Enter your keyword

IL CASO TOTI E L’EFFETTO CONGELAMENTO SULL’ATTIVITÀ POLITICA – DI NICOLA MADÌA

IL CASO TOTI E L’EFFETTO CONGELAMENTO SULL’ATTIVITÀ POLITICA – DI NICOLA MADÌA

MADIA – IL CASO TOTI E L’EFFETTO CONGELAMENTO SULL’ATTIVITÀ POLITICA.PDF

IL CASO TOTI E L’EFFETTO CONGELAMENTO SULL’ATTIVITÀ POLITICA
di Nicola Madìa*

Il contributo, prendendo spunto da alcune recenti indagini giudiziarie coinvolgenti amministratori pubblici, s’interroga circa il possibile effetto congelamento sull’attività politica in generale che determinate applicazioni del paradigma corruttivo, in apparente contrasto col canone della proporzionalità, in voga soprattutto presso la magistratura inquirente, possono provocare.

The contribution, taking its cue from some recent judicial investigations involving public administrators, questions the possible chilling effect on political activity in general that certain applications of the corrupt paradigm, in apparent contrast to the canon of proportionality, in vogue especially with the investigative judiciary, may cause.

Sommario: 1. La rarefazione dei presupposti della corruzione politica in recenti inchieste giudiziarie. – 2. Eccedenze applicative della corruzione ed effetto deterrente sulla legittima attività politica – 3. L’esegesi proporzionata della corruzione fornita dalla Cassazione. – 4. Considerazioni e auspici conclusivi.

1. La rarefazione dei presupposti della corruzione politica in recenti inchieste giudiziarie.

Recenti inchieste giudiziarie relative ad ipotesi di corruzione coinvolgenti esponenti politici investiti di incarichi di responsabilità, sembrano reggersi sui seguenti presupposti fattuali: i) la ricezione di regolari finanziamenti elettorali da parte del pubblico ufficiale; ii) interlocuzioni intrattenute dal titolare della funzione con i finanziatori; iii) un generico interessamento dell’uomo politico rispetto a pratiche amministrative di interesse dei privati.
Non paiono presenti in simili contesti investigativi -perlomeno da quanto si può desumere dai resoconti giornalistici e dai provvedimenti giudiziari diffusi su siti specializzati- manipolazioni dei diversi iter amministrativi e – a prescindere dalla fisiologica aspettativa dei privati finanziatori di un interessamento del politico finanziato- un mercimonio -inteso nel senso di do ut des- tra erogazioni e condotte poste in essere dal pubblico agente.

