua effettiva e perdurante pericolosità sociale (Cass. Pen. Sez. 1 n.26298 del 07/03/2019; Cass. Pen. Sez. 1, n. 1116 del 22/09/2016, dep. 2017, Russo; Cass. Pen. Sez. 1, n. 29 del 19/11/2014).

Con la sentenza n. 149 del 2018 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui prevede che i condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati dal comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. se non hanno effettivamente espiato almeno 26 anni di pena.

Si tratta di una decisione significativa per una serie di affermazioni sul percorso di progressivo reinserimento sociale dell’ergastolano e per alcune considerazioni critiche nei confronti di eventuali preclusioni rispetto a benefici che dovrebbero accompagnare tale percorso. In particolare, la sentenza ha giudicato “Incompatibili con il vigente assetto costituzionale (…) previsioni (…) che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione, e rispetto ai quali non sussistano indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4-bis ord. pen. – in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti dei consociati”.

In tal senso si reputa opportuno riflettere anche sull’applicabilità della detenzione domiciliare ex art. 123 D.L. 18/2020 quando il detenuto rientri in una condizione di preclusione ex art. 58-quater, L. n. 354/75.

Sul punto, preme ricordare come già in vigenza della normativa di cui alla legge 199/2010, alcuni provvedimenti della magistratura di sorveglianza abbiano messo in evidenza come “pur essendo possibile una interpretazione rigorosamente letterale della disposizione impugnata, che imporrebbe di ritenere tout court precluso, all’interessato che abbia subito la revoca di precedente beneficio penitenziario (nella specie, esecuzione domiciliare), l’accesso alle misure alternative dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare; pare doveroso adottare, invece, una sua lettura costituzionalmente orientata, basata sul principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost., e validata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha escluso la cittadinanza, nel nostro ordinamento penitenziario, della prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati” (cfr. Tribunale Sorv. Torino 20.02.2014; in senso conforme si veda anche Tribunale Sorv. Bologna, ord. 22.03.2011).

In tal senso merita richiamarsi il principio espresso dalla Suprema Corte di Cassazione secondo cui “In questa cornice di principi generali, recepiti in due recenti decisioni delle Sezioni Unite (Sez. Un. 28 marzo 2006, ric. Alloussi; Sez. Un. 30 maggio 2006, ric. Aloi), il Collegio ritiene che l’ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere (nel caso di specie, la detenzione domiciliare) di un soggetto nei cui confronti sia intervenuta affermazione di penale responsabilità per il delitto di evasione non possa essere automaticamente preclusa dalla intervenuta condanna per il reato previsto dall’art. 385 c.p. a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine all’avvenuta realizzazione di tutte le condizioni per usufruire del beneficio richiesto. Piuttosto, una lettura costituzionalmente orientata della norma impone al giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, un’analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva, perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell’art. 385 c.p., oggetto di accertamento definitivo, sui progressi trattamentali compiuti e il grado di rieducazione compiuto prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005”.

Alla luce di quanto sopra esposto, stante l’oggettivo pericolo di diffusione del contagio da COVID 19 e l’attuale inumano stato in cui versano i detenuti all’interno degli istituti penitenziari oggigiorno, si auspica che in fase di conversione in legge del D.L. 18/2020, il legislatore provveda ad eliminare, o quantomeno contenere soltanto ad alcuni gravi reati compresi all’interno dell’art. 4 bis ord. pen., automatismi di preclusioni all’accesso della misura della detenzione domiciliare, lasciando alla magistratura di sorveglianza la verifica, caso per caso, della meritevolezza del beneficio da parte del condannato.

Sin da subito,  anche in caso di mancata modifica della norma in fase di approvazione nel senso di cui sopra, si deve prospettare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, che consenta alla Magistratura di Sorveglianza una complessiva valutazione nel merito della condotta tenuta dal soggetto, sia in libertà che durante l’espiazione della pena, ai fini della verifica della meritevolezza della concessione della misura della detenzione domiciliare da parte del condannato, alla luce di quanto stabilito dalle pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n.255/2006-149/2018) ed in ossequio alle finalità previste dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

A ulteriore sostegno di quanto innanzi affermato non può sottacersi che ai soggetti sottoposti alla restrizione della libertà personale non può essere privato del diritto alla salute ex art. 32 Cost.

Sul punto si ricorda quanto affermato da Giorgio Lattanzi, Presidente della Corte Costituzionale (e recentemente ripreso dall’attuale Presidente Marta Cartabia) in occasione dell’evento inaugurale del “Viaggio nelle carceri” della Corte Costituzionale svoltosi a Rebibbia il 4.10.2018: “l’art. 27 della Costituzione non può “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e deve tendere “alla rieducazione del condannato”. La sua esecuzione richiede l’osservanza di tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, perché con questa possono essere compatibili solo i limiti di quei diritti che sono necessari per assicurare nelle carceri la sicurezza e la custodia.  Ogni limitazione nell’esercizio dei diritti del detenuto che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, incompatibile con l’art. 27 Cost. (sentenza n. 135 del 2013) e inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona, che trova appunto nella privazione della libertà personale, il limite massimo di punizione non oltrepassabile per alcun motivo”.