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I LIMITI COSTITUZIONALI ALLA CONFIGURABILITÀ DELLA RICETTAZIONE DEL DIFENSORE PENALE OVVERO DI CHILLING EFFECT E PROPORZIONALITÀ IN ACTION – DI NICOLA RECCHIA

I LIMITI COSTITUZIONALI ALLA CONFIGURABILITÀ DELLA RICETTAZIONE DEL DIFENSORE PENALE OVVERO DI CHILLING EFFECT E PROPORZIONALITÀ IN ACTION – DI NICOLA RECCHIA

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I LIMITI COSTITUZIONALI ALLA CONFIGURABILITÀ DELLA RICETTAZIONE DEL DIFENSORE PENALE OVVERO DI CHILLING EFFECT E PROPORZIONALITÀ IN ACTION

di Nicola Recchia*

Nota a Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, Ordinanza, 3 maggio 2024, Dott. Roberto Crepaldi.

Il contributo esamina criticamente la recente ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari di Milano con la quale è stata respinta la richiesta di misure cautelari interdittive nei confronti di due difensori per il reato di ricettazione asseritamente commesso attraverso l’accettazione del compenso professionale. Dopo aver ricostruito la vicenda all’esame di tale giudice e il percorso motivazionale del provvedimento, si evidenziano gli aspetti costituzionali della questione della punibilità del difensore per il reato di ricettazione, la quale rende necessario un confronto con il giudizio di proporzionalità e con il chilling effect. Infine, si coglie l’occasione del caso in esame per qualche breve considerazione generale sul ruolo e significato dell’intervento penale.

The paper critically examines the recent order of the Judge for Preliminary Investigations of Milan in which the request for interdictory precautionary measures against two defenders for the crime of receiving stolen goods allegedly committed through the acceptance of professional fees was rejected. After reconstructing the concrete case and the motivational path of the ruling, the constitutional aspects of the issue of defenders’ criminal liability for the crime of receiving stolen goods are highlighted, which necessitates a consideration of the proportionality test and the chilling effect. Finally, the occasion of the present case is taken for some brief general remarks on the role and significance of criminal intervention.

 

  1. Introduzione

Difficile coniugare, nel commentare l’ordinanza in epigrafe, il compiacimento per l’approfondimento e la qualità motivazionale della decisione con la meraviglia, sub specie di sconcerto, per il fatto che un tale provvedimento si sia reso necessario.

Qualità motivazionale perché certo non è dato leggere con frequenza in un’ordinanza di un G.I.P. sulla richiesta di misure cautelari un puntuale riferimento a una decisione di una corte costituzionale estera – in questo caso del secondo Senat del Bundesverfassungsgericht tedesco –, che consenta un non banale percorso di rilettura ermeneutica della fattispecie incriminatrice in esame alla luce del quadro costituzionale degli interessi in gioco. Decisione nella quale, sia consentito osservarlo en passant, al di sotto dell’unanimità del collegio, si fatica a non intravedere la penna e l’alta cifra ideale nei temi del diritto e della procedura penale del suo Presidente, Winfried Hassemer.

Sconcerto, tuttavia, per l’inedita iniziativa della pubblica accusa nel caso di specie, dai potenziali effetti nefasti per l’esercizio del diritto di difesa in ambito penale, come immediatamente segnalato dagli organi e dalle associazioni forensi[1].

Prima di indugiare oltre, è però il caso di ricostruire anzitutto i contorni della vicenda concreta e l’itinerario motivazionale dell’ordinanza.

  1. La vicenda concreta

Il G.I.P. milanese è chiamato a decidere sulle richieste di applicazione delle misure cautelari formulate dal pubblico ministero nell’ambito di una complessa indagine a carico di numerosi indagati.

Al centro della stessa vi sono le attività di un’associazione criminale dedita ai più diversi traffici delittuosi, in particolare in materia di armi, droga e tabacchi di contrabbando.

Accanto ai sospetti partecipi dell’associazione criminale, il pubblico ministero chiede l’applicazione di misure cautelari anche nei confronti di due difensori di tali soggetti sulla base della prospettazione di un reato di ricettazione da essi commesso per mezzo della ricezione del compenso professionale.

Naturalmente è proprio questa parte della richiesta e dell’ordinanza a presentare gli aspetti più interessanti della vicenda.