2. Eccedenze applicative della corruzione ed effetto deterrente sulla legittima attività politica.

Stando così le cose, ci si domanda se ravvisare gli estremi della corruzione in simili scenari fattuali apra le porte ad un’applicazione sovrabbondante di queste ipotesi idonea ad attrarre nella morsa del diritto penale condotte apparentemente limitrofe a quelle incriminate, ma in realtà profondamente diverse sul piano tipologico e assiologico, generando un effetto di overdeterrence sull’attività politica lato sensu intesa, nell’ambito di un ordinamento in cui è stato eliminato il finanziamento pubblico ai partiti e ai loro iscritti i quali, quindi, adesso possono sostenersi soltanto mediante contribuzioni private.
Le iniziative giudiziarie in discussione, infatti -ancorché in una fase fluida e suscettibile di approfondimenti e aggiustamenti-, sembrano indicative della propensione a stigmatizzare una generica fenomenologia comportamentale, più che contegni davvero ascrivibili al paradigma della corruzione, entrando in rotta di collisione, prima che col tenore testuale, con la ratio istitutiva di queste figure di reato, infrangendo il principio di proporzionalità, ormai diventato autonomo caveat costituzionale , capace di vincolare, come tale, l’azione del legislatore e l’attività ermeneutica del giudice, al fine di evitare eccedenze applicative capaci di causare l’ingiusta, iniqua e, soprattutto, non prevista dal testo e dalla ratio legis, repressione di condotte corrispondenti all’esercizio di diritti fondamentali, estranee, sul piano valoriale, prima che letterale, dall’area d’incidenza del diritto penale.
Se, in alcuni casi, è la stessa opzione punitiva a risultare sproporzionata in relazione al fatto perseguito ove comparata, in esito a un bilanciamento tra costi e benefici, ad altri diritti fondamentali passibili di compressione (si pensi alla cancellazione della pena detentiva per la diffamazione in ragione del c.d. chilling effect sprigionato sulla libera stampa) , altre volte non è tanto l’esistenza di una fattispecie o la pena da cui è accompagnata a generare un effetto congelamento sul libero esercizio di prerogative di base della persona, quanto, più propriamente, la sua sovraestensione applicativa.
L’impiego in chiave ermeneutica del canone della proporzionalità permette di accertare un’irragionevole estensione dell’operatività di talune fattispecie – accompagnate, per giunta, da aspri riflessi sanzionatori- che finisce per conculcare l’esercizio di diritti fondamentali confliggenti.
Talune ipotesi astratte si prestano effettivamente ad impattare su diritti basilari della persona e la loro interpretazione in distonia col principio di proporzionalità crea il serio pericolo di produrre un effetto paralizzante sull’esercizio di attività fondamentali financo per la collettività.
Le ipotesi di corruzione offrono il fianco a letture idonee a incidere in profondità sul libero svolgimento del diritto di elettorato passivo, nella misura in cui si giunga ad ascrivere al loro perimetro quella casistica che vede l’esponente politico ricevere finanziamenti trasparenti e leciti a fronte della promozione di un’azione gradita al finanziatore, ma svolta, pur sempre, nell’assoluto rispetto delle regole, nell’interesse generale e in assenza di qualsiasi patto a prestazioni corrispettive definito col privato .
In un sistema che ha abolito il finanziamento pubblico alla politica – col d. l. 28 dicembre 2013, n. 149, conv. con modif., dalla l. 21 febbraio 2014, n. 13- e che ha regolamentato quello privato -da ultimo, e in maniera piuttosto stringente, attraverso le modifiche introdotte dalla l. 9 gennaio 2019, n. 3 -, sarebbe impossibile pretendere che un privato finanzi un esponente di partito senza auspicare di contribuire all’elezione di un amministratore sensibile ai suoi interessi, col quale avere una qualche forma d’interlocuzione, con l’effetto che riportare al paradigma della corruzione gli atti poi compiuti dall’eletto nell’interesse generale, ma ridondanti anche a favore del privato, significa, di fatto, impedire qualsiasi forma di sovvenzionamento dell’attività politica, generando effetti perniciosi sullo stesso equilibrato esplicarsi di una democrazia compiuta.
A queste condizioni, gli unici soggetti in grado di ambire a cariche elettive diventerebbero coloro che dispongono di ingenti risorse proprie, con l’indiretta trasformazione del nostro assetto interno in una Repubblica fondata sul censo.
