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IL PRINCIPIO DI UMANITÀ DELLA PENA COME PARAMETRO  GUIDA DELLA DISCREZIONALITÀ – DI ROSA UGOLINI

IL PRINCIPIO DI UMANITÀ DELLA PENA COME PARAMETRO GUIDA DELLA DISCREZIONALITÀ – DI ROSA UGOLINI

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IL PRINCIPIO DI UMANITÀ DELLA PENA COME PARAMETRO GUIDA DELLA DISCREZIONALITÀ

di Rosa Ugolini*

Riflessioni a margine dell’ordinanza n. 3394/2025 del Tribunale di Sorveglianza di Torino. Una richiesta di detenzione domiciliare per un detenuto con gravi patologie, che il Tribunale, pur riconoscendo lo stato di salute non particolarmente grave secondo la relazione sanitaria, ha concesso considerando il grave sovraffollamento carcerario e il principio costituzionale di umanità della pena. La decisione ha aperto la strada a una interpretazione estensiva della normativa sulle misure alternative, valorizzando il diritto alla salute e la dignità della persona detenuta, e ponendo un freno a un’esecuzione della pena che comporti trattamenti contrari al senso di umanità.

SOMMARIO: 1. Il caso sottoposto al vaglio della Magistratura di Sorveglianza di Torino 2. La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Torino 3. Verso una più compiuta valorizzazione del principio di umanità della pena?

1. Il caso sottoposto al vaglio della Magistratura di Sorveglianza di Torino.

In data 1° aprile 2025 una delle oltre 1.400 persone ristrette nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino ha formulato al Magistrato di Sorveglianza istanza per l’applicazione, in via provvisoria e urgente, della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 lett. c) e co. 1 quater L. 354/1975.

L’uomo, detenuto dal febbraio 2023 in esecuzione di una condanna complessiva di anni 4 mesi 10 di reclusione, con fine pena fissato per la data del 15.06.2027, ha chiesto al Giudice di poter espiare la pena residua a suo carico nelle forme della detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter co. 1 L. 354/1975, misura alternativa a valenza umanitaria in quanto finalizzata alla tutela di categorie di soggetti vulnerabili per le condizioni di salute o per la peculiare situazione personale in cui versano.

Come confermato dall’area sanitaria del carcere, infatti, egli era affetto da molteplici patologie: appendicectomia, adenoidectomia, obesità e cardiopatia ischemica cronica; condizioni di salute che, a parere della difesa, dovevano ritenersi “particolarmente gravi” e tali da necessitare di “costanti contatti con i presidi sanitari territoriali”. Di conseguenza, nella fattispecie concreta ricorrevano i requisiti prescritti dall’art. 47 ter co. 1 lett. c) L. 354/1975 per poter scontare la pena residua presso il domicilio.

Chiamato a pronunciarsi sull’istanza di applicazione in via provvisoria e urgente, il Magistrato di Sorveglianza di Torino ha respinto la richiesta richiamando le conclusioni della relazione sanitaria del carcere: “… il predetto attualmente verte in condizioni cliniche discrete, non particolarmente gravi da richiedere costanti contatti con i presidi sanitari presenti nell’istituto …”[1]; dunque, non ravvisando né il presupposto della particolare gravità dello stato di salute né quello dell’urgenza di provvedere per evitare un grave e imminente pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione in carcere.

2. La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Torino.

Il Tribunale di Sorveglianza di Torino, demandato a decidere nel merito la richiesta ex art. 47 ter co. 1 lett. c) L. 354/1975, ha condiviso le argomentazioni del Magistrato ma è pervenuto a una conclusione diametralmente opposta concedendo al detenuto di espiare la pena residua a suo carico in detenzione domiciliare.

Pur dando atto degli esiti della valutazione compiuta dall’area sanitaria, della professionalità e disponibilità del personale medico in servizio nella Casa Circondariale di Torino e dell’insussistenza di “un’incompatibilità, in senso stretto, (…) con il regime detentivo carcerario”, infatti, il Collegio ha ampliato il raggio del suo campo visivo e ha volto lo sguardo all’attuale quadro di sovraffollamento degli istituti penitenziari – incluso quello delle Vallette[2] e, partendo da questo dato, ha ritenuto “doverosocompiere una riflessione sulla necessità di protrarre lo stato di detenzione nei confronti di soggetti affetti da serie patologie, ancorché esse siano adeguatamente monitorate. Afferma il Tribunale: “… è intuitivo come il regime detentivo possa cagionare un surplus di sofferenza e disagio in soggetti affetti da serie patologie, che potrebbe essere evitato – o, quantomeno, significativamente alleviato – da una misura alternativa”[3].

