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IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE, ORALITÀ E IMMEDIATEZZA: CONTRO LE PREROGATIVE DI MOBILITÀ DEI GIUDICI – DI LUCA MARAFIOTI

IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE, ORALITÀ E IMMEDIATEZZA: CONTRO LE PREROGATIVE DI MOBILITÀ DEI GIUDICI – DI LUCA MARAFIOTI

MARAFIOTI – IIMMUTABILITÀ DEL GIUDICE, ORALITÀ E IMMEDIATEZZA – CONTRO LE PREROGATIVE DI MOBILITÀ DEI GIUDICI.PDF

IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE, ORALITÀ E IMMEDIATEZZA: CONTRO LE PREROGATIVE DI MOBILITÀ DEI GIUDICI

di Luca Marafioti*

La relazione, rivista dall’autore, tenuta nel corso della manifestazione “In difesa del principio di immutabilità del Giudice” del 28.06.2022 durante l’astensione dei penalisti italiani, nella sessione “Le regole, la presa di posizione degli studiosi del processo”.

 

1.  Chi mi ha preceduto ha già detto cose brillantissime: tuttavia, occorre ammettere, da subito, che i piani di intersezione del tema sono tantissimi.

Già, in prima battuta, il pensiero va a quella uggiosa giornata patavina in cui, su invito di Paola Rubini e della locale Camera Penale, discutevamo della pronuncia Bajrami. Nonostante le condizioni climatiche, ne dibattevamo “a caldo”, a breve distanza dalla sua emissione. A ben vedere, ne parlavamo con l’intento di capirne la portata e di articolare una reazione a quello che poi si rivelerà una sorta di rassegnazione nei confronti di quell’effetto-Bajrami, cui assisteremo in seguito; eppure, non individuavamo ancora tutti i piani che questo tema poteva toccare.

Anzitutto, ve n’è uno che potrebbe definirsi, in un certo senso, “storico”.

Filippo Dinacci ci ha riportato con i ricordi a oltre trent’anni fa quando ci intrattenevamo sulla portata della logica del giudizio, sul significato rivestito dal rapporto tra dato e valore, sul rilievo da attribuire al canone dell’oralità/immediatezza. Sulla scorta della lezione di Michele Massa, ci rendevamo conto trattarsi di un vero e proprio principio “naturale” del giudizio, senza il rispetto del quale non può darsi un giudizio penale in senso proprio.

Simile piano, di cui discutevamo con tanta passione, appare relegato, ormai, sul polveroso scaffale dello storico. Eppure, da tale scaffale il canone in discorso va rispolverato. Giacché l’idea-forza secondo cui nel processo penale non si possa prescindere da un giudizio basato su un principio di oralità/immediatezza, proprio in quanto principio naturale, si scontra con la dimensione ormai assunta dal dibattimento. L’accertamento penale è, infatti, sempre meno basato su quella testimonianza che ne avrebbe dovuto rappresentarne la prova regina, risultando incentrato su prove che in nessun modo possono definirsi testimonianza, nel senso di dichiarazioni acquisite attraverso un metodo di assunzione orale; dal momento che i dibattimenti risultano così tanto ricolmi di documenti, nelle sue varie polimorfe accezioni, di memorie scritte, di appunti, note e trascrizioni, come ben sa chi tutti i giorni frequenta le aule giudiziarie.

Cosicché, più complessi e/o tecnici sono i processi, tanto meno finiscono per essere caratterizzati dall’oralità; per giunta, la lamentata dimensione finisce per manifestarsi in qualsiasi vicenda processuale.

Il secondo dei piani di cui si discute riguarda il giurista e, segnatamente, il processualpenalista. Come abbiamo imparato, sempre pronto al commento di questo e quel codicillo, abituato a citare le sentenze con i cognomi degli imputati, anziché propenso a ricostruire il sistema e a lottare per il diritto, per definizione così poco im Kampf, come è parso sollecitarci Dinacci, con una metafora jehringhiana. Viceversa, a modo suo, è tenuto a farlo, seppure in prima linea, l’avvocato penalista per fronteggiare l’effetto-rassegnazione derivante dalla Bajrami. Un effetto che ricorda ciò che Taruffo descriveva come il “logorato dall’esperienza”, il quale dinanzi alla deriva assunta dalla materia crolla le spalle, dicendosi “ma tanto a che serve”? Un avvocato nella medesima condizione ricordata nell’aneddoto citato dal collega brindisino, fermo nel perorare la rinnovazione istruttoria a seguito di mutamento dei giudici, cui quel presidente di tribunale beffardamente diceva le “è andata male avvocato”, una volta ripristinata l’originaria composizione dei componenti del collegio.