Ad avviso del pubblico ministero sussisterebbero elementi indiziari sufficienti a dimostrare la piena consapevolezza da parte dei due difensori della provenienza illecita delle somme ottenute a titolo di pagamento del compenso professionale.

Elementi – tutti! – provenienti da intercettazioni telefoniche delle conversazioni intercorrenti tra gli indagati e i loro difensori.

Nella prima, uno degli indagati afferma, rivolto ai difensori, che «siamo diventati amici, quasi come fratelli e durerà per sempre fino alla morte questo legame. Quando c’è un problema qui, ci riuniremo frequentemente»; i due difensori a loro volta rispondono l’uno «è reciproco, è reciproco» e l’altro «va benissimo, grazie». La stessa conversazione si apre poi con l’appellativo rivolto da uno dei difensori ad uno degli indagati di «grande capo B.».

Infine, si valorizza l’intercettazione nella quale uno dei difensori afferma che «fare il bonifico per noi è un problema per la questione dell’Iva e delle tasse, capito? Cioè dovrebbero emettere fattura e dichiarare al Fisco».

Posta la facile accertabilità del passaggio di denaro tra gli indagati e i difensori, la motivazione del G.I.P. si sofferma soprattutto sulla necessaria integrazione dell’elemento soggettivo del reato di ricettazione.

Il punto di partenza è certo la possibilità, riconosciuta dalla giurisprudenza nel più autorevole consesso[2], che la fattispecie incriminatrice di ricettazione sia integrata anche solo a titolo di dolo eventuale, «configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto».

Ma subito il giudice invita, significativamente, alla «cautela», osservando come la peculiare posizione dell’avvocato penalista nell’esercizio della difesa renda obbligato un distinguishing nella costruzione della fattispecie incriminatrice.

Due gli elementi di discrimen che il giudice sottolinea.

Anzitutto, il dato di fatto che il difensore sia «fisiologicamente» e non patologicamente spinto a “contrarre” con soggetti «quantomeno sospettati di aver commesso un delitto», cosicché non potrà di certo trovare applicazione la giurisprudenza richiamata secondo la quale l’eventuale consapevolezza della qualità criminale del proprio debitore è già sufficiente a ritenere integrata la fattispecie[3]; consapevolezza che sempre sussisterebbe nel caso in cui l’assistito abbia confessato la commissione di reati o sia intervenuta una condanna definitiva.

Inoltre, a meritare una diversa considerazione è prima e più in alto la diversa topografia degli interessi in gioco – «anche», e soprattutto aggiungeremmo noi, «sul piano costituzionale» –, tra i quali deve annoverarsi non solo la mera autonomia contrattuale, del tutto facilmente bilanciabile, ovvero anche il diritto al lavoro, anch’esso sacrificabile, ma anzitutto il diritto di difesa.

Un diritto, lo si osservi incidentalmente, che l’art. 24, secondo comma, Cost. espressamente qualifica come inviolabile (cfr. da ultimo Corte cost., sent. n. 228 del 2023); che rientra nel «novero dei diritti inalienabili della persona umana» (da ultimo Corte cost., sent. n. 111 del 2023); che è tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo (Corte cost., sent. n. 238 del 2014); e che va anzi annoverato «tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (Corte cost., sent. n. 18 del 1982).

È allora evidente che non si tratti affatto di una banale questione di applicazione della legge penale nel suo preclaro dettato normativo, quanto anzitutto di comprendere la praticabilità costituzionale, nel nostro sistema ordinamentale, di un diritto di difesa il cui esercizio sia posto sotto la perenne spada di Damocle della lente penalistica della ricettazione per i rapporti economici tra indagato e difensore.

Detto altrimenti, l’iniziativa del pubblico ministero milanese non scomoda l’attività ermeneutica o sussuntiva rispetto ad una norma del codice penale, ma il bilanciamento costituzionale tra gli interessi punitivi sottesi a quella fattispecie incriminatrice e il diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione.

  1. Il riferimento alla giurisprudenza costituzionale tedesca

Dinanzi a questa delicata operazione costituzionale, il G.I.P. milanese non può che constatare che si tratti di una questione sostanzialmente inedita per la giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, italiana. Tuttavia, anziché arrestarsi a questo dato, subito si osserva come essa sia stata invece approfonditamente affrontata dalla giurisprudenza, anche costituzionale, tedesca[4].

