INCIAMPI ARGOMENTATIVI NELLA GIURISPRUDENZA CONVENZIONALE. UN PASSO INDIETRO SULLA PERICOLOSITÀ GENERICA? – DI FABRIZIO COSTARELLA E COSIMO PALUMBO
COSTARELLA-PALUMBO – INCIAMPI ARGOMENTATIVI NELLA GIURISPRUDENZA CONVENZIONALE. UN PASSO INDIETRO SULLA PERICOLOSITÀ GENERICA?
INCIAMPI ARGOMENTATIVI NELLA GIURISPRUDENZA CONVENZIONALE. UN PASSO INDIETRO SULLA PERICOLOSITÀ GENERICA?
di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo*
Nota a sentenza 21 gennaio 2025 della Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Sommario: 1. Premessa – 2. Evoluzione del concetto di pericolosità generica nella giurisprudenza nazionale e comunitaria – 3. Gli ultimi approdi della Giurisprudenza domestica – 4. La sentenza “Garofalo”
- Premessa.
La Corte Europea, con la sentenza in commento, ha ritenuto che il procedimento di prevenzione, nella specie per l’applicazione di una misura basata su pericolosità generica, ex art. 1 lett. b) D.L.vo 159/11, sia sottratto alla presunzione di innocenza di cui all’art. 6§2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Simile conclusione giunge all’esito di un lungo iter, teso a confutare la natura penale della confisca di prevenzione.
Sul versante degli effetti la CEDU osserva, tra l’altro che, a differenza della confisca penale, quella di prevenzione può investire solo il profitto del reato, non anche il prodotto o il prezzo, manifestando, pertanto, una funzione meramente ripristinatoria.
Affrontando il profilo della sua vocazione, la sentenza aggiunge, con una scorciatoia argomentativa che sarà a breve affrontata, che la constatazione di pericolosità sociale generica non si risolve in una accusa penale e, pertanto, non può avere natura penale neanche la misura imposta.
Tale conclusione travolge gli sforzi ermeneutici convenzionali e nazionali che, negli ultimi anni, avevano inteso dotare la pericolosità generica di uno statuto di tassatività formale.
Conviene, dunque, muovere dallo stato dell’arte sul quale la Corte EDU interviene.
- Evoluzione del concetto di pericolosità generica nella giurisprudenza nazionale e comunitaria.
La sentenza n. 24/19 della Corte Costituzionale ha costituito l’approdo di un percorso giurisprudenziale assai risalente, che trova la propria descrizione e sintesi nella sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, che ha minato il sistema della prevenzione personale c.d. semplice, per come previsto dal D.L.vo 159/11, affermando icasticamente che le misure di prevenzione personale fondate sulla c.d. pericolosità generica sono prive di previsione legale. Pur non essendo infatti controvertibile la esistenza di una base legale di simile restrizione, la Corte ha tuttavia osservato come difetti, nella formulazione della norma, il requisito di “prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, per il soggetto colpito dalla misura di prevenzione personale”, a causa della inadeguatezza della legislazione nazionale rispetto agli standard convenzionali.
Ma la Corte EDU muove da un arresto della Corte Costituzionale italiana, che già molti anni orsono aveva richiamato il Legislatore nazionale, nella determinazione degli elementi costitutivi della pericolosità sociale – e, salva la possibilità di ricorrere alle presunzioni – a formulare a quali comportamenti obiettivamente identificabili far seguire l’adozione dei provvedimenti di prevenzione ed a non basarsi, per la loro irrogazione, su semplici sospetti, quanto su fatti, dai quali dedurre poi, su base logico-inferenziale, la condotta abituale ed il tenore di vita della persona[1].
Già secondo la risalente pronuncia del Giudice delle Leggi, pertanto, la prognosi di pericolosità non poteva che trovare giustificazione in presupposti di fatto previsti dalla legge, obiettivamente riscontrabili.