La decisione in commento costituisce un precedente significativo perché – come riconosciuto dagli stessi estensori – apre la strada a un’interpretazione estensiva del disposto dell’art. 47 ter co. 1 lett. c) L. 354/1975, ispirata e guidata dai principi costituzionali di tutela della salute e di umanità nell’esecuzione della pena.

Il dettato del legislatore, laddove ha imposto presupposti e limiti della detenzione domiciliare in parola, è stato attuato dai Giudici torinesi mediante il filtro cardinale della dignità della persona, fondamento del principio di umanità della pena cristallizzato nella Costituzione e nella Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo attraverso la declinazione del divieto di trattamenti degradanti e contrari al senso di umanità[4], e posto quale primo canone dell’Ordinamento Penitenziario[5].

Al Tribunale è apparso doveroso chiedersi, allora, se un uomo affetto da problemi di salute indubbiamente seri non stesse subendo sofferenze evitabili, ulteriori e più approfondite di quelle che già di per sé comporta ontologicamente la pena della reclusione, ovvero la privazione della libertà personale. Il contesto in cui è stato necessario calare questa riflessione è stato quello del carcere Le Vallette di Torino ove, alla data del 31.07.2025, erano detenute 1.456 persone a fronte di una capienza regolamentare di 1.087 posti[6] e dove, negli ultimi otto mesi, si sono contati già tre suicidi[7].

A fronte di un domicilio idoneo, della risalenza nel tempo dei reati e di un’attenuata pericolosità in concreto, continuare a detenere quell’uomo affetto da gravi patologie nella situazione carceraria sovraffollata testé descritta avrebbe comportato una sicura violazione dei suoi diritti fondamentali, in primis quello a scontare una pena rispettosa del principio di umanità, con la conseguenza che il trattamento penitenziario lui riservato sarebbe risultato inconciliabile con il contenuto e la forma assegnata alla pena dalla Costituzione.

Il quesito affrontato dal Collegio è stato esaminato in più occasioni dalla Corte di Cassazione che, con orientamento costante, ha sempre ribadito che “… la concessione della detenzione domiciliare, del differimento facoltativo dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica ai sensi dell’art. 147 cod. pen. e del differimento obbligatorio ai sensi dell’art. 146 dello stesso codice, sono istituti che si fondano sul principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge senza distinzione di condizioni personali (art. 3 Cost.), su quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.) e, infine, su quello secondo il quale la salute è un diritto fondamentale dell’individuo (art. 32 Cost.). A fronte di una richiesta di differimento dell’esecuzione della pena per ragioni di salute o di detenzione domiciliare per grave infermità fisica, quindi, il giudice deve valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato[8].

Ebbene, nel caso in esame, pur nella dichiarata assenza del doppio requisito delle condizioni di salute particolarmente gravi e della necessità di mantenere costanti contatti con i presidi sanitari territoriali, condivisibilmente il Tribunale di Sorveglianza di Torino ha concesso la detenzione domiciliare incentrando la valutazione sulla compatibilità tra le patologie riscontrate al detenuto, da un lato, e la grave condizione di sovraffollamento del carcere e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, dall’altro lato.

Il Collegio ha mostrato di aver compiuto una riflessione a tutto tondo, calandosi completamente nella realtà dell’istituto Le Vallette e ponendo l’accento sia sull’elevato numero di presenze sia sul surplus di sofferenze che ne consegue per i detenuti con serie patologie in atto. Ma non solo, il Tribunale ha prestato attenzione verso tutti gli operatori del settore. Infatti, nel concedere la misura alternativa non ha mancato di sottolinearne l’opportunità anche sotto il profilo della carenza di personale[9], rimarcando la necessità di preservare la pochezza dei mezzi a fronte dell’impegno “straordinario di risorse – anche sotto il profilo del personale di Polizia Penitenziaria impegnato ad accompagnare i detenuti ad effettuare le visite mediche presso strutture sanitarie esterne[10] che richiede la detenzione di un soggetto affetto da gravi patologie.