Questo sulla base del deciso orientamento della magistratura inquirente di applicare la fattispecie incriminatrice di riciclaggio – nella previsione del secondo comma del §261 StGB non lontana in realtà dalla nostra fattispecie incriminatrice di ricettazione – anche all’avvocato difensore in relazione ai compensi professionali.

Solo per fornire i contorni del fenomeno, prima della sentenza del Bundesverfassungsgericht, che tale prassi ha fortemente stigmatizzato, la magistratura inquirente tedesca aveva proceduto a ben 37 procedimenti penali nei confronti di altrettanti avvocati difensori, 23 dei quali iniziati prima della conclusione del processo nei confronti dei rispettivi assistiti, effettuando in ben 28 casi perquisizioni locali presso gli studi professionali, in almeno 4 dei quali si procedeva a sequestro dei fascicoli difensivi.

Anche nella magistratura giudicante, accanto a decisioni assolutorie basate su un’interpretazione restrittiva costituzionalmente orientata della fattispecie incriminatrice[5], si era del resto assistito a condanne definitive per riciclaggio dei difensori imputati, sopravvissute finanche al vaglio del Bundesggerichtshof[6].

È in questo conteso che il Bundesverfassungsgericht si è trovato a pronunciarsi – dapprima sulla fattispecie meno grave del secondo comma del § 261 StGB[7], e poi, dinanzi a tentativi della magistratura inquirente di far ricorso direttamente alla fattispecie canonica di riciclaggio di cui al primo comma, su quest’ultima[8] – in ordine al bilanciamento operato dal legislatore tra la tutela dell’ordine pubblico e la repressione dei reati, da un lato, e il diritto di difesa dei cittadini, dall’altro[9].

La struttura delle due decisioni segue pedissequamente lo schema del giudizio di proporzionalità (Verhältnismäßigkeitsprüfung) che rappresenta lo schema in assoluto più adoperato dal Tribunale costituzionale federale tedesco, del quale è divenuto un fortunatissimo “prodotto da esportazione”[10].

 In primo luogo il Bundesverfassungsgericht individua nel diritto al libero esercizio della propria professione e nel diritto di difesa, come corollario dello stato di diritto, i due diritti fondamentali in gioco; si osserva in seguito che tali diritti sono limitati dalla fattispecie di riciclaggio e che tale limitazione assume un’intensità maggiore rispetto all’avvocato difensore, poiché la sua professione lo porta inevitabilmente a dover indagare, nel rapporto con il mandante, sulla possibile origine delittuosa del suo onorario; si registra altresì come la fattispecie di riciclaggio ponga il difensore nella condizione di dover tutelare il proprio interesse a non essere penalmente perseguito in conflitto con la tutela dell’interesse del proprio assistito, la quale dovrebbe invece costituire, secondo il quadro costituzionale del diritto di difesa, l’unica preoccupazione del difensore; inoltre, poiché il difensore non è tenuto al rispetto del segreto professionale nei procedimenti nei quali sia coinvolto a titolo di indagato, l’indiscriminata applicazione della fattispecie di riciclaggio ai difensori ben può indurre il mandante a ritenere de facto insussistente la tutela del segreto professionale; si osserva, infine, come si possa spesso arrivare alla situazione estrema nella quale il procedimento per riciclaggio contro il difensore impedisca allo stesso di continuare la sua attività di patrocinio dell’assistito.

Riassumendo, ben si mettono in risalto i vertiginosi rischi per l’attività difensiva provenienti dall’applicazione in questo peculiare contesto di tali fattispecie.

Dopo una così ricca e compiuta argomentazione sulla limitazione di tali diritti fondamentali da parte della fattispecie incriminatrice in esame, il Tribunale costituzionale federale tedesco si interroga, quindi, sulla sua proporzionalità: in primo luogo, osserva che la fattispecie incriminatrice mira certamente al perseguimento di un legittimo interesse di tutela, cercando di contrastare la possibilità per le organizzazioni criminali di godere dei proventi delle proprie iniziative delittuose; in seguito risolve sbrigativamente anche i passaggi dell’idoneità e della necessità della fattispecie incriminatrice, ritenendo la sanzione del difensore certo idonea e necessaria al raggiungimento di tale fine; infine, come nella maggior parte dei casi, il giudizio di proporzionalità ruota tutto attorno all’ultimo passaggio del bilanciamento tra i contrapposti interessi e diritti fondamentali, nel risolvere il quale il Bundesverfassungsgericht fa riferimento all’evidenza criminologica secondo la quale i difensori, anche per le caratteristiche insite nella professione, sono estranei a qualsiasi normale canale di riciclaggio utilizzato dalle organizzazioni criminali anche in ragione del rigoroso processo di selezione di questa categoria e del suo stringente corredo deontologico, sul cui rispetto è chiamato a vigilare un apposito organismo; infine, al Bundesverfassungsgericht pare dunque possibile constatare che l’utilità marginale per gli interessi perseguiti dal legislatore attraverso le fattispecie incriminatrici di riciclaggio è del tutto sproporzionata rispetto all’enorme limitazione dei diritti fondamentali precedentemente descritta.