Sulla scorta di tale dictum, la Corte EDU, nella sentenza De Tommaso, ha quindi evidenziato la indeterminatezza della elencazione categoriale dei criteri di individuazione della pericolosità sociale semplice che, in violazione del principio di prevedibilità della sanzione, non consente al destinatario della norma di rendersi conto delle possibili conseguenze dei propri comportamenti, in punto di possibile sottoposizione a procedimento e, in seguito, a misura di prevenzione.
Ed il difetto di prevedibilità della sanzione è stato sussunto (più che in un difficilmente predicabile difetto di base legale della misura di prevenzione) nella violazione del principio di “qualità della legge”, che deve essere accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai suoi effetti.
La formulazione di qualsiasi legge deve infatti essere assistita da sufficiente precisione, così da consentire ai cittadini di conoscere in anticipo quali possano ragionevolmente essere le risposte dell’ordinamento rispetto ad una condotta umana[2].
Peraltro, già la nostra Corte Costituzionale aveva introdotto il concetto di “sufficiente determinazione della fattispecie” penale, quasi anticipatorio di quello di “prevedibilità”, funzionale “tanto al principio di separazione dei poteri, quanto a quello di riserva di legge in materia penale, assicurando, al contempo, la libera determinazione dell’individuo, cui consente di conoscere le conseguenze giuridico-penali del proprio agire”[3].
In sostanza il principio di determinatezza, implicitamente ricavabile dall’art. 25 Cost., comma 2, è in funzione della “riconoscibilità ed intelligibilità del precetto penale in difetto dei quali la libertà e sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate”[4].
In questo ambito si colloca quindi l’intervento critico della sentenza De Tommaso, che ha concluso ritenendo che la locuzione “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, non sia assistita, da un lato, da un sufficiente grado di prevedibilità e determinatezza e, dall’altro, da una giurisprudenza interpretativa capace di tassativizzare i comportamenti che si pretende di stigmatizzare.
Una valutazione della disposizione normativa, dunque, condotta al lume della sua concreta applicazione da parte del giudice nazionale, nell’ottica della tutela dei diritti consacrati dalla Carte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel dibattito, sono poi prontamente intervenute le Sezioni Unite penali dalla Corte di Cassazione, con la sentenza Paternò.
Nella ordinanza di remissione, al supremo Consesso era stata proposta la risoluzione della questione “Se la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d. lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8 del d. lgs. cit., abbia ad oggetto anche le violazioni delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi».
Il massimo organo della nomofilachia ha per primo avallato, sul punto, la funzione “tassativizzante” e “tipizzante” della lettura giurisprudenziale della norma, prendendo al contempo atto sia della mancanza di simile giurisprudenza, sia, in ogni caso, della impossibilità di dare contenuto a principi tanto vaghi – quali quello di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» – da attribuire all’interprete un eccessivo grado di discrezionalità.
La risposta data alla quaestio iuris devoluta, quindi, è stata negativa, nel senso che l’indeterminatezza della norma in esame impedisce la conoscibilità del precetto, non consentendo al destinatario di adeguare il proprio comportamento a conseguenze sanzionatorie che non riesce a prevedere.
La conclusione adottata dalla Suprema Corte è, dunque, che il delitto in esame è integrato solo ed esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche, che hanno un autonomo contenuto precettivo[5].
Una simile decisione non può che avere ricadute determinanti anche sulla definizione del soggetto socialmente pericoloso “semplice”, dovendosi ritenere, anche in questo caso, che la prescrizione di vivere onestamente difetti di quella necessaria chiarezza di enunciazione, idonea a rendere intellegibile al destinatario della norma quale sia il comportamento che l’ordinamento si aspetta da lui e, soprattutto, quali possano essere le conseguenze attribuite alle condotte difformi da quelle dovute.
Nel dibattito è, infine, intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 24/19 che, nella motivazione ha condiviso le argomentazioni della Corte Edu e quelle espresse sia nelle ordinanze di remissione che nella ricordata sentenza “Paternò” delle Sezioni Unite Penali.
Così, dopo aver rilevato il difetto di precisione della disposizione di cui all’art. 1, comma 1 lettere a) e b) D.L.vo 159/11, la Corte ha operato una distinzione tra i sintagmi “abitualmente dediti a traffici delittuosi” (lettera a) e “vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”.
