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IL GIUDIZIO DI PROPORZIONALITÀ DELLA PENA IN UNA RECENTE SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE – DI FRANCESCO FRATINI

IL GIUDIZIO DI PROPORZIONALITÀ DELLA PENA IN UNA RECENTE SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE – DI FRANCESCO FRATINI

FRATINI – IL GIUDIZIO DI PROPORZIONALITA DELLA PENA IN UNA RECENTE SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE.PDF

IL GIUDIZIO DI PROPORZIONALITÀ DELLA PENA IN UNA RECENTE SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

PROPORTIONALITY JUDGMENT OF PENALTY IN A RECENT SENTENCE BY CONSTITUTIONAL COURT

di Francesco Fratini*

In questo scritto viene commentata la sentenza n. 86 del 16 aprile 2024 della Corte costituzionale con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, co. 1 e co. 2 c.p. nella parte in cui non è previsto che la pena comminata è diminuita di un terzo per i casi nei quali il fatto risulti di lieve entità per la violazione degli artt. 3 e 27, co. 1 e co. 3 Cost.

Constitutional Court sentence n. 86 of 16th April 2024is commented in this writing. The Court declared unconstitutional for the violation of articles 3 and 27, par. 1 and 3 of the Constitution article 628 par. 1 and 2 of the criminal code where it did not foreseen that the penalty imposed is reduced by 1/3 in the cases in which the fact results to be of modest degree.

Sommario: 1) La questione decisa dalla Corte costituzionale – 2) Lo schema triadico del giudizio costituzionale sul principio di eguaglianza: i tertia comparationis e le pronunce additive in materia penale – 3) La violazione del principio di proporzionalità oggettiva e soggettiva.

1. La questione decisa dalla Corte costituzionale.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 86 del 16 aprile 2024 (le cui motivazioni sono state depositate il 13 maggio 2024) ha deciso la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Cuneo con ordinanza del 20 settembre 2023, dell’art. 628, co. 2 c.p. per violazione degli artt. 3 e 27, co. 1 e 3 Cost., “nella parte in cui non prevede una diminuente quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”.

Com’è noto, l’art. 628, co. 2 c.p. punisce il delitto di rapina impropria, ovvero la condotta di colui che adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione della cosa mobile altrui per assicurarne a sé o ad altri il possesso ovvero per procurare a sé o ad altri l’impunità. La norma prevede per la violazione di questa ipotesi di reato la stessa pena della rapina propria, di cui al primo comma dell’art. 628 c.p., ovvero la reclusione da cinque a dieci anni e la multa da € 927 a € 2.500. Inoltre, nel caso di rapina aggravata, come nel giudizio a quo, la pena è della reclusione da un minimo di sei ad un massimo di venti anni e della multa da € 2.000 a € 4.000.

La pena base della rapina, sia semplice che aggravata, è stata aumentata nel corso degli anni: nel caso dell’ipotesi di cui al primo comma, si è passati da una pena minima di anni 3 ad una di anni quattro ad opera della legge n. 103/2017 e poi all’attuale pena di anni cinque di reclusione ad opera della legge n. 36/2019; la pena minima dell’ipotesi aggravata, nella versione originaria del codice di anni quattro di reclusione, è stata aumentata prima ad anni quattro e mesi sei con la legge n. 497/1974, poi ad anni 5 per l’effetto della legge n. 103/2017 ed infine ad anni sei di reclusione con l’entrata in vigore della legge n. 36/2019.

Il giudizio a quo pendente dinanzi al Tribunale di Cuneo riguardava un’imputazione per rapina impropria aggravata dalla pluralità di autori avente ad oggetto beni di modico valore prelevati dagli scaffali di un supermercato e consumatasi con minacce ed una spinta al personale dell’esercizio. Il Collegio, pertanto, lamentando la sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto al fatto di reato di modesta offensività concreta, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in relazione a tre differenti parametri di giudizio ossia gli artt. 3 e 27, co. 1 e co. 3 Cost; dunque «la questione sollevata dal Tribunale di Cuneo richiede che il trattamento sanzionatorio della rapina impropria sia sottoposto al triplice test della proporzionalità relazionale (rispetto ad eventuali tertia comparationis), della proporzionalità oggettiva (rispetto alla tipologia di condotte rientranti nella fattispecie astratta) e della necessaria individualizzazione (rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto concreto)»[1].

La Corte ha accolto la questione in riferimento a tutti i parametri di giudizio.

Quanto al primo aspetto la Corte costituzionale ha rilevato l’incostituzionalità della norma utilizzando quale tertium comparationis il reato di estorsione, in relazione al quale, con la sentenza n. 120 del 2023 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 c.p. “nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”.