Secondo il Tribunale costituzionale federale tedesco, tuttavia, l’irragionevolezza del bilanciamento legislativo non è superabile soltanto attraverso la dichiarazione di illegittimità dell’intera fattispecie rispetto all’avvocato difensore, ma anche attraverso una riscrittura in senso restrittivo della stessa, in virtù della quale si richieda la prova della certa conoscenza – quindi almeno a titolo di dolo diretto – della provenienza illecita del bene, escludendo dunque qualsiasi punibilità del difensore a titolo di dolo eventuale o di colpa[11]. Tale conoscenza deve, inoltre, sussistere già al momento dell’accettazione del mandato e, oltretutto, il difensore non è obbligato in alcun modo ad indagare circa l’origine legale o illegale dell’onorario. In merito, è interessante notare come la sentenza rivolga anche un chiaro monito alla magistratura inquirente a considerare i diritti fondamentali in gioco, così come descritti in sentenza, allorquando si interroghi sull’esistenza di validi presupposti per l’esercizio dell’azione penale, soprattutto in considerazione del peculiare elemento soggettivo da provare.

Molto si è detto in dottrina circa la correttezza del bilanciamento e soprattutto riguardo all’idoneità della soluzione indicata dal Bundesverfassungsgericht nel realizzare in concreto un bilanciamento ragionevole tra gli interessi confliggenti[12], potendosi dubitare che tale soluzione, tutta giocata sull’elemento soggettivo, riesca fino in fondo a garantire il diritto di difesa, ma certamente essa contribuisce a ridurre l’area del penalmente rilevante descritta dalla fattispecie e soprattutto, anche valorizzando il richiamo finale alla magistratura inquirente, a inviare un chiaro messaggio culturale.

La riflessione del Bundesverfassungsgericht, in una forse inedita – quantomeno in termini così chiari – cross-fertilization tra giurisprudenza costituzionale straniera e addirittura giurisdizione ordinaria italiana, diviene per il G.I.P. milanese una perfetta descrizione, anche nel nostro ordinamento, degli interessi costituzionali in gioco, della forte limitazione del diritto di difesa da parte dell’intervento punitivo per riciclaggio/ricettazione, del suo carattere grandemente sproporzionato rispetto alle pur «fondamental[i] esigenz[e] di trasparenza del sistema economico», che tali fattispecie intendono tutelare.

Così, anche in Italia come in Germania, vale per il giudice milanese come “punto di caduta” minimo per la ragionevolezza del bilanciamento tra gli opposti interessi, l’esclusione, in questo ambito, di «qualsiasi spazio per il dolo eventuale».

  1. L’accertamento del giudice nel caso di specie

È alla luce di questa «premessa» costituzionale che il G.I.P. milanese procede al vaglio della richiesta del pubblico ministero con riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in capo ai due difensori.

In questa prospettiva, non può che emergere ictu oculi l’insufficienza degli elementi raccolti dalla pubblica accusa.

Nessun valore può avere una generica affermazione di un legame di amicizia indissolubile tra uno degli indagati e i suoi difensori, né tanto meno quel riferimento al «grande capo» dal tono scherzoso formulato da uno dei difensori nei confronti di uno degli indagati.

Nessun valore, infine, con riferimento al reato di ricettazione, può darsi alla scelta del denaro contante come mezzo di pagamento, anche in misura superiore ai prescritti limiti di legge. Anzi proprio la spiegazione data dagli indagati in ordine alla necessità di pagamenti rateali, e cioè che ciò sia necessario per consentire che tali somme siano portate in Italia dall’estero rispettando i limiti doganali, vieppiù autorizza a pensare che i difensori indagati si prospettassero una provenienza lecita del denaro del loro compenso professionale, frutto dei risparmi dei soggetti in patria, vista la mancanza di occupazione in Italia.