A giudizio della Corte, entrambe le disposizioni, nella loro formulazione letterale, scontano un evidente limite di chiarezza e determinatezza, non consentendo al destinatario delle stesse di parametrare la propria condotta al precetto normativo, né di conoscere in anticipo la soglia comportamentale oltre la quale si verifica l’intervento prevenzionale.
E, tuttavia, la Consulta ha ricercato un fattore chiarificatore estrinseco della littera legis, rinvenendolo nella interpretazione tassativizzante fornitane dalla giurisprudenza di legittimità, che ha “concretizzato” (per usare le parole della decisione costituzionale) le categorie di delitto che possono essere assunte a presupposto della misura di prevenzione, ovvero delitti commessi abitualmente, che abbiano generato profitti, che abbiano costituito l’unico reddito del soggetto o, quantomeno, una componente significativa dello stesso.
Tale sufficiente grado di precisione è individuato dalla Corte costituzionale nella “predeterminazione non tanto di singoli ‘titoli’ di reato, quanto di specifiche ‘categorie’ di reato, in grado di soddisfare l’esigenza di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura[6].
I requisiti sopra elencati devono essere provati sulla base di precisi “elementi di fatto”, di cui il Tribunale è tenuto a dare conto puntualmente nella motivazione, in virtù del disposto di cui all’art. 13, secondo comma, Cost.
A tale proposito, la Corte costituzionale ha, in particolare, sottolineato che nell’ambito della interpretazione tassativizzante, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo degli «elementi di fatto», su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie.
Deve quindi trattarsi di episodi storici ricostruiti non sulla base di meri indizi, dal momento che la terminologia usata nell’art. 1 d.lgs. 159/11 (elementi di fatto) è diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 per l’individuazione della pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati»[7].
L’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett. b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali[8] .
Occorre, per mutuare le parole della Consulta “un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto”[9].
Ai fini poi dell’applicazione delle misure patrimoniali del sequestro e della confisca, la Corte costituzionale ritiene altresì necessario che i tre requisiti sopra indicati siano accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare, con l’ulteriore precisazione che l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare[10].
Il Giudice delle Leggi, in definitiva, ha ravvisato lo statuto costituzionale delle predette misure lungo le “direttrici dell’esistenza di un’idonea base legale, della necessaria proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione e della riserva di giurisdizione ovvero di un procedimento che, ancorché non sottoposto agli standard garantistici del processo penale, sia comunque idoneo a garantire il diritto di difesa[11].
In ciò, autorevole dottrina ha visto un rafforzamento della legalità della legge, essendo stato riaffermato che “la selezione dei criteri di decisione delle pronunce giudiziarie avvenga nel contesto dei significati interni all’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo”, segnalando così l’antecedenza del testo sull’interpretazione, secondo una gerarchia di valori la quale impone che “le determinazioni morfologiche del reato e della pena siano prerogative dei luoghi istituzionali in cui si esercita la democrazia rappresentativa”[12].
Si tratta, infatti, di “un passo in avanti in termini di certezza del diritto e rispetto della presunzione d’innocenza come profilo processuale del principio di legalità, nel senso che si sia chiamati a rispondere (nel senso di subire delle conseguenze giuridiche come sono, perlomeno, le misure preventive) solo da fatti accertati in giudizio e non rimasti in uno stato di incerta efficacia perché non accertati in un regolare procedimento in contraddittorio”[13].
- Gli ultimi approdi della giurisprudenza domestica.
Il successivo, logico approdo ermeneutico è stato quello di ritenere applicabile al procedimento di prevenzione la presunzione di innocenza di cui all’art. 6§2 CEDU.
Va premesso che detta presunzione, nel diritto convenzionale, ha una accezione più ampia rispetto all’analoga disposizione costituzionale (art. 27 Cost.), che fissa quella di “non colpevolezza”. La norma nazionale si riferisce alla figura “dell’imputato”, cioè di colui nei cui confronti sia stata esercitata l’azione penale, che viene considerato non colpevole sino a sentenza definitiva di condanna.