In terzo luogo, va collocato il piano politico, in senso lato, che si coniuga molto con quello riguardante l’avvocatura. Anche se apparentemente può sembrare un paradosso, chi oggi deve subire o sopportare maggiormente, a testa bassa (come diceva Giuseppe Belcastro, con la fronte metallica, se ho capito bene) lo sforzo politico della battaglia per questi principi sembra essere proprio l’avvocatura, come dimostrato da questi due giorni di astensione e dalla presente iniziativa. D’altra parte, nel più recente numero della nostra Rivista si tratta appunto del tema, ospitando una riflessione formulata dal punto di vista dell’avvocatura, a dimostrazione della nostra costante sensibilità.

Residua il piano, forse, più importante, vale a dire quello ordinamentale, come abbiamo potuto renderci conto dal brillantissimo intervento precedente della professoressa Cavallini. Occorre prendere atto che quello processuale rappresenta terreno in ostaggio di quello ordinamentale o, comunque, della politica seguita in materia di ordinamento giudiziario. Ora, si tratta di area che dal 1988, allorché entra in campo la riforma del codice di procedura penale, ha subito una continua erosione, un progressivo svuotamento alle spalle di qualunque speranza di funzionamento del codice. L’ordinamento giudiziario l’ha fatta e continua a farla da padrone, operando come un socio tiranno sulla concreta dimensione applicativa del codice processuale, come dimostra proprio l’inveterata prassi in tema di mutamento dei componenti degli organi giudicanti

Per cui, anche questo non per darci delle medaglie, ma a riprova dell’attenzione dell’avvocatura penalistica, va riconosciuto il merito all’Unione per la sua sensibilità nell’aver compreso che il tema è centrale, nodale nella battaglia per una politica del diritto degna del nostro paese.

2. Una volta delineati i diversi piani che si intersecano nella trattazione del tema attuale, alcune cose, nei pur ristretti limiti di tempo disponibili vanno, però, dette sulla tematica Bajrami.

La Bajrami rappresenta una pronuncia nella quale, espressamente, le Sezioni Unite attribuiscono alla prassi funzione di fonte del diritto, idonea a contribuire da artifex della decisione interpretativa.

È la prima volta, per quanto risulti, che da parte delle nostre Sezioni Unite la prassi viene esplicitamente elevata a tale rango. Appare, poi, singolare e ne discorrevamo con Paola Rubini proprio in quella uggiosa giornata patavina che lo stesso relatore della sentenza delle Sezioni Unite aveva già precedentemente esternato in un agile volumetto a sua firma le tesi poi patrocinate nella motivazione. Tale impostazione si trasformerà in maggioranza all’interno delle Sezioni Unite e la vicenda ha dell’incredibile, trattandosi quasi di un copia e incolla.

Come noto, poi, in forza di un approccio paternalistico alle garanzie compendiate nel giusto processo, se ne è voluta propagandare negli anni una dimensione oggettiva, da ritenersi co-essenziale all’attività giudiziaria, in modo da venire intese quasi come una sorta di altrettante garanzie per il giudice.  Tuttavia, sul punto occorre essere chiari: i giudici si sono rivelati indifferenti se non, addirittura, insofferenti nei confronti dell’oralità e dell’immediatezza. Non è vero (Oliviero Mazza già all’epoca ci ammoniva) che ci credono, le soffrono, prediligono ogni forma di supporto diverso, vogliono il testo scritto, a loro non importa dilazionare le udienze.

