GLI ALTRI DENTRO DI SÉ: LEGGENDO ALESSANDRO BOCCHI – DI LORENZO ZILLETTI
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GLI ALTRI DENTRO DI SÉ: LEGGENDO ALESSANDRO BOCCHI
di Lorenzo Zilletti*
Un ricordo di Alessandro Bocchi attraverso la lettura dei suoi “Scritti”.
«L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé». Si sono subito affacciate alla mente, le parole della canzone di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, quando -il 16 settembre scorso- ho fatto ingresso nelle belle sale di Palazzo Trecchi a Cremona. Lì per intervenire al convegno “Difendere, un mestiere pericoloso” organizzato da Centro Marongiu, Osservatorio dati giudiziari e Camera penale della Lombardia orientale, lo sguardo è stato calamitato da una pila di volumi, ben allineati su un tavolo. Sobria ed elegante, la copertina rivelava che in quelle pagine la Camera penale di Cremona e Crema aveva inteso raccogliere una selezione di Scritti di Alessandro Bocchi.
In un attimo, la memoria ha riacceso voce, sguardo, sorriso di un amico troppo presto perduto. E da un luogo profondo dell’anima, quello dove ognuno custodisce con cura il ricordo delle persone che la fortuna ha posto sul proprio cammino, è riaffiorato l’antico sodalizio con Sandro. Nato e coltivato, in verità, tutto e soltanto all’interno dell’Unione, ma non per questo di intensità minore: la Politica, sì quella con la p maiuscola, fatta di sentimenti e ideali nobili, di sincere convergenze o leali dissensi di opinioni, di passione per la libertà, può diventare un luogo magico. Un luogo dove, appunto, ci si appartiene, per citare quel Gaber che affascinava entrambi e che costituiva la nostra (e di Cosimo Palumbo) personale appendice alle lunghe riunioni del Consiglio delle Camere penali.
Naturale, al rientro a Firenze, tuffarsi senza indugio in quegli Scritti, alla ricerca anche del più piccolo frammento del pensiero limpido di Sandro.
Diviso in tre parti, il volume si apre con la riproduzione di alcune memorie difensive e trascrizioni di arringhe, efficaci testimoni delle qualità di valente avvocato. Colpiscono chiarezza argomentativa e sintesi espositiva; quest’ultima, la migliore prova del lungo studio alla base di quei lavori, se è vero che si attarda in ragionamenti solo chi non ha avuto il tempo per prepararne di brevi. Vi si apprezza l’assenza di remore, mai declinante in dozzinale polemica, con cui la tesi d’accusa viene smontata e screditata.
Una seconda sezione documenta interventi di politica giudiziaria e contributi a testi dottrinali. Il lettore odierno, assediato dal dilagante e così pervasivo populismo penale, resta colpito (e forse un po’ perplesso) da tanta attenzione per il processo con giuria, sul piano teorico certamente il più in linea col rito adversary. Viene da interrogarsi se Sandro, potendo frequentare i social forum, insisterebbe oggi in alcuni convincimenti da lui manifestati alla metà degli anni Novanta del secolo trascorso. Certamente, induce a riflettere anche i più scettici la fulminante citazione che egli fece del più grande tra i maestri del diritto penale, Francesco Carrara: «È preferibile l’ignoranza che giudica per sentimento alla dottrina che giudica per abitudine».
Da ultimo, la terza parte ci regala quattro racconti, che i curatori hanno estrapolato dal volumetto Qualche storia, dato alle stampe da Bocchi nel 2003.
Confesso esser queste le pagine da me predilette, perché più capaci di svelare al lettore quell’«umanesimo a largo raggio» di Sandro, magistralmente descritto nel testo introduttivo alla sezione, steso da Renata Patria (sua professoressa liceale).
Piccole gemme, animate da ironia, sagacia nell’introspezione dell’animo umano, capacità evocativa di frammenti di storia del Paese, dove -ancora per rifarsi a Gaber e Luporini- l’Uomo è quasi sempre meglio rispetto alla propria ideologia.
Con giudizio del tutto arbitrario, l’acme è a mio avviso raggiunta nel quarto racconto, intitolato Lezioni di spagnolo. In realtà, una serie di conversazioni molto intime, quasi confessioni, tra due uomini tanto distanti nell’età ma vicinissimi nel modo di ‘sentire’ la vita.
Nella Spagna di Giano (questo il nome del vecchio ‘zio’), le vicissitudini tragiche della guerra civile sembrano occupare un posto secondario rispetto agli amori passionali e clandestini di quel personaggio. Ma è un’apparenza, come disvela l’Autore con straordinaria maestria: «Sai benissimo che in Spagna, allora, è successo qualcosa di ben altrimenti tragico di quel che ti ho raccontato io, ma in fondo la storia che viviamo noi non può mai essere storia: riesce a diventarlo solo ben dopo che siamo morti, altrimenti è solo quello che ci capita addosso». Per macchine create per vivere con «intensità golosa», ciò che sembra indifferenza «è solo il carburante per il loro motore».
Giano può conservare dentro di sé sorrisi e carezze delle donne con cui ha condiviso la passione erotica, a differenza dei militari in cui si è imbattuto, «morti per l’idea».
«Avessero pensato» -quei capitani- che poi «muoiono anche le idee e che nessuna idea al mondo merita di prendersi anche una sola vita … chissà, sarebbe stato tutto diverso».
Avverto, nel candore con cui Giano si confessa inutile per i libri di storia, riecheggiare altri versi, frutto del genio di un grande cantautore francese: «Gli apostoli di turno che apprezzano il martirio/Lo predicano spesso per novant’anni almeno/Morire per delle idee, sarà il caso di dirlo/È il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno/E sotto ogni bandiera li vediamo superare/Il buon Matusalemme nella longevità/Per conto mio si dicono in tutta intimità/Moriamo per delle idee, vabbè, ma di morte lenta/Ma di morte lenta».
E, con un pizzico di presunzione, azzardo che Sandro avesse dentro di sé anche George Brassens.
*Avvocato del Foro di Firenze, Responsabile del Centro studi sociali e giuridici “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere Penali Italiane