La disposizione convenzionale, invece, si riferisce alla figura “dell’accusato” di un reato, che si presume innocente sino a che la sua colpevolezza “non sia legalmente accertata”. Mentre l’art. 27 della Costituzione si riferisce, dunque, soltanto al sistema processuale penale, l’art. 6 § 2 della Convenzione attiene a qualsiasi accusa di un reato, anche estranea ad una accusa penale e persino ad un procedimento giurisdizionale[14].
Come si è visto, tuttavia, a seguito del progressivo affinamento giurisprudenziale della materia, che, in controluce, va letto come la costante ricerca di una salvezza escatologica per l’armamentario della prevenzione, oggi, tanto per l’affermazione di pericolosità semplice, quanto per quella di pericolosità qualificata, il presupposto è l’accusa di uno o più delitti.
Genericamente lucrogenetici, per la pericolosità di cui all’art. 1 CAM, oppure specificamente indicati nel catalogo dell’art. 4 del D.L.vo 159/11.
Ciò in ossequio al principio di precisione della Legge (nel senso di accessibilità del precetto e prevedibilità della reazione), per come richiamata dalla Corte EDU nella sentenza De Tommaso e dalla Corte Costituzionale nella sentenza 24/19.
È parsa, allora, evidente l’applicabilità, anche ai procedimenti di prevenzione, della presunzione di non colpevolezza, in forza del principio secondo il quale – anche in assenza di constatazione formale – è sufficiente che al Giudice sia richiesta una motivazione che lasci intendere che l’interessato è colpevole.
Tali constatazioni di fatto, consistendo in una accusa di natura penale, devono essere sottoposte alla presunzione di innocenza e pretendere il previo legale accertamento del fatto e della responsabilità, previa formulazione incidentale di un giudizio di colpevolezza.
Seguendo questo iter logico, due recenti sentenze della Corte di Cassazione[15] hanno espressamente ritenuto la applicabilità al procedimento di prevenzione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.
Tale norma, non si limita ad una semplice garanzia procedurale in ambito penale, ma ha portata ben più estesa ed esige il rispetto dei canoni di un processo equo, vietando che qualsiasi autorità pubblica possa dichiarare una persona colpevole di un reato, prima che la sua colpevolezza sia stata accertata da un Tribunale[16].
Ciò non comporta solo che, una volta intervenuta una dichiarazione di non colpevolezza in ambito penale, sia impedita la celebrazione di qualsiasi altro procedimento, avente ad oggetto gli stessi fatti già posti alla base dell’accusa penale.
Richiama, anche, condizioni stringenti riguardanti l’onere della prova[17], le presunzioni di fatto e di diritto[18], il diritto di non contribuire alla autoincriminazione[19].
Impone soprattutto la sottoposizione del giudizio di prevenzione ai principi in materia di contraddittorio e di diritto alla prova, senza limitazioni alle facoltà dei soggetti interessati, secondo i principi generali sanciti dall’art. 111 della Costituzione per ogni processo.
Applicando tali principi, la Corte di Cassazione, nei due arresti richiamati, ha ritenuto che il Giudice della prevenzione, verificando la pericolosità generica di un soggetto proposto per l’applicazione di misura di prevenzione personale, non possa ritenere rilevanti, in base al principio della valutazione autonoma, fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione[20].
Ma ha anche ritenuto illegittima l’applicazione, nel giudizio di prevenzione, di una disciplina individuata in via interpretativa ed in assenza di precisi indici normativi. Dovendo invece essere rispettato in ogni processo quanto disposto dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 CEDU, in quanto norma interposta in relazione all’art. 117 della Costituzione[21].
Le pronunce citate si pongono in linea di continuità con precedenti arresti della Sesta Sezione della Corte che, partendo dal presupposto della necessità di stabilire nella materia anfibia della prevenzione un punto di equilibrio tra legalità sostanziale e processuale, ricordano come il procedimento di prevenzione sia caratterizzato da un inferiore standard probatorio e da uno statuto processuale obiettivamente debole, con un basso livello di garanzie fondamentali inerenti al diritto di difesa ed un sindacato da parte della Corte di cassazione limitato alla sola violazione di legge. [22]
La linea di confine che separa il procedimento penale da quello di prevenzione diventa, secondo la Corte di legittimità molto sottile, se non inconsistente, poiché entrambi i procedimenti hanno ad oggetto sostanzialmente la prova di una pregressa attività criminosa del soggetto che potrebbe non avere specifici riferimenti temporali e spaziali.