E questo, tanto più ove si ponga mente ai severissimi compassi edittali che accompagnano le fattispecie di corruzione, idonei a determinare viepiù un effetto paralizzante.
In effetti, in Germania, il § 108e StGB, che delinea un’autonoma ipotesi di corruzione per titolari di incarichi elettivi, fondata sull’accettazione o sulla promessa di un vantaggio ingiustificato, lascia fuori dal suo raggio d’incidenza dazioni conformi alla legge .
Inoltre, lo stesso § 108e StGB, esige che la prestazione del pubblico agente avvenga su mandato o direttiva del privato finanziatore, così esplicitando la necessità che l’attività d’ufficio rinvenga la sua genesi esattamente nell’accordo col corruttore e non sia espressione di orientamenti e indirizzi politici propri del politico, svincolati dalle dazioni ricevute o promesse .
Perché si integri la corruzione, in definitiva, non basta la percezione di regolari finanziamenti da parte del politico o di enti e fondazioni a lui collegate, non bastano interlocuzioni tra finanziatore e finanziato, non basta che il politico realizzi iniziative che, effettivamente, coincidano con l’interesse dei finanziatori, occorre, altresì, che il tutto rientri in un preciso – e, vorremmo aggiungere, in linea con quanto adesso pretende la Corte Suprema USA nel valutare i finanziamenti delle campagne elettorali, esplicito – accordo, fondato sulla logica sinallagmatica del do ut des, volto allo svolgimento strumentale della funzione, o all’emanazione di un atto illegittimo, nel caso di corruzione propria, in quanto contrario alla legalità dell’azione amministrativa e non semplicemente connotato da imparzialità .
Insomma, non è sufficiente interloquire col proprio elettore/finanziatore, rispondendo alle sue legittime istanze, perché ciò inibirebbe la ricerca di finanziamenti per l’attività politica, di fatto impedendola, ovvero, disincentiverebbe i privati a foraggiarla, sapendo che poi, proprio tale contributo, impedirà qualsiasi rapporto col pubblico amministratore, pena l’incappare nei rigori del diritto penale.
È, invero, fisiologico e connaturato ad un sistema che ha imboccato la strada del finanziamento privato ai partiti e ai loro esponenti che sorga un generico potere d’influenza del finanziatore e si cimentino dei rapporti col politico .
Così come è del tutto normale che l’azione politica di un esponente eletto possa corrispondere agli interessi del privato finanziatore, giacché è ovvio che, qualunque cittadino o imprenditore o soggetto giuridico scelga di sovvenzionare un candidato, il quale basi il suo impegno pubblico sulla promozione di valori e interessi da lui condivisi, dalla sua attività non può che attendersi un qualche ritorno .
Quando i finanziamenti elettorali sono leciti e trasparenti, come osservato in dottrina, l’ipotesi alternativa alla corruzione, ossia la volontà di sostenere l’azione politica di un soggetto del quale si condividono valori e interessi, al di là e a prescindere da qualsiasi intesa corruttiva, tende a prevalere sul piano probatorio . Il tutto, viepiù ove ci si trovi al cospetto di atti legittimi in quanto, magari, posti in essere nell’esercizio di poteri molto ampli -come quelli di cui è investito un Presidente di Regione ça va sans dire-, che gli consentono di beneficiare di vasti margini di discrezionalità idonei a confortare una ricostruzione del suo agire improntata, non già all’asservimento della sua funzione, quanto, piuttosto, all’interesse generale secondo la sua visione politica .
Come si vede, in questi casi, il canone della proporzionalità impiegato quale strumento euristico consente di arginare eccedenze applicative che renderebbero intollerabile l’esistenza di talune fattispecie all’interno dell’ordinamento statuale visto nel suo complesso, generandosi costi troppo alti per l’individuo e anche per la collettività.
Si produrrebbe, infatti, anche al di là delle intenzioni del legislatore, un effetto collaterale di overdeterrence su tutti gli aspiranti a cariche pubbliche, in ragione dell’autentico terrore che indurrebbe l’incertezza di potere subire gli incalcolabili danni professionali, reputazionali, familiari ed esistenziali connessi, prima che a un processo o a una condanna, soltanto a un procedimento penale, per condotte fisiologiche e connaturate al mandato elettivo, ma suscettibili di generare equivoci e attenzione da parte della magistratura .