Il che impone di tornare al problema che può definirsi, con una battuta non si sa quanto felice, del giudice con la “memoria del pesce rosso”, secondo la fiaba disneyana “Alla Ricerca di Nemo”. Tutto il meccanismo processuale è, infatti, incentrato sull’idea-presupposto che il giudice, come essere umano è soggetto ad essere abbandonato dalla memoria e a perdere sempre più dettagli della vicenda dibattimentale cui pure ha assistito, se non a dimenticarla integralmente. Basti pensare all’art. 477 c.p.p., concepito, proprio, muovendo dalla consapevolezza che il giudice è inevitabilmente destinato a dimenticare quello che ha sentito. Un simile, inevitabile affievolimento della memoria è alla base di tutte le legislazioni processuali. In definitiva, sulla scontata premessa che la memoria non la possiamo garantire si fonda lo stesso principio di concentrazione del dibattimento.

Ecco perché può parlarsi di giudice-pesce rosso: se il 477 c.p.p. doveva rappresentare un antidoto, va preso atto che tale previsione non mai trovato applicazione, sin dal 24 ottobre 1989, primo giorno di operatività del codice di procedura penale. Se ne parlava qualche tempo col giudice romano che, in qualità di Pretore, celebrò il primo processo col nuovo rito con tanto di riprese televisive (egli ormai è sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma): una direttissima che si protrasse per tantissime ore.  Forse soltanto quel giorno venne rispettato il canone della concentrazione dibattimentale e non venne disposto un consistente rinvio del dibattimento. Per il resto, già dal primo giorno di vita del nuovo codice, l’art. 477 c.p.p. mai ha trovato una effettiva dimensione applicativa.

3. E allora?  Come ritornare a invertire la tendenza come sembra accadere?

Si tratta di vedere in che misura possano essere colte le chances che si presentano. In questa prospettiva, anche la riforma Cartabia, per tanti altri aspetti veicolo di svariate occasioni mancate, sembra contenere a prima vista qualche chance, perché contiene nella materia che ci interessa segnali di inversione di tendenza.

Al di là di qualsiasi perplessità sull’idea di un’immediata precettività delle previsioni contenute nella riforma Cartabia, è sicuro è che, alla stregua della previsione contenuta nell’articolo 1 comma 11 lett. d) della L. 27 settembre 2021, n. 134 delega e, in forza del rapporto che è destinato ad instaurarsi tra Carta costituzionale, Legge-Delega e norme delegate, secondo il paradigma delle norme interposte, la dottrina Bajrami può considerarsi ormai incostituzionale. Essa può essere bollata come una lettura contro la costituzione, così come contro la costituzione appare la stessa sentenza n. 132 del 2019 della Corte costituzionale che aveva tirato la volata alla Bajrami. Si tratta di un modus procedendi nel rapporto tra le due Corti che è risultato di segno diverso rispetto a quello seguito nella vicenda cui avevano messo capo la nota sentenza sull’art. 507 c.p.p., emessa dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 1992 e al successivo intervento della Corte costituzionale nel 1993. In quel caso, con singolare inversione metodologica nel rapporto gerarchico tra fonti ed interpretazioni giurisdizionali, la Corte costituzionale aveva avuto l’ardire di definire “diritto vivente” un esito giurisprudenziale di cassazione che si era premurata di attendere, mediante un provvidenziale rinvio della propria udienza.

Questa volta, invece, è la Corte costituzionale a tirare la volata alle Sezioni Unite, legittimando una prassi deviante in tema di concentrazione, immutabilità del giudice ed oralità/immediatezza; un metodo meno tortuoso, ma non meno inesorabile.

Il problema è, allora, che cosa fare al fine di reimmettere pesantemente in circolazione nel processo penale quello che potremmo chiamare un diritto al giudice immutabile, nonché all’assunzione/riassunzione della prova, quali derivati dell’art. 111 Cost., come ci ricordano Dinacci e Mazza.

Ciò vuol dire tornare a crederci, fornendo una risposta alle obiezioni degli esponenti dell’avvocatura che ci criticano perché registrano intorno a loro un atteggiamento di rassegnazione rispetto a un diritto di questo tipo nella quotidianità delle udienze, nelle aule e dinanzi ai giudici.

Ed invero, è legittimo chiedersi come si fa a tornare a crederci oggi, nel momento in cui sembriamo affetti da una sindrome di accerchiamento, circondati come siamo da processi che fungono da contenitori di prove che sono sempre meno orali, o perché nascono per essere pensate come prove tutt’altro che orali o perché presto si trasformano in prove assunte “senza oralità”.