- La sentenza “Garofalo”.
In questo scenario, che si pensava in fase di consolidamento nell’estendere al procedimento di prevenzione i costituti sostanziali del giusto processo, è però intervenuta la Corte EDU, con la sentenza qui segnalata, discostandosi dal percorso tracciato da De Tommaso/Italia e dal successivo affinamento giurisprudenziale domestico, anche costituzionale.
La Corte, nell’esaminare il diritto interno applicabile, riconosce che “la giurisprudenza nazionale ha chiarito che, per essere qualificata come rientrante nella categoria di cui all’articolo 1 § 1 lett. b) del D.Lgs. n. 159/2011 è necessario che vi sia stato almeno un accertamento giudiziale della commissione di un reato in un procedimento penale”.
Tuttavia, dopo aver concluso (secondo percorsi argomentativi piuttosto contraddittori e non sempre affidabili, ma che non mette conto approfondire in questa sede) che la confisca di prevenzione non è una pena, la sentenza conclude sillogisticamente che “dato che la Corte ha già concluso che la confisca non può essere considerata una pena ai sensi dell’articolo 7, per ragioni di coerenza nell’interpretazione della Convenzione nel suo complesso, essa ritiene che il procedimento in questione non abbia comportato la determinazione di un'”accusa penale” ai sensi dell’art. 6 della Convenzione.
La conclusione, evidentemente, confonde la natura della contestazione con quella della reazione ordinamentale, essendo, invece, noto che, mentre una sanzione penale non può che conseguire all’accertamento di un reato, dalla commissione di un illecito penale può originare anche una sanzione amministrativa.
L’ordinamento interno, infatti, conosce da quasi un secolo la distinzione dottrinale tra sanzioni “in senso stretto”, radicata nell’idea dell’illecito da reprimere[23], e sanzioni “in senso lato”, da intendersi invece quale strumento di supporto dell’azione amministrativa.
Le sanzioni amministrative tributarie, ad esempio, che rientrano nella prima delle citate categorie e che, a proprio a causa del loro carattere spiccatamente afflittivo, sono divenute protagoniste della “saga Taricco” sul crinale del ne bis in idem sanzionatorio, conseguono a violazioni di una disposizione di diritto tributario, anche di natura penale.
Ancora, la responsabilità amministrativa dell’ente collettivo, di cui al D.L.vo 231/02, dipende dai reati commessi dai suoi amministratori o dipendenti.
Dire, quindi, che se la confisca (o le altre misure di prevenzione, patrimoniali o personali) non ha natura penale, allora il suo presupposto accertativo non può avere ad oggetto una accusa penale, appare più il frutto di una scorciatoia logica, che di una ponderata riflessione.
Del resto, la “ragion di Stato” traluce dalla motivazione della sentenza, che valorizza, quale elemento di valutazione sulla natura dell’ablazione patrimoniale, il “crescente consenso internazionale sul ricorso alla confisca o a misure analoghe al fine di sottrarre alla circolazione economica i beni di provenienza illecita, con o senza un previo accertamento della responsabilità penale”.
È allora difficile conciliare il percorso di tassativizzazione dei presupposti per l’affermazione della pericolosità generica (che culmina con la pretesa di ricostruire più reati lucrogenetici, di cui almeno uno accertato giudizialmente nel processo penale), con la conclusione – immotivata sul punto – che detto accertamento non riguardi una “accusa di reato”.
Locuzione, questa, alla quale letteralmente si riferisce la presunzione di innocenza di cui all’art. 6 della Convezione, che la Corte EDU, stabilmente, non assimila al concetto di “imputazione formale” di un reato.