Secondo i giudici delle leggi, infatti, «la descrizione tipica operata dell’art. 628 cod. pen. evidenzia una latitudine oggettiva e una varietà di condotte materiali non meno ampia di quella del delitto di estorsione, poiché, anche nella rapina, la violenza o minaccia può essere di modesta portata e l’utilità perseguita, ovvero il danno cagionato, di valore infimo»[2]; pertanto, «la considerazione unitaria dei delitti di rapina e di estorsione deve essere tenuta ferma anche nella definizione della questione odierna, agli effetti dell’estensione della sentenza n. 120 del 2023, giacché l’addizione dell’attenuante della lieve entità del fatto riguarda essa pure quell’elevato comune minimo edittale, alla cui notevole entità viene applicata una, costituzionalmente necessaria, “valvola di sicurezza”.

Già, dunque, sul piano della comparazione tra il trattamento sanzionatorio previsto per la rapina impropria e quello stabilito per l’estorsione, emerge la violazione dell’art. 3 Cost., non sussistendo ragioni specifiche che valgano a giustificare l’esclusione dell’attenuante di lieve entità del fatto per il reato di cui all’art. 628, secondo comma, cod, pen., ed anzi esistendo i richiamati indici che di tale diminuente impongono l’estensione anche a tale reato»[3].

Anche in riferimento ai due parametri dell’individualizzazione della pena (art. 27, co. 1 Cost.) e della finalità rieducativa della stessa (art. 27, co. 3 Cost.) la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione, in quanto da una parte «un trattamento manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, pregiudica il principio di individualizzazione della pena»[4] e dall’altra «il principio della finalità rieducativa della pena è ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il “principio di proporzione” fra qualità e quantità della sanzione da una parte, ed offesa, dall’altra (tra molte, sentenze n. 179 del 2017 e n. 313 del 1990).

Orbene, in presenza di una fattispecie astratta connotata, come detto, da intrinseca variabilità, atteso il carattere multiforme degli elementi costitutivi «violenza o minaccia», «cosa sottratta», «possesso», «impunità», e tuttavia assoggettata a un minimo edittale di rilevante entità, il fatto che non sia prevista la possibilità per il giudice di qualificare il fatto di reato come di lieve entità in relazione alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero alla particolare tenuità del danno o del pericolo, determina la violazione, ad un tempo, del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost.»[5].

La Corte costituzionale ha dichiarato altresì illegittimo, ex art. 27 legge n. 87/1953, anche l’art. 628, co. 1 c.p., in quanto «atteso che la rapina propria condivide con la rapina impropria – e, transitivamente con l’estorsione – sia l’elevato minimo edittale di pena detentiva (cinque anni di reclusione), sia l’idoneità a manifestare una diversificata offensività (in rapporto agli elementi costitutivi della violenza o minaccia e del profitto), anche per essa si evidenzia la necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, a garanzia della ragionevolezza, proporzionalità e capacità rieducativa della sanzione»[6].

2. Lo schema triadico del giudizio costituzionale sul principio di eguaglianza: i tertia comparationis e le pronunce additive in materia penale.

La sentenza in commento offre l’occasione per soffermarsi brevemente sulle differenti modalità con le quali il principio di eguaglianza ed i principi di ragionevolezza e proporzionalità, desumibili dagli artt. 3 e 27 Cost., possano essere invocato quale parametro nel giudizio di costituzionalità, con particolare riferimento, ovviamente, alla materia penale, retta dal principio di stretta legalità (art. 25 Cost.).

Invero, in linea astratta possono individuarsi tre diversi modi nei quali il principio di eguaglianza può venir in rilievo con riferimento al trattamento sanzionatorio previsto da una disposizione penale[7].

In primo luogo, può aversi il caso di un medesimo trattamento sanzionatorio per fattispecie di gravità ed offensività diversa.

In secondo luogo, il principio di eguaglianza può essere invocato quando si è in presenza di un diverso trattamento sanzionatorio per condotte del tutto identiche.

In un terzo caso, il principio di eguaglianza può venire in rilievo in un giudizio dinanzi alla Corte costituzionale nei termini di «proporzionalità tra la pena ed il disvalore del fatto illecito, non però in comparazione con un altro fatto illecito bensì in senso assolut[8].

Nella sentenza in commento la Corte ha fatto utilizzo sia del secondo che del terzo profilo del principio di eguaglianza-ragionevolezza.