La decisione in commento si può, dunque, ritenere frutto di un esercizio della discrezionalità in direzione costituzionalmente orientata e, al contempo, immerso nell’attualità della realtà carceraria nazionale.

In relazione al primo aspetto si può apprezzare come l’ordinanza, oltre ad essere evidentemente guidata dal principio di umanità della pena ex art. 27 co. 3 Cost., possa rappresentare un rimedio all’assenza di interventi da parte del legislatore a distanza di oltre dieci anni da quando la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 279 del 22 novembre 2013, lo aveva invitato ad affrontare la grave condizione di strutturale sovraffollamento degli istituti penitenziari, affermando: “… non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia”.

Con la pronuncia richiamata la Consulta aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 147 c.p., per contrasto con gli artt. 2, 3, 27 co. 3 e 117 co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 3 CEDU, “… nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità”. Ciononostante, il Giudice delle leggi aveva accertato “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dai rimettenti” e aveva sostenuto “la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità”. La declaratoria di inammissibilità delle questioni sollevate era conseguita all’impossibilità di un intervento additivo a rime obbligate, giacché le soluzioni normative che potevano essere adottate “… per ovviare alla situazione di invivibilità derivante dal sovraffollamento carcerario …” erano molteplici e tra esse, la Corte Costituzionale, non ha mancato di ipotizzare “… un ampio ricorso alla detenzione domiciliare (…)[11]“.

Ebbene, in questo solco dell’ampio ricorso alla misura alternativa della detenzione domiciliare sembra inserirsi l’ordinanza in commento che, appunto, intende evitare un’esecuzione della pena in condizioni contrarie al senso di umanità, connesse al sovraffollamento carcerario, attraverso un’interpretazione dichiaratamente estensiva del disposto dell’art. 47 ter co. 1 lett. c) L. 354/1975.

Con riferimento al secondo profilo si può rilevare come i Giudici torinesi abbiano impiegato eccelsamente una regola di deontologia giudiziaria che Luigi Ferrajoli ha definito fondamentale: la regola dell’equità. Afferma Ferrajoli che: L’equità è una dimensione conoscitiva del giudizio che non ha nulla a che vedere con le altre due tradizionali dimensioni conoscitive del ragionamento giudiziario: né con la corretta interpretazione della legge nell’affermazione della verità giuridica, né con la corretta valutazione dei fatti e delle prove nell’accertamento della verità fattuale. Essa riguarda la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso, di ciascuna vicenda sottoposta al giudizio un fatto, un caso, una vicenda irriducibilmente diversi da qualunque altra, pur se sussumibile (…) nella medesima fattispecie legale. (…) è chiaro che la comprensione del contesto, delle concrete circostanze, delle ragioni singolari del fatto comporta sempre, anzi impone, un atteggiamento di indulgenza a favore dei soggetti più deboli, che più di tutti sono titolari di diritti fondamentali lesi o insoddisfatti. (…) impone al Giudice il dovere e la responsabilità di conoscerne e valutarne l’intera complessità e singolarità alla luce dei valori costituzionali[12].

Orbene, è proprio quel che il Tribunale di sorveglianza di Torino ha compiuto con l’ordinanza in commento. Il Collegio ha modellato la sua decisione sul principio cardine dell’umanità della pena e, guidato da tale assioma, ha dapprima effettuato una ricognizione di tutti gli elementi presenti nella situazione concreta – l’esistenza di patologie gravi, l’idoneità del domicilio indicato per l’esecuzione della detenzione domiciliare, l’attenuazione della pericolosità sociale del detenuto, la condizione di sovraffollamento del carcere, la carenza del personale di polizia penitenziaria –, per compiere, subito dopo, un bilanciamento di interessi tra le esigenze di tutela della collettività, da un lato, e la salvaguardia di un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità e del diritto alla salute, dall’altro.

In tal senso deve apprezzarsi anche che la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Torino sia stata sostenuta dal parere favorevole del Procuratore Generale, il quale ha voluto evidenziare come “il magistrato – a prescindere che svolga le funzioni di pubblico ministero o di giudice – nell’assumere una decisione sia chiamato a contemperare le contrapposte esigenze tenendo anche conto della realtà territoriale e del momento storico in cui opera[13]”.