Basti por mente agli ostacoli affrontati ogni giorno nell’audizione di consulenti tecnici nei processi più o meno complessi, in cui la parola degli esperti viene ascoltata ma si cerca sempre e comunque il supporto scritto: alle volte, addirittura, si pretende un deposito, previo o consentaneo, della versione scritta delle consulenze. In altri termini, chi deve decidere non ci crede o, quantomeno, non può permettersi il lusso di confidare troppo nell’oralità.

Allora, come cambiare paradigma, tornare al diritto all’immutabilità del giudice, al diritto alla prova e far perdere terreno alla discrezionalità extraprocessuale, come vediamo per l’ordinamento giudiziario, o processuale, come si desume dalla deriva in materia di mutamento nell’organo giudicate o in materia di diritto all’assunzione la prova?

4. In effetti, la Cartabia un piccolo passo avanti lo intende compiere, fissando una regola, derogabile in caso soltanto di videoregistrazione. Di talché, la videoregistrazione perde quell’accezione negativa che assumeva nell’ambito del processo a distanza e che aveva portato a teorizzare l’avvento di un nuovo trinomio in tema di modalità della formazione della prova: oralità, lettura, a distanza.

A ben vedere, la visione dei verbali redatti mediante videoriprese rappresenta, o può rappresentare, un metodo di conoscenza processuale e valutazione della prova meno deteriore di quello rappresentato dalla mera lettura di una trascrizione. Meno deteriore non vuol dire che si possa parlare surrogato probatorio o di Beweis-Surrogat, come dicono i tedeschi. La visione rappresenta qualcosa di diverso da un’alternativa, come ci insegnano Corte Edu e Corte costituzionale, qualche cosa che può ricompensarci, un rimedio compensativo a documentazione di quella oralità/immediatezza che devono ovviamente rappresentare la regola per l’incidente probatorio e per ogni audizione orale; anche l’incidente probatorio dovrebbe, infatti, poter entrare nel dibattimento solo se il video registrato.

Epperò mettiamoci una mano sulla coscienza: il rapporto non mediato con la parola, vale a dire diretto, non può essere supplito da una videoregistrazione, perché come qualcuno ha detto chiaramente si perde la potenza di verità che la parola rappresenta.

Quella parola, su cui l’idea essenziale del dibattimento e del processo che addirittura ereditiamo dalla tradizione attica, ha fatto pensare al legislatore illuminista come un processo dovrebbe essere concepito.

Non è banale, allora, che sia proprio l’avvocatura a lottare per questo: per nulla banale e neppure tanto scontato se l’avvocatura oggi lotta per il diritto al giudice immutabile, per il diritto alla riassunzione orale della prova o all’assunzione orale della prova tout court.

Però, attenzione: dobbiamo renderci conto che questa lotta rischia di trasformarsi in una lotta, quantomeno, per la videoregistrazione. Già dobbiamo prepararci a questo terreno di battaglia; dobbiamo attestarci sulla linea Maginot della videoregistrazione o contro qualsiasi ineffabile diritto alla mobilità dei magistrati.

In altri termini, il diritto alla prova, il diritto all’immediatezza, il diritto all’oralità passano, anche e soprattutto, per una lotta contro qualsiasi il diritto alla mobilità dei magistrati e contro qualsiasi disposizione transitoria “beffa”. Basti pensare alle disposizioni in materia di registrazioni degli interrogatori cautelari e ai tentativi allora registrati di aggiramento, in ragione della comprovata indisponibilità di strumenti di registrazione.

Cosicché, la videoregistrazione deve rappresentare conditio sine qua non per lo svolgimento dei dibattimenti.

Si tratta di una lotta impegnativa, perché deve tenere conto della inesorabile perdita di memoria da parte del “giudice-pesce rosso”.

Di questa tendenza dobbiamo farci carico e, in questo senso, oggi è un onore fondamentale partecipare alle iniziative intraprese in materia dall’Unione.

* Ordinario di diritto processuale penale nell’Università degli Studi Roma Tre