Soffermandoci da prima sul principio di eguaglianza nella sua accezione di divieto di trattamenti normativi diversi per condotte identiche, occorre ricordare come negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, un illustre costituzionalista, Carlo Esposito, aveva sostenuto un’interpretazione fortemente restrittiva del principio in questione sganciandolo dall’idea (politica) di giustizia ed ancorandolo ad una visione prettamente formale di efficacia della legge. Scriveva, infatti, l’Autore che «il vero è che la disposizione che i cittadini sono eguali davanti alla legge, secondo interpretazione letterale e sistematica, non può significare che in genere il contenuto delle leggi debba essere identico oppure conforme a giustizia per tutti i cittadini, ma può significare solo che la potestà della legge è uguale, identica per tutti, sicché non vi è più in Italia principe o suddito sciolto dalle leggi, e non vi sono più sottoposti a potestà legislativa diversa da quella degli altri cittadini. (…) Ne segue che la disposizione sull’eguaglianza in principio non disciplina il contenuto delle leggi, ma sibbene ne definisce in modo incontrovertibile la forza e l’efficacia»[9].

Ben presto, però, il principio di eguaglianza (formale) è stato inteso come necessità di disciplina uguale di situazioni eguali e disciplina differenziata di situazioni differenti; la distinzione che potrebbe apparire rimessa alla discrezionalità del legislatore, è divenuta oggetto dello scrutinio da parte della Corte costituzionale che ha manifestato la tendenza a «verificare la ragionevolezza delle distinzioni legislative, non in sé per sé ma in quanto fondamento di trattamenti differenti, scrutinando la logica coerenza tra gli elementi differenziali individuati dal legislatore e le conseguenze giuridiche che vi si riconnettono.

Quest’atteggiamento della giurisprudenza delle Corti costituzionali solleva il problema dei limiti nei quali le scelte politiche del legislatore (volte a differenziare o ad eguagliare le situazioni che disciplina) ed in particolare le rationes che le ispirano, inducendolo a dare o a non dare rilievo ad elementi differenziali delle fattispecie siano sindacabili in sede giurisdizionale e quindi della misura in cui il controllo di ragionevolezza delle distinzioni legislative si mantenga nei limiti di un sindacato di legittimità senza trasmodare in un inammissibile controllo di merito».[10]

In questo modo, dunque, il giudizio di costituzionalità diventa trilatero, comportando il confronto tra due differenti fattispecie normative onde verificare la ragionevolezza della distinzione o della mancanza di distinzione. In questi casi, infatti, è presente nel giudizio «un termine di confronto (detto tertium comparationis) rispetto al quale verificare la giustificatezza della distinzione ovvero dell’equiparazione»[11].

La questione assume un particolare rilievo nell’ambito del diritto penale, retto dal principio di stretta legalità e nel quale la Corte ha avuto modo di chiarire che «l’individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare al trattamento più rigoroso  – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi con l’allarme sociale  generato dai singoli reati – resta affidata alla discrezionalità del legislatore e che le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da  alcuna ragionevole giustificazione».[12]

In quest’ottica, dunque, appare centrale proprio l’individuazione del tertium comparationis, in quanto «la strutturazione della questione di legittimità (…) si dimostra particolarmente critica in sede di controllo di ragionevolezza-uguaglianza (art. 3 Cost), dove è maggiore il rischio di richiedere un intervento – per riprendere la felice immagine di Crisafulli – non declinato su “rime costituzionali obbligate”, e dunque eccedente rispetto ai poteri della Corte, perché indebitamente invasivo rispetto alle scelte discrezionali del legislatore».[13]

Il punto centrale è appunto il parametro di riferimento rispetto al quale far valere la violazione del principio di eguaglianza, il quale non deve essere «caratterizzato da “generici tratti di comunanza2 ma effettivamente pertinente  – anche ratione temporis – ed “omologo” in ragione di considerazioni che  (…) attraversano inter alia l’interesse protetto, la condotta tipica, l’elemento soggettivo, l’oggetto materiale o l’ambito applicativo, dunque la tipologia e il grado dell’offesa (oggettiva e soggettiva) ma anche elementi ulteriori, secondo un raffronto teso a significare in modo stringente e palese l’incongruenza dell’asimmetria disciplinare».[14] Questa precisione e attenzione nella selezione del tertium comparationis è funzionale ad evitare il rischio che la Corte esondi nella valutazione delle scelte discrezionali del legislatore, soprattutto quando, come nel caso in commento, si richiede l’adozione di una pronuncia additiva, ovvero sia di una pronuncia che dichiara l’incostituzionalità di una norma non per ciò che dispone ma per ciò che non prevede. Secondo la felice espressione di Crisafulli, in questi casi l’intervento “sostitutivo” della Corte sarebbe legittimo in quanto la Corte non inventa alcunché, ma estende o esplicita o specifica qualcosa che, seppure allo stato latente, era già compreso nel sistema normativo in vigore.[15]

Il limite che pare incontrare la Corte, allora, se si può apparire quello delle “scelte politiche” proprie del legislatore, è, al fondo quello del rispetto del principio di stretta legalità e della riserva assoluta di legge di cui all’art. 25, co. 2 Cost.[16]: spetta infatti al legislatore, salvo il caso di irragionevolezza manifesta, determinare la cornice edittale delle pene, entro la quale, poi, il Giudice individuerà la pena da applicare al caso concreto.