L’esito di questa ponderazione vede oggi un uomo affetto da gravi patologie, con un residuo pena inferiore ad anni due di reclusione, sottratto a una carcerazione inumana per eseguire comunque la sua pena nel domicilio. Una conclusione che ci ricorda come “La sostenibilità morale della pena detentiva dipende anche dalle condizioni materiali dell’esecuzione, e chiama in causa il senso di umanità”[14]e che, sebbene nei molti casi simili dovrebbe suonarci ordinaria, purtroppo ancora oggi ha il sapore dello straordinario.

3. Verso una più compiuta valorizzazione del principio di umanità della pena?

Si è affermato in dottrina che, nonostante il principio di umanità costituisca un canone basilare di civiltà, fondamento e limite della pena, la sua portata non è stata ancora compiutamente valorizzata dalla Corte Costituzionale[15]. E invero, dallo scorrere delle sentenze del Giudice delle leggi emerge che i richiami alla finalità rieducativa della pena, prevista dalla seconda parte del comma terzo dell’art. 27 della Costituzione, sono di gran lunga superiori a quelli all’umanizzazione della pena, contemplata dalla prima parte dello stesso comma[16].

Dopo le prime pronunce dedicate per lo più a costruire un approccio dinamico su cosa debba intendersi per trattamento contrario al senso di umanità[17], l’ambito in cui il principio è stato maggiormente valorizzato è stato quello dei limiti al regime di cui all’art. 41 bis L. 354/1975[18].

La giurisprudenza costituzionale che si è sviluppata sulle ostatività previste dall’art. 4 bis L. 354/1975 all’accesso alle misure alternative e ai permessi premio, e la recente pronuncia sul diritto alla c.d. affettività in carcere, infatti, – solo per citarne alcune – non hanno accertato il vulnus nella violazione del principio di umanità della pena.

Nel caso della sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024 sul tema dell’affettività in carcere, peraltro, il Giudice rimettente aveva denunciato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 L. 354/1975 – laddove vietava che i colloqui con il partner potessero avvenire in modalità riservata – mettendo in rilievo anche i profili di contrasto con il principio di umanità della pena ex art. 27 co. 3 Cost., poiché tale trattamento imponeva “una limitazione così pregnante di una componente così essenziale della vita di ogni persona, come quella  della declinazione anche sessuale della propria affettività, e comunque di una dimensione del tutto riservata nell’espressione di  quest’ultima, da aggiungere alla privazione della libertà un sicuro surplus di afflittività, non sempre necessitata da  ragioni  di sicurezza[19]. La Corte Costituzionale, tuttavia, pur investita di tale argomentazione ha dichiarato l’illegittimità della disposizione censurata valutando principalmente la seconda parte dell’art. 27 co. 3 Cost., affermando: “una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obbiettivo della risocializzazione”[20].

Si può forse affermare, allora, che il principio di umanità della pena, pur essendo“… parte dei presupposti stessi del legittimo esercizio della potestà punitiva, ossia dei minima moralia – per così dire – che il Leviatano deve sempre rispettare: regola di esclusione, dunque, ed al contempo condizione di legittimazione dello ius puniendi”[21], o per ciò stesso, sia stato dato troppo per scontato o che la sua ampia portata sia stata degradata nel corso degli anni.

La dottrina si è interrogata sulle ragioni che possono aver indotto a un minore ricorso, negli anni, al principio di umanità della pena, e ciò anche alle luce del fatto che la Corte Costituzionale ha dimostrato “nella sostanza” di avere “una spiccata sensibilità per questo valore” dichiarando l’incostituzionalità di diverse norme che “… intersecavano, in qualche modo, il canone di umanità del trattamento …”, sebbene accertando il vulnus in rapporto ad altri parametri, con una tendenza “… gradualista o forse minimalista, che inclina a lasciare in disparte la prima parte dell’art. 27/3 Cost.[22]”.

Una possibile causa della “declinazione della quaestio su altri versanti” è stata individuata “nel margine di manovra, in chiave di bilanciamento e deroghe, che la struttura anelastica del canone di umanità (…) verosimilmente non consentirebbe[23].