D’altronde è uno dei difensori a spiegare il motivo, del tutto slegato dalla necessità di occultare la provenienza illecita delle somme, della richiesta del pagamento in contanti del compenso professionale, giustificandolo alla luce degli adempimenti tributari legati all’incasso di queste somme, verosimilmente evitabili attraverso il pagamento in contanti di parte di tale compenso.

Dunque, difetta qualsiasi elemento sufficiente a fondare una gravità indiziaria rispetto al dolo di ricettazione nei confronti dei due difensori, forse oltretutto già al metro del normale standard di giudizio rispetto a tale fattispecie incriminatrice, prima ancora di dover scomodare qualsiasi più restrittivo vaglio legato alla peculiarità costituzionale dell’attività difensiva possibilmente incisa da un intervento penalistico di questo tipo.

  1. La dimensione costituzionale della questione della ricettazione del difensore

Difficile aggiungere molto a una decisione già così puntuale ed approfondita, che si muove agevolmente dal piano della legge ordinaria al piano dei bilanciamenti costituzionali, fino a tornare alla normale attività di verifica del compendio indiziario con riferimento alla fattispecie incriminatrice re-interpretata in chiave costituzionale. Ci si può limitare allora a introdurre due soli spunti di riflessione.

In primo luogo, se è sì vero che la giurisprudenza costituzionale italiana non ha mai affrontato ex professo il tema della ricettazione del difensore, è pur vero che ha offerto in più occasioni saldi punti di riferimento con riguardo al ruolo del difensore.

Anzitutto, nel dichiarare costituzionalmente illegittime le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di 41-bis, la Corte costituzionale aveva osservato «come i colloqui difensivi abbiano, per definizione, quali interlocutori “esterni” del detenuto, persone appartenenti ad un ordine professionale (quello degli avvocati), tenute al rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza»[13]. Un argomento, lo si è visto, identico a quello speso dal  Tribunale costituzionale federale tedesco nelle decisioni richiamate.

Successivamente nella scia di questa decisione, nell’affrontare con una nuova decisa pronuncia di accoglimento, la questione della legittimità del controllo sulla corrispondenza tra detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. e il proprio difensore, la Corte non ha esitato a stigmatizzare come la disposizione censurata si fondasse «su una generale e insostenibile presunzione […] di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso»[14].

Proprio il non casuale riferimento della nostra Corte costituzionale a un più vasto e più alto orizzonte nel quale ascrivere questioni attinenti alla difesa penale, che finiscono con l’attingere la stessa natura di stato di diritto dell’ordinamento, è il miglior viatico per un secondo spunto di riflessione. Ci si riferisce a un’ulteriore chiave di lettura di queste vicende, che emerge sottotraccia nella decisione dello stesso Bundesverfassungsgericht, che tuttavia non vi fa mai diretto riferimento: quella dell’istituto, da tempo studiato nell’ambito della teoria generale dei diritti fondamentali, del chilling effect, per il quale attività di gran rilievo sociale finiscono per essere omesse dai consociati sulla base del percepito rischio incombente di applicazione di una fattispecie incriminatrice limitrofa[15].

Tale considerazione induce a ritenere, nel compiere il giudizio di proporzionalità prima riportato, che sia necessario guardare non solo e non tanto alla limitazione dell’esercizio del diritto di difesa nel singolo caso, assegnando un “peso” a tale interesse con riguardo agli indagati della singola vicenda. Occorre, piuttosto, calibrare l’equilibrio tra gli interessi in gioco alla luce degli effetti che la vicenda in esame andrà ad esplicare sulla generalità degli avvocati difensori e, quindi, a cascata sul generale esercizio del diritto di difesa nel nostro ordinamento.

In effetti, a ciascuno avvocato giunge forte e chiaro il messaggio da questa richiesta di misura cautelare e un domani dalla sua applicazione o addirittura dalla condanna, dell’esistenza di un rischio penale che avvolge l’esercizio della difesa con riferimento alla ricezione delle somme di denaro del compenso pattuito. Un rischio al quale tale avvocato potrebbe verosimilmente rispondere con atteggiamenti difensivi volti a limitarlo, ma forieri di conseguenze negative per l’assistito, il cui interesse smette di essere il primo e principale riferimento del suo difensore.

Non è un caso che a questo effetto indesiderato di sistema[16], ben al di là della singola vicenda, si siano rivolte le preoccupazioni manifestate dall’avvocatura a seguito della lettura della decisione in esame.