Proprio sull’aspetto del tertium comparationis la sentenza in commento è particolarmente attenta.

La questione è stata sollevata, infatti, dal Tribunale di Cuneo prendendo come normativa di riferimento l’art. 629 c.p. così come modificato dalla precedente sentenza additiva della Corte costituzionale n. 120 del 2023 nella parte in cui non prevedeva che la pena da esso comminata fosse diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Sulla scorta dei principi sopra riportati, allora, il primo passaggio della motivazione della Corte è stato quello di valutare se il “combinato disposto” – per così dire – dell’art. 629 c.p. e della sentenza n. 120 del 2023 potessero fungere da valido ed efficace tertium comparationis.

I Giudici della consulta hanno osservato che sia la rapina che l’estorsione sono state oggetto, a partire dall’approvazione del codice nel 1930, di analoghi (anche se non contestuali) innalzamenti di pena, che ha portato per entrambi i reati la pena minima per l’ipotesi non aggravata ad anni cinque di reclusione. Inoltre “per l’estorsione come per la rapina, il notevole innalzamento del minimo edittale – a un livello che rende sostanzialmente inaccessibile il beneficio della sospensione condizionale della pena – è stato realizzato senza introdurre una “valvola di sicurezza”, che permetta al giudice di temperare la sanzione quando l’offensività concreta del fatto di reato non ne giustifichi una punizione così severa

Quanto alla descrizione delle condotte tipiche di reato, ritiene poi la Corte che “la descrizione tipica operata dall’art. 628 cod. pen. evidenzia una latitudine oggettiva ed una varietà di condotte materiali non meno ampia di quella del delitto di estorsione, poiché, anche nella rapina, la violenza o minaccia possono essere di modesta portata e l’utilità perseguita, ovvero il danno cagionato, di valore infimo”. A fronte di tale similarità di condotte tipiche, nulla rileva, secondo i giudici delle leggi, la differenza tra le due fattispecie, individuata, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, nel fatto che nella rapina la persona offesa subisce una violenza o minaccia che annulla interamente la sua volontà, mentre nell’estorsione non vi è il totale annullamento della volontà del soggetto passivo. Ebbene, sostiene la Corte, “in linea teorica questo discrimine potrebbe segnalare una maggiore gravità della rapina, quale coazione assoluta (vis absoluta), rispetto all’estorsione, quale coazione relativa (vis compulsiva), il che potrebbe apparire ostativo all’estensione della sentenza n. 120 del 2023. Tuttavia è lo stesso legislatore che, parificando i minimi edittali, dimostra di considerare i due titoli di reato omogenei quanto all’offensività astratta, sull’implicito presupposto che la libertà morale debba essere protetta non meno della libertà fisica”.

Nella motivazione della Corte, infine, viene richiamata anche la sentenza n. 141 del 2023 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, co. 4 c.p. laddove disponeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4 c.p. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, co. 4 c.p. in un caso di incerta sussunzione tra le fattispecie di rapina ed estorsione[17]; nella motivazione di quella sentenza, infatti, la Corte aveva già osservato che “La latitudine dello schema legale dei delitti in parola, d’altra parte, fa sì che essi si prestino ad abbracciare anche condotte di modesto disvalore: non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale cagionato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso oggetto del giudizio a quo) a pochi euro sottratti alle casse di un supermercato; ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minimali di violenza (come una lieve spinta) ovvero, come ancora nel caso oggetto del giudizio a quo, nella mera prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi o di altro mezzo di coazione, che tuttavia già integra la modalità alternativa di condotta costituita dalla minaccia.

Anche rispetto a simili fatti, la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi – anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona –, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi.

Conclude la Corte costituzionale sul punto affermando che “la considerazione unitaria dei delitti di rapina ed estorsione deve essere tenuta ferma anche nella definizione della questione odierna, agli effetti dell’estensione della sentenza n. 120 del 2023 giacché l’addizione dell’attenuante della lieve entità del fatto riguarda essa pure quell’elevato minimo edittale, alla cui notevole entità viene applicata una, costituzionalmente necessaria, valvola di sicurezza”.

Da quanto sopra discende, ineluttabilmente, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 628, co. 2 c.p. per violazione dell’art. 3 Cost. “non sussistendo ragioni specifiche che valgano a giustificare l’esclusione dell’attenuante della lieve entità del fatto di reato di cui all’art. 628, secondo comma, cod. pen., ed anzi esistendo i richiamati indici che di tale diminuente impongono l’estensione anche a tale reato”.