3. L’esegesi proporzionata della corruzione fornita dalla Cassazione.

In linea con gli svolgimenti argomentati esposti, la Cassazione ha avviato da tempo un virtuoso trend ermeneutico in ossequio al quale, proprio con l’intento di prevenire sovraestensioni operative delle fattispecie di corruzione, in omaggio al canone della proporzionalità, ha esaltato – un po’ come avvenuto in Germania da parte del Bundesgerichtshof in ordine all’ipotesi di Vorteilsannahame prevista nel § 331 dello StGB – l’insuperabile necessità di dimostrare la ricorrenza di un pactum sceleris tra privato e pubblico agente, volto alla mercificazione di pubbliche funzioni per scopi distonici rispetto all’interesse generale.
Infatti, nell’elaborazione attuale, la Suprema Corte di Cassazione, nel rammentare che il reato di corruzione, nelle sue varie ipotesi, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, a concorso necessario, di natura bilaterale, fondato sul pactum sceleris tra privato e pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio), aggiunge che la sua configurazione si manifesta solo se entrambe le condotte, del funzionario e dell’extraneus, in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente. In particolare, deve essere accertato il nesso tra l’utilità e l’atto da compiere o compiuto da parte del pubblico ufficiale, e se il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione e della accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità.
Non è sufficiente la mera circostanza dell’avvenuta dazione, dovendosi dimostrare la finalizzazione di tale erogazione all’impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri d’ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica .
Successivamente , la Suprema Corte di Cassazione ha avuto occasione di ribadire come la sola ricezione dell’utilità non sia idonea a svolgere una funzione di prova della partecipazione di un soggetto all’accordo criminoso, non potendosi dare per scontato quello che, invece, dovrebbe essere oggetto di una specifica dimostrazione sulla base del consolidato principio secondo cui, ai fini dell’accertamento del delitto di corruzione propria, nell’ipotesi in cui la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale risultino provate, è necessario appurare che il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta prestazione dell’utilità.
Più di recente, la Corte ha confermato come, ai fini della corruzione, debba essere acclarato con certezza il nesso teleologico tra l’utilità e l’atto del pubblico ufficiale, nel senso che la dazione non è sufficiente a dimostrare l’accordo illecito in assenza della prova che la stessa costituisca l’adempimento del patto corruttivo .
La Corte si è poi premurata di censurare operazioni esegetiche inclini a confondere la contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio con la mera violazione del dovere d’imparzialità, conseguente alla remunerazione ricevuta dal pubblico ufficiale ad opera del privato. In tempi a noi ravvicinati, la Cassazione ha osservato come considerare atto contrario la semplice strumentalizzazione o distorsione dell’esercizio del potere del pubblico agente, derivante dalla retribuzione percepita o promessa, significa affermare l’inesorabile integrazione del reato di corruzione (propria) anche in assenza di un atto contra legem. Per contro, questo reato esige che la pecunia sceleris sia finalizzata al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio. Ne consegue che, in assenza di qualsiasi manipolazione dell’iter amministrativo da parte del soggetto pubblico, il reato è da escludere .
Tale assunto era già stato fatto proprio dalla Suprema Corte nel processo c.d. “mondo di mezzo”, dove si era affermato che la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità, a fronte del compimento di un atto discrezionale, non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stata condizionata dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia stato ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta avrebbe integrato il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione .
Tali indirizzi erano stati anticipati dalla Cassazione in passato , quando si sono sposate le conclusioni assolutorie raggiunte nel merito proprio in favore di un Presidente di Regione. Al fine di confermare la sentenza di proscioglimento, i Supremi giudici hanno osservato come non fosse manifestamente illogico ritenere che l’indizio desunto dal compimento, da parte dell’allora Presidente di Regione, di atti d’iniziativa diretti a determinare l’affidamento in gestione ai privati delle R.S.A., mediante una gara unica, risultasse “debole” sia sotto il profilo della gravità, sia sotto il profilo della precisione: sicuramente si trattava di atti caratterizzati da un contenuto ampiamente discrezionale e che, oggettivamente, costituirono la premessa necessaria per l’aggiudicazione in favore dell’imprenditore finanziatore; tuttavia, si trattava di atti non illegittimi, dai quali non derivò l’attribuzione di posizioni formali di vantaggio per il Consorzio facente capo al privato, e la cui adozione non poteva essere sicuramente individuata in una indebita concertazione tra il politico e l’imprenditore, stante la modesta entità dei contatti telefonici tra gli stessi e la possibilità di offrirne spiegazioni alternative in ordine al contenuto dei colloqui.
Anche perché non erano state accertate interferenze o interventi, formali o informali, dell’allora Presidente di Regione nella procedura di gara; inoltre, lo svolgimento della gara, seppure connotato da ampia discrezionalità, non era risultato affetto da illegittimità.