Altre ragioni sono state rintracciate nel relativismo del contenuto del principio di umanità e nel carattere intrinsecamente afflittivo della pena detentiva. In relazione al primo aspetto si è affermato “che il contenuto del principio di umanità dipende dal contesto storico-sociale nel quale si colloca e dunque dalla sensibilità nei confronti delle condizioni carcerarie. E tale sensibilità sociale è condizionata, oltre che dalla condizione di benessere in cui si trova la società in un dato momento storico, tale da fare percepire i rischi di una involuzione antiumanitaria delle pene criminali, dai livelli di sicurezza percepiti dai consociati come necessari a garantire quel benessere[24]”. Con riferimento al secondo profilo è stato specificato che “la pena carceraria (…) è caratterizzata da un intrinseco coefficiente di disumanità” sicché “… l’attuazione del principio di umanità della pena presuppone la non agevole individuazione della soglia entro la quale la disumanità del carcere è tollerabile. Conseguentemente, non solo il principio di umanità della pena può non risultare necessariamente incompatibile con la pena carceraria, finendo in definitiva per legittimare quella non intollerabilmente disumana, ma può non essere capace di evitarne derive profondamente disumane[25].

Nell’individuazione delle ragioni che possono aver determinato un minor ricorso al principio di umanità della pena, non è stata celata, infine, la preoccupazione dell’esistenza di “… un diverso e più pernicioso trade off che, nel tempo, e nelle prassi correnti, ha visto via via annettere al campo delle esigenze funzionali della finalità rieducativa spazi che dovrebbero considerarsi già acquisiti – ed intangibili – alla luce del principio di umanità: e ciò, anche sulla base di un calcolo utilitaristico, che assume la concessione di spazi minimi di dignità come privilegi in cambio della partecipazione al programma di recupero – o della buona condotta – dei detenuti[26].

In relazione a quest’ultima riflessione, allora, si potrebbe forse ritenere che la valorizzazione del principio di umanità tout court, inteso quale agglomerato dei diritti fondamentali della persona, non avrebbe consentito questa disarticolazione della dignità su più livelli e, probabilmente, ne avrebbe impedito la “mercificazione” come contropartita di una detenzione modello.

Quel che è certo è che è svilente assistere all’enfatizzazione di questo primordiale canone di civiltà specialmente allorquando si debba discutere di metri quadri in cui restringere la libertà personale, di giorni di riduzione di pena o di “spiccioli” concessi come ristoro a una detenzione consumata in luoghi privi di spazio vitale, o ancora delle facoltà di cucinare in cella e di scambiare oggetti all’interno del gruppo di socialità. Ciò che, invero, emerge scorrendo le pronunce della Corte di Cassazione, ove il principio di umanità della pena – sulla scorta delle decisioni della Corte EDU[27] – viene in rilievo quasi sempre – e solo – con riferimento ai rimedi risarcitori ex art. 35 ter L. 354/1975, al c.d. carcere duro previsto dall’art. 41 bis o.p. e, non da ultimo, al diritto alla salute delle persone private della libertà personale, ovvero alla detenzione domiciliare c.d. umanitaria.

In questo contesto la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Torino – per gli aspetti sopra evidenziati – rappresenta un ritorno alle fondamenta della pena, alla sua genesi e ai suoi limiti, in una parola: all’umanità, baluardo della dignità intesa come nucleo inviolabile dei diritti fondamentali della persona, che il detenuto conserva e porta con sé nel corso dell’intera esecuzione, senza eccezione alcuna per la natura o gravità del reato che abbia commesso.

Con apprezzabile linearità e chiarezza, l’ordinanza dei Giudici torinesi intende ricordare che l’esercizio del poter punitivo da parte dello Stato non è incondizionato ma “trova un limite invalicabile nel principio di necessaria umanità dei trattamenti sanzionatori, che implica il primato della persona e della sua dignità sulle esigenze repressive”[28], altrimenti la pena diverrebbe cieca vendetta.

Sebbene si sia affermato, in dottrina, che nella pena continui a sopravvivere un gene irrazionale identificabile in un paradigma vendicativo[29], e che con essa “il potere punitivo ha introdotto la vendetta privata nello Stato moderno, istituzionalizzandola[30]”. Altresì è stato precisato, infatti, che “il diritto non può fare propria la vendetta”, e fino a quando tale archetipo non sarà superato “attraverso un autentico mutamento civilizzatore” il potere giuridico dovrà far sì che tale vendetta “si mantenga in un ambito ragionevole e si eserciti nella minore misura possibile[31]”.