La motivazione della Corte in ordine alla violazione del principio di eguaglianza non si esaurisce nello scrutinio del tertium comparationis, ma su di esso si incentra: in altri termini, una volta valutata la sua validità nel caso prospettato, vi sia una presunzione di illegittimità della norma, superabile solo in presenza di “ragioni specifiche”.

Da questo punto di vista la sentenza in commento non si inserisce nel solco, inaugurato negli ultimi anni, delle sentenze che accantonano le c.d. rime obbligate[18] in quanto l’intervento additivo invocato pare essere l’unica soluzione possibile considerata l’omogeneità delle condotte e dei beni giuridici tutelati dalle due norme.

3. La violazione del principio di proporzionalità oggettiva e soggettiva.

La motivazione della sentenza non si esaurisce nell’accertamento della violazione del principio di eguaglianza ma nella mancanza dell’attenuante della lieve entità del fatto per il reato di rapina ravvisa anche la violazione del principio di proporzionalità oggettiva e soggettiva di cui all’art. 27, co. 3 e co.1 Cost.

La proporzionalità della pena comminata da una norma deve considerarsi un aspetto del più generale principio di proporzionalità fatto proprio dalla Corte costituzionale mutuandolo dall’ordinamento eurounitario e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Invero, mentre manca nell’ordinamento costituzionale una specifica enunciazione, possiamo trovare un preciso riferimento nell’art. 5 del TUE secondo il quale “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. In forza di questo principio, quindi, l’azione dei pubblici poteri in tanto può dirsi “proporzionata” in quanto raggiunge lo scopo prefissato con il minor sacrificio dei diritti dei singoli. Nell’ambito dell’ordinamento penale, il principio è proclamato dall’art. 49 della Carta di Nizza che recita “Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”.

È chiaro che una simile accezione del principio potesse trovare applicazione anche quale parametro di costituzionalità delle norme penali e della pena in astratto comminata, laddove, per appunto, vengono in gioco i contrapposti interessi dello Stato alla repressione del fenomeno criminale e i diritti dei singoli sanciti dall’art. 27 Cost.[19]

Invero, la Corte costituzionale ha individuato quali espressione del principio di proporzionalità in materia penale i principi sanciti dall’art. 27, co. 1 Cost., ossia il principio di personalità della responsabilità penale, e dall’art. 27, co. 3 Cost., ossia la funzione rieducativa della pena[20].

Prendendo spunto dalla dottrina amministrativistica, si può dire che in questo caso i giudici delle leggi finiscono per valutare il c.d. “eccesso di potere legislativo” nella misura in cui verificano se nella valutazione discrezionale (e non libera) del legislatore sia stato adottato lo strumento più opportuno per contemperare i diversi diritti ed interessi coinvolti[21].

Sebbene si tratti di una giurisprudenza abbastanza recente in materia penale (iniziata con la sent. n. 236 del 2016)[22] essa è ben più risalente per altri settori del diritto dove, prendendo le mosse dal giudizio sul principio di eguaglianza e sulla ragionevolezza delle distinzioni ne diviene a poco a poco autonomo, divenendo un giudizio sulla ragionevolezza intrinseca della legislazione[23].

Si può dire, in altri termini, che mentre nel caso della violazione dell’art. 3 Cost. il giudizio della Corte è un giudizio che parte dalle situazioni di fatto per valutare o meno la giustificatezza delle distinzioni legislative, nel caso dell’irragionevolezza intrinseca della fattispecie il giudizio diviene una comparazione tra valori costituzionali e di bilanciamento degli stessi; in tanto può dirsi che una determinata fattispecie sia rispettosa del criterio della ragionevolezza e del principio di proporzionalità in quanto sia rispettosa di un equilibrio tra i diversi valori e principi costituzionali che vengono in gioco. Come è stato correttamente notato in dottrina, la Corte “nel momento in cui giudica sotto il profilo della ragionevolezza sulla legittimità di una determinata scelta del legislatore sospettata di incostituzionalità, non limita il suo esame a questo o a quel particolare principio costituzionale che il giudice a quo ha ritenuto essere violato, ma estende necessariamente il suo giudizio a tutti i principi costituzionali che vengono ad essere coinvolti nella questione, al fine di operare un bilanciamento degli stessi e di giudicare appunto sulla “ragionevolezza” della scelta del legislatore[24].

Viene immediatamente in rilievo che, in questo caso, la Corte svolge il suo giudizio sulla disposizione censurata senza alcun tertium comparationis, ma andando a sindacare la ragionevolezza intrinseca della disposizione alla luce dei parametri-fini indicati.