4. Considerazioni e auspici conclusivi.

Il breve giro d’orizzonte intorno all’incidenza del principio di proporzionalità sull’interpretazione dei paradigmi corruttivi dimostra, a nostro avviso, l’esigenza di maneggiare con cura la materia da parte della magistratura, soprattutto inquirente.
Procedere per il reato di corruzione nell’apparente assenza di un vero accordo a prestazioni corrispettive, basato su reciproci impegni, in mancanza di attività di manipolazione degli iter amministrativi e in presenza di trasparenti e leciti finanziamenti ricevuti dall’uomo politico, rischia di produrre l’over criminalization di condotte estranee al paradigma delittuoso.
Simile modus procedendi crea il terreno ideale per l’innesco di un effetto di inibizione sulla ricerca di contributi da parte degli aspiranti a cariche elettive e sulla propensione dei privati a sostenere l’azione politica, coltivando il legittimo e naturale auspicio di essere poi corrisposti nelle loro aspirazioni imprenditoriali, ancorché, ovviamente, all’infuori di qualsiasi preventiva illecita intesa di scambio.
E, in assenza della possibilità di rivolgersi a canali di finanziamento diversi, l’effetto overbreath che sprigiona questo tipo di applicazione della corruzione non può che ripercuotersi perniciosamente sul libero confronto democratico, restringendo la platea degli elegibili a coloro che beneficiano di patrimoni ingenti.
I rimedi a questi perniciosi effetti sistemici possono essere svariati.
Innanzitutto, oggi più di ieri, l’ordinamento contempla meccanismi procedurali incentivanti un uso sapiente dell’immenso potere assegnato all’Autorità inquirente di aprire indagini, iscrivendo persone sul registro degli indagati.
Tali meccanismi potrebbero fungere da contrappeso al pericolo di sovresposizioni di fattispecie a rischio overbreath.
È in questa direzione, in effetti, che si è mossa la c.d. riforma Cartabia laddove, nell’aggiungere il comma 1- bis all’art. 335 c.p.p. -con l’art. 15, comma 1, lett. a), n. 2), d.lgv. 10 ottobre 2022, n. 150-, ha imposto che l’iscrizione avvenga solo quando a carico di un soggetto emergano indizi di un reato, e non un semplice fumus o sospetto collegato alla sussistenza di un contegno dai tratti rarefatti e difficilmente inquadrabili nella fattispecie astratta.
In quest’ottica, la magistratura inquirente, prima di procedere per corruzione, dovrebbe fare tesoro delle chiare prese di posizione della Cassazione in materia.
Anche il primo comma dell’art. 408 c.p.p., interpolato dall’art. 22, comma 1, lett. e), d.lgv. 10 ottobre 2022, n. 150, sempre nell’ambito della riforma Cartabia, impone ora alla Pubblica Accusa di formulare richiesta di archiviazione quando gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna.
Per tale via, il legislatore ha in qualche modo positivizzato quell’indirizzo del Bundesverfassungsgericht alla stregua del quale il P.M. viene ritenuto obbligato, nel valutare se iniziare un’indagine in presenza di meri sospetti, a considerare gli altri interessi costituzionalmente protetti impattatati dalla sua scelta, in ossequio alla direttiva contenuta nella Grundgesetz che impone cautela all’autorità inquirente nella conduzione delle indagini .
Infatti, ha sottolineato il Tribunale costituzionale federale tedesco, la decisione se richiedere il rinvio a giudizio (in quel caso di un difensore accusato di riciclaggio in relazione agli onorari percepito per lo svolgimento dell’attività difensiva ) non può omettere di soppesare l’ingerenza di tale scelta sul diritto al libero esercizio -in quella fattispecie- della professione forense e, in generale, sul diritto di difesa.
E questo, in quanto, aveva osservato testualmente il Tribunale costituzionale federale tedesco: «(…) il pubblico ministero è vincolato al principio di proporzionalità e farà solo un uso parsimonioso dei poteri di intervento che gli spettano, l’“immunità investigativa” per gli avvocati difensori richiesta da alcune parti della letteratura non è necessaria» .
Se anche tale intervento non dovesse avere un impatto sui comportamenti della magistratura in generale e su quella inquirente in particolare, allora la Consulta potrebbe essere chiamata ad intervenire onde espungere dall’area d’incidenza del precetto alcune sottofattispecie ad esso ascritte, seppure solo in una prassi contrastante col diritto vivente, in opposizione al canone della proporzionalità.
Da tale angolazione, l’intervento del Giudice delle leggi, anche con una sentenza interpretativa di rigetto – proprio a causa dell’inesistenza di un diritto vivente da censurare-, dovrebbe essere invocato, non tanto in ragione di un deficit di determinatezza di fattispecie in realtà precise, ma a causa dell’impatto deflagrante e non preventivato su diritti fondamentali che simile esegesi può provocare .
Oppure, la Consulta dovrebbe procedere ricalcando lo spartito suonato nella sentenza 242 del 2019, quando ha “chiarito”, tramite una pronuncia parzialmente ablatoria, l’estraneità alla disposizione dell’art. 580 c.p. della norma concernente l’agevolazione all’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione fossero state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente .
Insomma, occorre auspicare immediati rimedi intra ordinamentali, anche perché soluzioni radicali, come quella di ormai imminente concretizzazione volta a eliminare l’abuso d’ufficio , anch’esso soggetto ad interpretazioni foriere di perversi effetti di overdeterrence , non possono certo essere percorse in relazione al comparto della corruzione, la cui rinuncia il sistema non può permettersi.
Ma è evidente che se non ci si adegua al canone esegetico della proporzionalità, soprattutto da parte della magistratura inquirente e di chi deve vagliare le sue iniziative, attraverso impieghi parsimoniosi dell’enorme potere di cui si è investiti, l’equilibrio tra i poteri e il corretto svolgimento della vita democratica potrebbero subire colpi importanti.

*Avvocato del Foro di Roma, abilitato alle funzioni di Professore Associato di Diritto Penale, ricercatore in diritto penale tipo B Università degli studi di Roma Tor Vergata