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IL NEMICO RITROVATO – DI FAUSTO GIUNTA

IL NEMICO RITROVATO – DI FAUSTO GIUNTA

GIUNTA – IL NEMICO RITROVATO.PDF

 

Non mi importa niente dei pericoli, padre: io voglio essere buono, voglio essere per il resto della mia vita solamente un atto di bontà”.

La questione è se questa nuova tecnica renda veramente buoni o no: la bontà viene da dentro, la bontà è una scelta. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo”.

Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971)

Come i grandi marchi, così il diritto penale differenzia la sua offerta per meglio intercettare la domanda di giustizia. Da qui la varietà delle linee di produzione che si affacciano sul mercato dei delitti e delle pene. La clientela che può accostarsi ai listini deluxe sembra vivere in un mondo diverso di quella interessata soltanto alla tariffa economy. Come a dire: altro è la piccola criminalità intersoggettiva, che ammette finanche percorsi assistiti di pacificazione, altro è la criminalità organizzata.

Il sistema ne tiene conto, differenziando la risposta sanzionatoria. Tutto ciò è nell’ordine delle cose: come ricordava Anton Menger, non esiste disuguaglianza maggiore di quella di trattare le disuguaglianze in modo uguale. Detto questo, resta da chiedersi se l’istanza di differenziazione possa spingersi fino a riguardare i principi fondamentali. La risposta affermativa finisce per mettere in bilanciamento gli argini del potere punitivo con il potere punitivo medesimo, giungendo a indebolire la funzione delle garanzie, che invece dovrebbe crescere in misura direttamente proporzionale alla gravità del reato e delle sue conseguenze sanzionatorie.

Di recente il confronto di opinioni si è esteso al modo di intendere il principio rieducativo nei confronti del detenuto mafioso, quale bersaglio prototipico del diritto penale del nemico. Per questo tipo di reo la via della rieducazione è sbarrata dalla funzione ostativa della mancata collaborazione. Si muove dall’assunto, di sedicente matrice più antropologica che sociologica, secondo il quale il mafioso, arruolandosi nell’antistato, farebbe una scelta di vita irreversibile. Per questa ragione l’irreprensibilità del suo comportamento intramurario non può intendersi come espressione di una rinuncia all’antisocialità. Solo la delazione, ossia lo schierarsi contro i sodali, mettendo a rischio la propria vita e quella delle persone vicine, può dare serietà alla scelta. Inutile dire che il ragionamento, di per sé plausibile, ha la sua zona d’ombra: negare al mafioso la condizione di dissociato non collaboratore, che a suo tempo è stata riconosciuta al terrorista politico (per il vero avvertito come sovversivo, più che come nemico sociale), non equivale solo a negargli i progressivi assaggi di libertà che sono propri delle misure alternative, ma mantenerlo soggetto al regime penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen., che non si è mancato di assimilare a una forma di tortura legale. In breve: ostatività e “carcere duro” sarebbero i denti di una tenaglia finalizzata a contorcere e fiaccare la resistenza non collaborativa del detenuto per mafia.

Sennonché, la rilevanza ostativa della mancata collaborazione corrobora una presunzione sfavorevole al detenuto, che capovolge il senso dell’art. 27, comma 3, Cost. Affermare che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato equivale a muovere dalla premessa opposta, ossia considerare la rieducazione un percorso libero, non coercibile e, salvo prova del contrario, sempre possibile.  Essendo un valore, esso va proposto, non imposto.

Il dibattito di questi mesi, in attesa che la Consulta si pronunci sulla concessione della liberazione condizionale all’ergastolano ostativo, porta al cuore della questione: cosa deve intendersi per rieducazione? Occorre una profonda catarsi interiore, difficile da dimostrare anche in presenza della collaborazione, o basta l’oggettiva cessione dell’originaria antisocialità, che segni in modo univoco una cesura con il proprio passato criminale, anche in assenza di collaborazione? La prima accezione meglio si adatta a un diritto penale dell’atteggiamento interiore; la seconda è un coerente sviluppo del diritto penale del fatto, che prende atto della imperscrutabilità del foro interno.

Elevata a condicio sine qua non della rieducazione, la collaborazione non guarda né all’una, né all’altra prospettiva specialpreventiva. Stante la sua perentorietà, essa si pone, invece, come coerente espressione del trattamento penitenziario del nemico, il quale ultimo, per accedere ai benefici, deve dimostrare di non essere più nemico nell’unico modo consentitogli, ossia diventando nemico dei suoi vecchi complici. Solo allora il nemico potrà rieducarsi.

Nulla prova, però, che, nel caso del detenuto mafioso, la collaborazione sia il solo indice dell’autenticità di un percorso rieducativo. Il mutamento di prospettiva esistenziale può essere effettivo anche senza delazione e opportunistico con la più completa collaborazione, accettata come prezzo da pagare.

Il valore di questo importante principio, che più degli altri scommette sull’uomo, sta nella libertà della scelta e nelle sue ragioni.

*Direttore della rivista disCrimen, Avvocato, Ordinario di Diritto Penale presso l’Università di Firenze.