Sotto l’angolo di osservazione del chilling effect, la soluzione della vicenda data dal Bundesverfassungsgericht, e seguita dal G.I.P. milanese, di incidere esclusivamente sull’elemento soggettivo, è sicuramente parziale e non completamente soddisfacente. Essa può infatti funzionare soltanto nella misura in cui gli organi della pubblica accusa facciano proprio il messaggio culturale di queste decisioni, evitando di aprire procedimenti in assenza di gravi indizi della presenza del pregnante dolo richiesto per integrare la fattispecie incriminatrice.

Se è fondamentale allora guardare anzitutto al messaggio culturale di tali decisioni, merita di essere riportato verbatim l’ammonimento finale che il Tribunale costituzionale federale tedesco rivolge alla pubblica accusa, il quale avrebbe rappresentato naturalmente un fuor d’opera nell’ambito dell’ordinanza in commento, ma non lo è affatto in questa sede:

«il pubblico ministero è obbligato a tenere in particolare considerazione i pericoli per gli interessi costituzionalmente protetti sopra descritti quando esamina e decide se un sospetto iniziale di riciclaggio di denaro contro un avvocato difensore debba essere confermato. Nelle prime fasi di un’indagine, la questione della possibilità di dimostrare la necessaria forma di colpevolezza non può di solito essere risolta con certezza. Il punto di riferimento più importante è generalmente dato dall’integrazione degli elementi oggettivi del reato, la quale, poiché la fattispecie incriminatrice in esame sanziona un comportamento socialmente adeguato, in questo caso è di scarsa rilevanza. […] L’esistenza di indizi di reato a carico del difensore richiede il riscontro di indizi concreti e basati sui fatti per supporre che il difensore abbia agito in malafede al momento dell’accettazione dell’onorario. La Costituzione impone anche ai pubblici ministeri di esercitare una certa cautela nella conduzione delle indagini preliminari. Per quanto riguarda la decisione se gli indizi esistenti nei confronti del difensore obblighino a richiedere il rinvio a giudizio, il pubblico ministero deve tener conto, oltre che dell’ingerenza nel diritto all’esercizio della professione da parte del difensore interessato, anche del fatto che ciò può compromettere il diritto del suo mandante all’assistenza tecnica di un difensore di sua fiducia. Poiché il pubblico ministero è vincolato al principio di proporzionalità e farà solo un uso parsimonioso dei poteri di intervento che gli spettano, l’“immunità investigativa” per gli avvocati difensori richiesta da alcune parti della letteratura non è necessaria».

Qualora, però, la pubblica accusa continui pervicacemente ad operare un intenso controllo penale dell’attività difensiva, contravvenendo a questo invito a un «uso parsimonioso» dei suoi poteri, non potrà essere ancora rinviata la necessità di una soluzione più drastica e definitiva del problema, ricavando una completa immunità del difensore rispetto alla fattispecie incriminatrice di ricettazione, in via legislativa ovvero attraverso la sottoposizione di una questione di legittimità costituzionale al Giudice delle leggi.

5. Riflessioni conclusive

La vicenda della ricettazione del difensore si presta in maniera esemplare a qualche considerazione più generale sullo stesso ruolo e significato dell’intervento penale.

A noi pare, infatti, che a dover essere ripensata, sin dalle sue radici culturali, è l’idea, da cui muove anche in questo caso la pubblica accusa, che il diritto penale – qui rappresentato oltretutto dalla fattispecie di certo non di somma gravità della ricettazione – debba essere applicato coûte que coûte, senza esitazione, in ogni interstizio dei rapporti sociali. In altri termini, l’idea che il diritto penale abbia come riferimento solo la vicenda concreta micro nella quale è chiamato a comunicare un giudizio morale sui protagonisti, distinguendo tra i cattivi, i rei, e i buoni, le vittime.

Il diritto penale, invece, come mostra chiaramente questo caso, è strumento macro di regolazione dei rapporti sociali, di implementazione di politiche pubbliche; uno strumento che ben può e deve talvolta tollerare che “i cattivi” della vicenda concreta non siano puniti per l’interesse pubblico che ciò permette di raggiungere. Nelle parole della Corte suprema americana, occorre riconoscere un «breathing space» ai diritti fondamentali[17], dinanzi a un esercizio dei poteri d’accusa penale che invece vorrebbe rendere asfittici tutti gli spazi appena al di fuori del perimetro di tali diritti.