Nello specifico del giudizio di proporzionalità di una sanzione penale, allora, occorre individuare quali siano i fini propri della pena; infatti, in tanto una sanzione edittale può dirsi sproporzionata e irragionevole, in quanto essa risulti eccessiva rispetto alle finalità (costituzionali) della pena. Come è stato correttamente notato «si comprende, allora, come la preferenza espressa dall’art. 27, comma 3 Cost. per la rieducazione del reo sia stata valorizzata dalla dottrina e dalla stessa Corte costituzionale per liberarsi dai lacci del tertium comparationis, pur dovendo tale percorso argomentativo confrontarsi con l’importante eredità dell’inquadramento “polifuzionale” della pena, nonché con le difficoltà che attengono alla selezione delle note del fatto che, già sul piano astratto, determinano una maggiore o minore necessità di rieducazione»[25].

Sebbene non sia più un sindacato di tipo ternario, in ogni caso, la Corte nelle motivazioni delle sentenze individua una pena – parametro «mero terminus ad quem e non più starting point del vaglio di costituzionalità»[26], in quanto, «anche nel giudizio di “ragionevolezza intrinseca”, focalizzato sul principio di proporzionalità, è fondamentale l’individuazione di un parametro che consenta di rinvenire la soluzione costituzionalmente obbligata»[27].

Accanto al principio della finalità rieducativa della pena la Corte ha individuato un altro principio/fine da prendere in considerazione nel giudizio di ragionevolezza intrinseca/proporzionalità della pena: quello dell’individualizzazione della pena.

Una pena eccessiva rispetto al disvalore del fatto di reato oltre a frustrare, in sede di esecuzione della stessa, le possibilità di rieducazione del condannato, viola il principio della individualizzazione della pena nel momento in cui la stessa risulta eccessiva rispetto all’offensività del fatto di reato.

Come è stato correttamente osservato, sebbene non sia stato espressamente richiamato dalla Corte, si intravede in controluce in questa materia l’utilizzazione di un altro principio proprio del diritto penale, quello di offensività[28].

Nel presente caso, la Corte non ha ritenuto conforme a Costituzione la mancata previsione della circostanza attenuante della lieve entità per il reato di rapina in quanto vengono violati i due principi di individualizzazione della pena e della finalità rieducativa della stessa.

Con riferimento al primo parametro, i giudici richiamano le sent. n. 7 e 244 del 2022 nelle quali, appunto, la Corte ha collegato al principio di personalità della responsabilità penale (di cui all’art. 27, co. 1 Cost.) anche il criterio di individualizzazione della pena, in quanto “un trattamento manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, pregiudica il principio di individualizzazione della pena”.

In relazione al parametro di cui all’art. 27, co. 3 Cost. la Corte ha gioco facile nell’affermare che “il principio della finalità rieducativa della pena è ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il “principio di proporzione” fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altra”.

Si tratta, senza dubbio, di affermazioni, sebbene non nuove, di monito al legislatore che, negli ultimi anni, ha sempre più proceduto sulla strada dell’inasprimento delle pene, soprattutto quelle minime.

Pare evidente, a chi scrive, che il progressivo aumento delle sanzioni penali sia da collegare anche alla esigenza politica, trasversale negli schieramenti, di accontentare le pulsioni “carcerocentriche” di una parte dell’elettorato. La Corte, però, intende arginare questa deriva, ritenendo necessario ancorare la pena edittale al criterio di offensività del fatto di reato; questo principio, allora, diviene il perno della valutazione della politica criminale del legislatore: la libertà personale è limitabile in misura proporzionale all’importanza dei beni tutelati dalla norma penale e non per una valutazione politica sganciata dalla effettiva gravità, in astratto ed in concreto, delle condotte tipiche della fattispecie penale.

*Avvocato del Foro di Tivoli

[1] Cfr. C. Cost. sent. n. 86/2024 par. 4 considerato in diritto.

[2] Cfr. C. Cost. sent. n. 86/2024 par. 5.4 considerato in diritto.

[3] Cfr. C. Cost. sent. n. 86/2024 par. 5.6 e 5.7 considerato in diritto.

[5] Cfr. C. Cost. sent. n. 86/2024 par. 5.8 considerato in diritto.

[6] Cfr. C. Cost. sent. n. 86/2024 par. 5.9 considerato in diritto.

[7] Cfr. A. Bonomi, Il rispetto del principio di proporzionalità della pena: il ruolo del legislatore, la funzione del giudice comune e il margine di intervento della Corte costituzionale (Osservazioni problematiche prendendo spunto dalle sentenze n. 284 del 2019 e n. 136 del 2020), in Rivista AIC, 2/2021, pagg. 206 e seg.