Ecco allora che i principi che delineano il volto costituzionale della pena, da concetti astratti sono divenuti argomenti tangibili nell’ordinanza in commento e, immersi nell’attualità della casa circondariale di Torino, hanno consentito a un uomo affetto da gravi patologie di scontare la pena lui inflitta senza perdere la propria dignità, senza consentire che la pena virasse verso una deriva antiumanitaria rispondente a un modello vendicativo irragionevole.  

E’ un precedente significativo che auspichiamo possa aprire la strada a un’interpretazione estensiva, non solo dell’art. 47 ter co. 1 lett. c) L. 354/1975 – come suggerito dalla stessa ordinanza -, ma anche delle altre misure alternative, ogni qual volta le condizioni delle carceri ove la pena dovrebbe essere eseguita risultino indecorose per un Paese civile[32].

Nello stato in cui versano attualmente gli istituti penitenziari italiani, ove il tasso di affollamento reale si attesta al 134,3%[33] e dall’inizio dell’anno si sono contati già 61 suicidi[34], è ancora più urgente incamminarsi senza indugio verso una più compiuta valorizzazione del principio di umanità della pena, che tenti di accorciare le distanze tra questo fondamentale canone di civiltà cristallizzato nella Costituzione e le effettive condizioni di vita all’interno delle carceri.

In dottrina è stato recentemente affermato che “Dopo troppi anni trascorsi nel tentativo di promuovere una riforma del carcere oggi dobbiamo combattere per trasformarlo radicalmente”, che “Non esiste un carcere che rispetti e incarni pienamente i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è come un’isola che non c’è: un luogo ideale, un obiettivo ancora lontano, ma essenziale per affrontare seriamente questo problema[35]”.   

Ebbene, un cauto ottimismo consente di intravedere primi piccoli passi verso questo traguardo. Segnali di una rinnovata sensibilità verso l’umanizzazione della pena possono essere colti, infatti, nelle decisioni della magistratura ordinaria; non solo nel precedente richiamato, ma anche in una recente richiesta di archiviazione formulata dalla Procura della Repubblica di Milano nei confronti di una donna indagata per aver cagionato, per colpa, lesioni personali gravissime nei confronti del figlio. Ponendo in rilievo la sofferenza inflitta alla madre quale conseguenza naturale dell’evento, il Sostituto Procuratore ha chiesto al Giudice di “escludere punibilità (…) ai sensi dell’art. 131 bis c.p. o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli articoli 582, 583 comma 2 n. 1 c.p. nella parte in cui punisce le lesioni personali gravissime cagionate per colpa incosciente dalla madre al figlio, per contrasto con l’art. 27 comma 3 Cast. nella parte cui vieta pene inumane”, non mancando di sottolineare come l’indagata stia, di fatto, già scontando una “sorta di ‘ergastolo con fine pena mai’ e una eventuale pena statale non avrebbe alcuna funzione[36]“.

E ancora, più recentemente, nella sentenza n. 139 del 29 luglio 2025 della Corte Costituzionale  che, pur dichiarando infondata la questione di legittimità dell’art. 59 L. 689/1981 sollevata con riferimento agli artt. 3, 27 co. 3 e 76 Cost., ha chiosato la sua decisione ricordando: “Ciò che resta essenziale (…) è che la pena detentiva sia eseguita in condizioni e con modalità tali da incentivare o rendere comunque praticabile il percorso rieducativo, in condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena. Condizioni, queste, che è preciso dovere del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria assicurare, con riguardo a tutti coloro che si trovano, oggi nelle carceri italiane[37]“.

Saremmo ciechi a non riconoscere che stiamo vivendo tempi in cui è l’umanità in senso assoluto che pare essere stata abbandonata, anzi, sembra sotto assedio ed è difficile da scorgere in ogni dove: nelle guerre, nelle morti dei migranti nel Mar Mediterraneo e, tornando più vicino al tema che ci occupa, nella detenzione in carceri sovraffollate, nella privazione senza regole della libertà personale nei centri per i rimpatri, nell’abrogazione dell’obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per le madri di figli in tenera età.