Per venire esemplificativamente al nostro caso, non si tratta, in definitiva, di credere fideisticamente al dogma che non vi sarà mai un avvocato che possa rendersi responsabile di ricettazione, quanto piuttosto di comprendere che l’esigenza di sottoporlo a pena non varrà mai per il nostro ordinamento costituzionale quanto la certezza di aver assicurato il pieno esercizio del diritto di difesa in centinaia, migliaia di altri casi.

*Ricercatore a tempo determinato di tipo b) in Diritto penale Università degli Studi di Trieste

[1] Cfr. i comunicati dell’Unione Italiana delle Camere penali, dell’Ordine degli Avvocati di Milano e della Camera penale di Milano.

[2] V. Cass. Pen., Sez. Un., sent. 26 novembre 2009 (dep. 30 marzo 2010), n. 12433, sulla quale, ex multis, G.P. Demuro, Il dolo eventuale: alla prova del delitto di ricettazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 308 ss.; M. Donini, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. Le Sezioni Unite riscoprono l’elemento psicologico, in Cass. pen., 2010, 2555 ss.; P. Pisa, Punibilità della ricettazione a titolo di dolo eventuale, in Dir. pen. proc., 2010, 826 ss.

[3] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, sent. 8 gennaio 2020 (dep. 27 maggio 2020), n. 15926.

[4] Per una valorizzazione di questa giurisprudenza nella dottrina italiana, sia consentito rinviare a N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale. Scelte di criminalizzazione e ingerenza nei diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2020, 279 ss.

[5] V. OLG Hamburg, 2 Ws 185/99, 6 gennaio 2000, sulla quale cfr. W. Hetzer, Geldwäsche und Strafverteidigung, in wistra, 2000, 1387 ss.; A. Burger-J. Peglau, Geldwäsche durch Entgegennahme „kontaminierten“ Geldes als Verteidigerhonorar, in wistra, 2000, 161 ss.

[6] Cfr. BGH, 2 StR 513/00, 4 luglio 2001, sulla quale si vedano le dure critiche della dottrina, ex multis, C. Nestler, Der Bundesgerichtshof und die Strafbarkeit des Verteidigers wegen Geldwäsche. Besprechung von BGH Urt. v. 4.7.2001 – 2 StR 513/00, in StV, 2001, 641 ss.; H. Matt, Geldwäsche durch Honorarannahme eines Strafverteidigers, Besprechung von BGH, Urteil vom 4.7.2001, 2 StR 513/00, in GA, 2002, 137 ss.

[7] BVerfG, 2 BvR 1520/01 et al., 30 marzo 2004, Geldwäsche, BVerfGE 110, 226, 244.

[8] Id., 2 BvR 2558/14 et al., 28 luglio 2015.

[9] Si noti, per dovere di precisione, che il parametro formale di giudizio, in mancanza di un ancoraggio testuale esplicito del diritto di difesa nella Grundgesetz, sia stato, invero, il diritto al libero esercizio della propria professione.

[10] Cfr. ancora volendo N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale, cit., 110 ss.

[11] Per dovere di completezza occorre notare che proprio su questo punto si differenzia dalla prima decisione quella più recente sulla fattispecie di riciclaggio, nella quale il Bundesverfassungsgericht rimette al giudice comune il compito di scegliere l’interpretazione restrittiva più adeguata per riequilibrare l’errato bilanciamento legislativo, non entrando nella discussione sull’opportunità anche in questo caso di una restrizione dell’elemento soggettivo, richiedendo anche qui il dolo diretto della provenienza delittuosa, oppure, come pure proposto in dottrina, di adottare già in sede di interpretazione dell’elemento oggettivo del reato di riciclaggio un orientamento più restrittivo, richiedendo un carattere manipolativo della condotta.