[8] Così A. Bonomi, Il rispetto del principio di proporzionalità della pena: il ruolo del legislatore, la funzione del giudice comune e il margine di intervento della Corte costituzionale (Osservazioni problematiche prendendo spunto dalle sentenze n. 284 del 2019 e n. 136 del 2020), cit., pag. 210.

[9] Cfr. C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in Id, La Costituzione italiana, Padova, 1954, pag. 30.

[10] Cfr. F. Sorrentino, Eguaglianza formale, in Costituzionalismo.it, 3, 2017, pagg. 3-4.

[11] Cfr. F. Sorrentino, Eguaglianza formale, cit., pag. 6.

[12] Cfr. C. Cost. ord. n. 455 del 2006.

[13] Cfr. V. Manes, La legge penale illegittima, Torino, 2019, pag. 357.

[14] Cfr. V. Manes, La legge penale illegittima, cit., pag. 355.

[15] Cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, pagg. 407 e seg. secondo il quale «anche nelle ipotesi testé accennate, la Corte non crea, essa, liberamente (come farebbe il legislatore) la norma, ma si limita ad individuare quella – già implicata nel sistema e magari addirittura ricavabile dalle stesse disposizioni costituzionali di cui ha fatto applicazione – mediante la quale riempire immediatamente la lacuna che altrimenti resterebbe aperta nella disciplina della materia, così conferendo alla pronuncia adottata capacità autoapplicativa. Una legislazione, se proprio così vuol dirsi (ma descrittivamente) «a rime obbligate» dunque, come altre volte abbiamo avuto occasione di rilevare, che, per ciò solo, vera legislazione non è».

Sulle sentenze additive in materia penale e sull’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul punto Cfr. D. Martire, Giurisprudenza costituzionale e rime obbligate: il fine giustifica i mezzi? Note a margine della sentenza n. 113 del 2020 della Corte costituzionale, in Rivista AIC, 6, 2020 e D. Tega, La traiettoria delle rime obbligate, in Sistema penale, 2, 2021.

[16] Cfr. G. Frigo, I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale italiana in materia penale, in Incontro trilaterale con in Tribunali Costituzionali della Spagna e del Portogallo, 2013, pag. 2 del dattiloscritto secondo il quale «la riserva di legge viene poi a coniugarsi con il carattere spiccatamente politico degli apprezzamenti – in termini di necessità, idoneità e proporzionalità – che stanno alla base delle scelte di legislazione criminale: circostanza che rende particolarmente avvertita l’esigenza di evitare che la Corte, tramite il controllo di ragionevolezza, finisca per invadere spazi riservati dalla Costituzione al potere legislativo, operando un sindacato di merito delle relative opzioni. Si spiega in questa prospettiva il tradizionale atteggiamento di cautela e di self restraint assunto dalla Corte».

[17] Nel caso si trattava di un soggetto che aveva costretto due addetti di un supermercato a consegnargli dieci euro con la duplice minaccia consistita nelle frasi “se non mi date dieci euro torno con la pistola” e “ti spacco la testa”.

[18] Cfr. D. Martire, Giurisprudenza costituzionale e rime obbligate: il fine giustifica i mezzi? Note a margine della sentenza n. 113 del 2020 della Corte costituzionale, cit., pagg. 251 e seg.

Il riferimento è tra le altre, alle sentenze. n. 222 del 2018 e n. 40 del 2019 in materia di libertà personale nelle quali la Corte è passata dalla necessità che venisse individuata nell’ordinamento una soluzione “costituzionalmente obbligata” ad una “costituzionalmente adeguata”. Nella sentenza n. 222 del 2018 i giudici della consulta, richiamando la sentenza n. 236 del 2016, affermano, infatti, che «Questa Corte ha avuto recentemente occasione di stabilire che, laddove il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per una determinata figura di reato si riveli manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è possibile a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere sostituito sulla base di «precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo», intesi quali «soluzioni [sanzionatorie] già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata» (sentenza n. 236 del 2016).

Tale principio deve essere confermato, e ulteriormente precisato, nel senso che – a consentire l’intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio – non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia. Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali.

Tutto ciò in vista di una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di “rime obbligate” nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima.»

[19] Secondo F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 2023, pagg. 685 e seg. «Esso rappresenta il limite logico del potere punito dello Stato di diritto, è insito nel concetto retributivo di pena ed esprime, comunque, un’elementare esigenza di giustizia, è costituzionalizzato dagli artt. 3 e 27/1- Cost., che impongono rispettivamente il trattamento differenziato di situazioni diverse (con vincoli di coerenza punitiva tra i vari tipi di reati) e l’ineludibile giustizia della pena, intrinseca al carattere personale della responsabilità e presupposto dell’azione rieducatrice della pena».