Tuttavia, come è stato autorevolmente proclamato in dottrina, fino a quando non sarà superata la strutturale condizione di sovraffollamento degli istituti penitenziari sarà necessario continuare a gridare l’indignazione per le sistematiche violazioni dei diritti umani dei detenuti affinché “nessuno possa rifugiarsi nell’alibi dell’ignoranza, della separatezza, del ghetto: e perché tutti possiamo essere consapevoli della nostra corresponsabilità[38].

Possiamo allora partire da pronunce come quella in commento – o dalle altre richiamate, o esistenti ma non annotate – per promuovere l’avviamento di un processo culturale comune tra avvocatura, magistratura e accademia, che dall’attenzione verso i diritti e la dignità del prossimo porti a un più generale recupero dell’umanità, con al centro l’idea di un carcere che “non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone, rispettate come tali, che scontano una pena legalmente inflitta, sono messe in grado di cercare e di percorrere la via del loro riscatto e del loro reingresso nella comunità dei liberi”[39].

Dobbiamo farlo saldando i principi costituzionali in uno con l’attualità della realtà carceraria e tenendo a mente le parole di Gustavo Zagrebelsky: “La giustizia non è solo una questione di codici e procedure. E’ anche, anzi, questione di giudici e di ethos che essi si portano dietro. Prima che questione giuridica, è questione culturale”[40].

*Avvocato del Foro di Bologna

[1]   Tribunale di Sorveglianza di Torino, ordinanza n. 3394 del 05/08/2025.

[2]   Secondo quanto rilevato dall’Associazione Antigone, il tasso di affollamento nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino è del 137,4%. Scheda sulla Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Associazione Antigone, reperibile sul web: https://www.antigone.it/osservatorio_detenzione/piemonte/184-casa-circondariale-di-torino

[3]   Tribunale di Sorveglianza di Torino, ordinanza n. 3394 del 05/08/2025

[4]   Art. 27 comma 3 Costituzione:“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; art. 3 CEDU:“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene inumane o degradanti”.

[5]   Art. 1 L. 354/1975:  “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”.

[6]   Scheda sulla Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Associazione Antigone, reperibile sul web: https://www.antigone.it/osservatorio_detenzione/piemonte/184-casa-circondariale-di-torino

[7]   Report Morire di carcere, Ristretti Orizzonti, aggiornato al 27 agosto 2025.

[8]   Cass. Sez. I sent. n. 26588 del 5 luglio 2024; si veda anche Cass. Sez. I, sent. n. 27352/2019.

[9]   Secondo quanto rilevato dall’Associazione Antigone, gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente in servizio nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino sono 597 ma da pianta organica dovrebbero essere 792. Scheda sulla Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Associazione Antigone, reperibile sul web: https://www.antigone.it/osservatorio_detenzione/piemonte/184-casa-circondariale-di-torino

[10] Tribunale di Sorveglianza di Torino, ordinanza n. 3394 del 05/08/2025.

[11] Corte Costituzionale, sent. n. 279 del 22 novembre 2013.

[12] L. FERRAJOLI, “Diritti umani diritto disumano” in Questione Giustizia, 2021.

[13] Tribunale di Sorveglianza di Torino, ordinanza n. 3394 del 05/08/2025.

[14] D. PULITANO’, Minacciare e punire, C.E.PALIERO, F. VIGANO’, F. BASILE, G.L. GATTA (a cura di) La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, 2018, cit. 1 ss.

[15] V. MANES “Un principio disabitato: l’umanità delle pene” in Editoriale Ante Litteram n. 2 – 2024. Si veda anche:  F. CINGARI, Principio di umanità e pena carceraria, Atti del convegno Trento, 20-21 dicembre 2024, Quaderni della facoltà di giurisprudenza, G. FORNASARI, A. MENGHINI (a cura di), 2025, cit. 22: “Sennonché, il principio di umanità della pena è caratterizzato da una evidente contraddizione. E infatti, alle plurime fonti nazionali e internazionali che riconoscono il principio di umanità della pena e al suo indiscusso carattere inderogabile fa pendant una evidente difficoltà di concretizzazione e inveramento nella realtà normativa e nella prassi della pena criminale”.