[12] La prima decisione del Bundesverfassungsgericht è stata positivamente accolta nella dottrina da S. Barton, Verteidigerhonorar und Geldwäsche, in JuS, 2004, 1037; H. Dahs-D.M. Krause-G. Widmaier, Strafbarkeit des Verteidigers wegen Geldwäsche durch die Annahme des Honorars, in NStZ, 2004, 259 ss.; H. Matt, Verfassungsrechtliche Beschränkungen der Strafverfolgung von Strafverteidigern, in JR, 2004, 321 ss.; B. Müssig, Strafverteidiger als „Organ der Rechtspflege“ und die Strafbarkeit wegen Geldwäsche. Zu (strafrechtsdogmatischen) Perspektiven der Strafverteidigung nach dem Geldwäscheurteil des BVerfG, in wistra, 2005, 201 ss. Contra, sostenendo la necessità di escludere gli onorari del difensore già dal fatto tipico oggettivo della fattispecie incriminatrice, W. Wohlers, Anmerkung zu BVerfG 30. März 2004, 2 BvR 1520, in JZ, 2004, 678 ss. Contra, sottolineando il pericolo di un utilizzo comunque strumentale dell’armamentario investigativo, ancora giustificato rispetto alla fattispecie pur ritagliata soltanto sul dolo diretto, M. Gräfin von Galen, Die reduzierte Anwendung des Geldwäschetatbestands auf die Entgegennahme von Strafverteidigerhonorar. Drahtseilakt oder Rechtssicherheit?, in NJW, 2004, 3304 ss. Contra, sottolineando l’opportunità di estendere la portata della decisione anche a tutti gli analoghi casi in altre professioni, O. Ranft, Verteidigerhonorar und Geldwäsche – Die Entscheidung des BVerfG vom 30.3.2004, in JURA, 2004, 764 s.

Per una critica serrata della decisione del Bundesverfassungsgericht per la ragione diametralmente opposta di aver ingiustamente ridotto l’area del penalmente rilevante in questo contesto si veda T. Fischer, Ersatzhehlerei als Beruf und rechtsstaatliche Verteidigung, in NStZ, 2004, 473 ss.

[13] Corte cost., 20 giugno 2012, n. 143, punto 7. del Considerato in diritto; sulla quale cfr. V. Manes/ V. Napoleoni, Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di “carcere duro”: nuovi tracciati della corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in Dir. pen. cont., 2013; M. Ruotolo, Le irragionevoli restrizioni al diritto di difesa dei detenuti in regime di 41-bis, in Giurcost, 2013.

[14] Corte cost., 24 gennaio 2022, n. 18, punto 4.4.2. del Considerato in diritto. Su tale rilevante pronuncia cfr. M. Ruotolo, Visto di censura della corrispondenza e diritto di difesa. Un esito nella sostanza condivisibile, raggiunto con una discutibile tecnica decisoria, in Diritto di Difesa, 2022; A. Ragazzo, La Corte Costituzionale dichiara illegittimo il controllo sulla corrispondenza tra detenuto sottoposto al regime ex art 41-bis ed il proprio difensore, in Diritto di Difesa, 2022; M. Brucale, Con la sentenza n. 18 del 2022 la Corte costituzionale afferma che la corrispondenza del detenuto in regime derogatorio ex art. 41 bis comma II O.P. con il proprio difensore non è assoggettabile a visto di censura, in Questione Giustizia, 2022; C. Cataneo, Per la Corte costituzionale è illegittima la sottoposizione al visto di censura della corrispondenza tra difensore e detenuto in regime di 41-bis, in Sist. Pen., 2022; F. Mennella, La Corte costituzionale torna sulla garanzia del diritto di difesa dei detenuti in regime di cui all’art. 41 bis nelle comunicazioni con il proprio difensore. Commento alla sentenza Corte cost. n. 18 del 2022, in Oss. Cost., 2022; L. Sottile, L’intervento manipolativo della Corte costituzionale nel quadro della conformazione costituzionale del diritto di difesa nell’esecuzione penale (riflessioni a margine della sentenza n. 18 del 2022), in Giurcost, 2022, 1016 ss.

[15] Sia consentito, ancora una volta, il riferimento a N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale, cit., 252 ss.

[16] Sulla centralità della considerazione di tali effetti nella formulazione delle scelte di criminalizzazione, cfr. M. Galli/N. Recchia (a cura di), Gli effetti collaterali delle scelte di criminalizzazione, Editoriale scientifica, Napoli, 2023, in particolare M. Galli, Gli effetti “collaterali” delle scelte di criminalizzazione: dagli aspetti definitori allo strumentario operativo, 17 ss.

[17] L’espressione è adoperata per la prima volta da Justice Brennan, scrivendo a nome della maggioranza nel caso U.S. Supreme Court, 371 U.S. 415 (1963), NAACP v. Button e poi ripresa in innumerevoli occasioni nella giurisprudenza successiva.