[20] Secondo F. Mazzacuva, Il principio di proporzionalità delle sanzioni nei recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale: le variazioni sul tema rispetto alla confisca, in La legislazione penale, 14.12.2020, pag. 1 «il principio di proporzionalità illumina da diverse angolazioni la materia penale, sovraintendendo tanto la selezione dei fatti illeciti alla luce degli interessi tutelati (…) e la scelta della tecnica di tutela – con particolare riguardo all’alternativa tra sanzioni penali ed amministrative -, quanto la determinazione dell’entità (ossia della misura ma anche della tipologia) della sanzione».

Sul principio di proporzionalità in materia penale fondamentali risultano anche F. Viganò, La proporzionalità della pena, Torino, 2021; N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale, Torino, 2020; G. Villanacci, La ragionevolezza nella proporzionalità del diritto, Torino, 2020; V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005.

[21] Cfr. F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, Padova, 2009, pag. 127 secondo il quale «La ragionevolezza, allora, non più soltanto riferita al principio di eguaglianza, viene concepita come criterio ispiratore di tutto l’ordinamento giuridico. Ciò ha comportato, per un verso, la funzionalizzazione dell’attività legislativa e, per l’altro, il riconoscimento alla Corte del potere di controllare la coerenza interna delle scelte legislative».

[22] In questo suo arresto la Corte costituzionale ha affermato che «La fondatezza delle questioni sollevate si rivela, piuttosto, in virtù della manifesta sproporzione della cornice edittale censurata, se considerata alla luce del reale disvalore della condotta punita (…).

In questo delicato settore dell’ordinamento, il principio di proporzionalità esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale, in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale (…).

Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa.

In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 68 del 2012, che richiama le sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993)» Cfr. par. 4.2. 

[23] Cfr. F. Sorrentino, Eguaglianza formale, cit., pagg. 24 – 25, il quale, con riferimento alla sent. n. 91 del 1973 ed alla sent. n. 219 del 1975, nota che «emerge con chiarezza, in queste due sentenze, per poi svilupparsi meglio nella giurisprudenza successiva, l’autonomia dello scrutinio di ragionevolezza rispetto a quello dell’eguaglianza vera e propria: l’uno ha ad oggetto esclusivamente la discrezionalità del legislatore, l’altro la ragionevolezza delle distinzioni. È ben vero che queste, in tanto sono legittime, in quanto siano “ragionevolmente” fondate su una norma o su un valore costituzionale, ma è altresì vero che, eleminato dalla considerazione della Corte il tertium comparationis, viene in evidenza la discrezionalità del legislatore in quanto tale; viene cioè in rilievo il modo in cui il legislatore disciplina le varie situazioni della vita associata, anche indipendentemente dal confronto con altre situazioni».

Sulla ragionevolezza intrinseca si veda anche V. Manes – F. Mazzacuva, Irretroattività e libertà personale: l’art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell’esecuzione penale, in Sistema penale, 23 marzo 2020.

[24] Così E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2011, pag. 313.

[25] In questo senso F. Mazzacuva, Il principio di proporzionalità delle sanzioni nei recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale: le variazioni sul tema rispetto alla confisca, cit., pag. 8.

In questa sede giova ricordare come la Corte costituzionale con la sentenza n. 149 del 2018 abbia affermato (par. 7 del considerato in diritto «il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena».

[26] Così Cfr. V. Manes, La legge penale illegittima, cit., pag. 368.

[27] Cfr. sent. C. cost. n. 23 del 2016. Come è stato notato in dottrina da S. Leone, Sindacato di ragionevolezza e quantum della pena nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista AIC, 4, 2017 pag. 30 «L’elemento differenziale consiste nel fatto che laddove il Giudice costituzionale si trovi nelle condizioni di poter svolgere uno scrutinio di ragionevolezza intrinseca, il quadro sanzionatorio che entra in gioco e per contribuire a “svelare” la sproporzione di quello scrutinato e per consentire alla Corte di riempire il dispositivo non deve riguardare necessariamente figure di reato identiche, essendo sufficiente si tratti di figure di reato accomunate da (pur importanti) tratti comuni, che consentano alla Corte di potersi sensatamente appigliare ad una grandezza già presente nel sistema al fine di evitare vuoti intollerabili»

[28] Cfr. V. Manes, La legge penale illegittima, cit., pag. 355 il quale, in riferimento alla sentenza n. 236 del 2016 osserva che lo scenario «interpella le problematiche dell’offensività (il rango del bene tutelato, e la sua gerarchizzazione costituzionale; l’offesa e la sua gradazione; la sanzione minacciata in astratto ed in concreto, ecc.) come necessario puntello di ogni giudizio di sproporzione in ordine al quantum sanzionatorio».