[16] V. MANES “Un canone di civiltà dimenticato: il principio di umanità delle pene” in corso di pubblicazione in Rivista italiana di diritto e procedura penale.

[17] Ex multis: Corte Costituzionale, sentenza n. 104 del 1982.

[18]        Ex multis: Corte Costituzionale, sentenze n. 310 e 349 del 1993; n. 97 del 2020; n. 10 del 2024; n. 30 del 2025.

[19] Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, ordinanza n. 23 del 2023,

[20] Corte Costituzionale, sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024.

[21] V. MANES, “Un principio disabitato: l’umanità delle pene” in Editoriale Ante Litteram n. 2 – settembre 2024.

[22] V. MANES, “Un canone di civiltà dimenticato: il principio di umanità delle pene” in corso di pubblicazione in Rivista italiana di diritto e procedura penale, cit. 24.

[23] V. MANES, op. ult. cit., 24.

[24] F. CINGARI, Principio di umanità e pena carceraria, Atti del convegno Trento, 20-21 dicembre 2024, Quaderni della facoltà di giurisprudenza, G. FORNASARI, A. MENGHINI (a cura di), 2025, cit. 22.

[25] F. CINGARI, op. ult. cit. 22.

[26] V. MANES, op. ult. cit., 26-27.

[27] Il richiamo è alla sentenza Torreggiani e altri c. Italia con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per il problema strutturale del sovraffollamento carcerario approfondendo i principi già tracciati nei precedenti Sulejmanovic c. Italia e Kalashnikov c. Russia, poi rivalutati con la sentenza Mursic c. Croazia.

[28] S. CARNEVALE “La persona detenuta e il potere punitivo dello Stato” in A. PUGGIOTTO (a cura di), “Per una consapevole cultura costituzionale. Lezioni magistrali“, 2013, cit. 55.

[29] C.E. PALIERO, Il sogno di Clitennestra: mitologie della pena. Pensieri scettici su modenrità e archeologia del punire, C.E.PALIERO, F. VIGANO’, F. BASILE, G.L. GATTA (a cura di) La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, 2018, cit. 67 ss.

[30] E.R. ZAFFARONI, La pena come vendetta ragionevole, Lectio magistralis Università degli Studi di Udine, 2013, cit. 6 e ss.

[31] E.R. ZAFFARONI, op. loc. ult. cit.

[32] Il 30/06/2025, in occasione di un incontro con il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Stefano Carmine De Michele, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato l’attenzione del governo sul carcere parlando di una vera e propria emergenza sociale in riferimento alle gravi condizioni di sovraffollamento ed agli elevati numeri dei suicidi cui occorre “porre fine immediatamente”.

[33] Associazione Antigone “Emergenza penitenziaria: sovraffollamento, caldo insopportabile e diritti calpestati. Il carcere continua ad essere un’emergenza ignorata” pubblicato il 28/07/2025 reperibile sul web: https://www.antigone.it/news/3604-carceri-antigone-emergenza-penitenziaria-sovraffollamento-caldo-insopportabile-e-diritti-calpestati-il-carcere-continua-a-essere-un-emergenza-ignorata-presentato-il-rapporto-di-meta-anno

[34] Dato diffuso dall’Unione delle Camere Penali Italiane con la locadina sulla drammatica conta dei suicidi in carcere da ultimo pubblicata il 07/09/2025

[35] G.M. FLICK, “Per una giustizia “degna del senso ultimo dell’essere umano”. Cento anni di impegno e di presenza di Sesta opera San Fedele (1923 – 2023), G. CHIARETTI (a cura di), 2023, Prefazione aggiornata 2025.

[36] Richiesta di archiviazione del Sostituto Procuratore Dott. Paolo Storari presso la Procura della Repubblica di Milano del 23/04/2025.

[37] Corte Costituzionale, sentenza n. 139 del 29 luglio 2025.

[38] G.M. FLICK, Carceri e pari dignità sociale, cit. 104.

[39] V. ONIDA, “Carcere e legalità” in Dignitas nn. 11-12/2002. Si veda anche M. RUOTOLO, Il carcere come luogo della legalità. In onore di Valerio Onida in Rivista AIC N. 4/2011.

[40] G. ZAGREBELSKY “Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune“.