Difatti, i Giudici convenzionali hanno avallato, prevalentemente, una nozione di “accusa”, rilevante per l’applicazione dell’art. 6§2 della Convenzione, di natura “materiale”, e non “formale”[24].
L’”accusa penale” può pertanto essere definita, secondo la giurisprudenza europea, come “la notifica ufficiale, proveniente dall’autorità competente, dell’addebito di un reato”, avente “ripercussioni importanti sulla situazione della persona sospettata”[25].
La presunzione di innocenza non viene rispettata quando, senza aver previamente accertato la colpevolezza di un imputato, una decisione giudiziaria che lo riguardi rifletta l’impressione che egli sia colpevole, anche in assenza di una constatazione formale[26].
In sintesi, “la presunzione di innocenza esige che si tenga conto, in ogni procedimento successivo, di qualsiasi natura, del fatto che l’interessato non sia stato condannato”[27] e, in tale prospettiva, le espressioni utilizzate dall’autorità giudicante sono di fondamentale importanza, al fine di verificare se il Giudice abbia utilizzato locuzioni sottese ad una attribuzione, anche incidentale, di responsabilità penale[28].
Volgere lo sguardo alla sostanza dell’accusa, più che alla sua dimensione formale, serve a “prevenire e frustrare radicalmente ogni tentazione di elusione degli obblighi convenzionali da parte dei legislatori nazionali attraverso una c.d. “truffa delle etichette”[29].
L’attuale assetto interpretativo interno, come si è detto, qualifica i presupposti di pericolosità generica come la contestazione circa la precedente commissione di reati[30].
Né è necessario che tale addebito sia veicolato all’interno di un procedimento giurisdizionale penale, avendo la Corte EDU, in numerosissime occasioni, affermato la natura penale di una accusa di reato, pur se formulata all’interno di un procedimento civile, amministrativo, disciplinare, doganale, finanziario.
Lo snodo fondamentale, per verificare l’applicabilità del profilo penale dell’articolo 6§2 della Convenzione, è ancora costituito dai noti “criteri Engel”[31].
Recessivo quello della definizione nel diritto interno, è invece prevalente l’accertamento se la norma interessata sia rivolta esclusivamente a un gruppo specifico o si imponga per definizione a tutti[32]; se il procedimento sia avviato da un’autorità pubblica in virtù di poteri legali di esecuzione[33]; se la norma giuridica abbia una funzione repressiva o dissuasiva[34]; se la norma di diritto sia volta a proteggere gli interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale[35]; se l’applicazione di una qualsiasi sanzione dipenda dalla constatazione di colpevolezza[36].
Contro questa operazione “riqualificatoria”, definito in dottrina come “garantismo panpenalistico”[37], non possono valere argomenti legati all’efficienza della funzione amministrativa della sanzione, o alla sua essenzialità per interessi supremi dello Stato, quali la sterilizzazione del profitto del reato.
La funzione punitiva pubblica, infatti, attiene sempre al campo di espressione della sovranità statuale, sicchè, anche ove esercitata in forma amministrativa, deve essere presidiate dalle garanzie del giusto processo[38].
Pertanto, la sentenza in commento, che esclude la natura penale dell’accusa (e, così, l’applicabilità della presunzione di innocenza) sul solo presupposto della dimensione amministrativa della confisca di prevenzione, non appare essere convincente, dal momento che “la dichiarazione giudiziaria esplicita, senza condanna definitiva, che l’interessato ha commesso un reato lede sempre la presunzione di innocenza”[39].
La Corte, nel proprio incedere argomentativo, giunge, per una imponderata eterogenesi dei fini, a negare la “dimensione” penale del sostrato di fatto dell’accertamento di pericolosità generica, che si pone alla base delle garanzie di tassatività e determinatezza delle fattispecie; prevedibilità e proporzionalità della sanzione; quomodo dell’accertamento, per come conquistate dopo una lunga evoluzione giurisprudenziale.
Con il rischio che si apra una nuova fase di de-tassativizzazione della prevenzione non qualificata.
* Osservatorio Misure Patrimoniali e di Prevenzione UCPI
[1] Corte Costituzionale, sentenza 23/64.
[2] Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia.
[3] Corte Costituzionale, sentenza n. 364 del 1988.
[4] F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 2016. Si veda, sul punto, Corte Costituzionale, sentenza n. 185 del 1992.
[5] SS.UU., sentenza n. 40076/17.
[6] S. Finocchiaro, “Due pronunce della Corte Costituzionale in tema di principio di legalità delle misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Cort EDU”, DPC, 4 marzo 2019.
[7]Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 53003/2017.
[8] Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 43826/2018.
[9] Corte Costituzionale, sentenza n. 24/2019, con riferimento, per tale passo, a Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 11846/2018.
[10] G. La Corte, La disciplina delle misure di prevenzione, tra passato e presente, al vaglio (nuovamente) della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 6.
[11] Così, D. Piva, “Misure di prevenzione – Corte cost., n. 24 del 2019”, in Archivio Penale, 2019.
[12] V. Maiello, La legalità della Legge e il diritto dei Giudici: scossoni, assestamenti, sviluppi, in Sistema Penale, 3/20.
[13] A.M. Maugeri – P. Pinto de Albuquerque, “La confisca di prevenzione nella tutela costituzionale multilivello: tra istanze di tassatività e ragionevolezza, se ne afferma la natura ripristinatoria”, in Sistema Penale, 2019.
[14] Corte EDU nei procedimenti Allen/Regno Unito, Geerings/Paesi Bassi, Pasquini/San Marino.
[15] Sent. Cass. Pen. – Sez. VI – n. 45280 del 30.10.2024; n. 45849 del 30.10.2024.
[16] Allenet de Ribemont c. Francia, 10 febbraio 1995, § 35-36, serie A n. 308; Viorel Burzo c. Romania, nn. 75109/01 e 12639/02, § 156, 30 giugno 2009; Moullet c. Francia (dee.), n. 27521/04, 13 settembre 2007) (Corte Edu, 14 gennaio 2014, Stefanelli c/ Italia.
[17] Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna, 6 dicembre 1988, § 77, Serie A n. 146, e Telfner c. Austria, n.33501/96, § 15, 20 marzo 2001.
[18] Salabiaku c. Francia, 7 ottobre 1988, § 28, Serie A n. 141-A, e Radio France e altri c. Francia, n. 53984/00, § 24, CEDU 2004-II.
[19] Saunders c. Regno Unito, 17 dicembre 1996, § 68, Reports of Judgments and Decisions 1996-VI, e Heaney e McGuinness c. Irlanda, n. 34720/97, § 40, CEDU :2000-XII.
[20] Sent. Cass. Pen., Sez. VI, n. 45280 del 30.10.2024 (dep. 10.12.2024).
[21] Sent. Cass. Pen. – Sez. VI – n. 45849 del 30.10.2024 (dep. 13.12.2024).
[22] Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 12699 dell’08.11.2023 (dep. 27.03.2024).
[23] G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924.
[24] Deweer c. Belgio, 27 febbraio 1980, §44.
[25] Simeonovi c. Bulgaria, 12 maggio 2017, §110.
[26] Nerattini c. Grecia, 18 dicembre 2008, §23.
[27] Rigolio c. Italia, 9 marzo 2023.
[28] Nota redazionale in Archiviopenale.it, 10 marzo 2023.
[29] F. Goisis, “La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative”, Torino 2017.
[30] Maugeri – Pinto de Albuquerque, ibidem.
[31] Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, §§82-83.
[32] Bendenoun c. Francia, 24 febbraio 1994, §47.
[33] Benham c. Regno Unito, 10 giugno 1996, §56.
[34] Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, §53.
[35] Produkcija Plus c. Slovenia, 23 ottobre 2018, §42.
[36] Benham c. Regno Unito, 10 giugno 1996, §56.
[37] D. Bianchi, Il problema della “successione impropria”: un’occasione di (rinnovata?) riflessione sul sistema punitivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014.
[38] C. Focarelli, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Contributo alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione, Padova, 2001.
[39] Ismoilov e altri c. Russia, 24 aprile 2008, §166.