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LA CORTE DI CASSAZIONE RITORNA SUL DIFFERIMENTO DELLA PENA E LA DETENZIONE DOMICILIARE NEI CONFRONTI DEL DETENUTO AFFETTO DA PATOLOGIA PSICHICA – DI FRANCESCO MARTIN

LA CORTE DI CASSAZIONE RITORNA SUL DIFFERIMENTO DELLA PENA E LA DETENZIONE DOMICILIARE NEI CONFRONTI DEL DETENUTO AFFETTO DA PATOLOGIA PSICHICA – DI FRANCESCO MARTIN

MARTIN – DIFFERIMENTO DELLA PENA E DETENZIONE DOMICILIARE PER PATOLOGIA PSICHICA.PDF

LA CORTE DI CASSAZIONE RITORNA SUL DIFFERIMENTO DELLA PENA E LA DETENZIONE DOMICILIARE NEI CONFRONTI DEL DETENUTO AFFETTO DA PATOLOGIA PSICHICA

THE COURT OF CASSATION RETURNS TO THE POSTPONEMENT OF THE SENTENCE AND THE HOME DETENTION OF THE PRISONER SUFFERING FROM PSYCHOLOGICAL PATHOLOGY

di Francesco Martin*

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Sulla detenzione domiciliare. – 2.1. La detenzione domiciliare speciale. – 3. Malattia psichica e detenzione domiciliare: l’orientamento di legittimità. –  3.1. Non solo la malattia psichica, ma anche fisica. – 4. Nuovi punti prospettici: la depressione. – 5. Brevi note conclusive.

Il differimento della pena e la concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter L. 26 luglio 1975, n. 354 ha, specialmente di recente complici anche i gravi fatti di cronaca inerenti i suicidi all’interno degli Istituti Penitenziari, interessato la giurisprudenza di legittimità. In particolare, la Corte di cassazione ha rimarcato la necessità di effettuare un bilanciamento tra le esigenze di tutela della collettività ed il diritto alla salute del detenuto, avendo riguardo alla normativa costituzionale ed europea.

The deferral of the sentence and the granting of home detention pursuant to art. 47-ter L. July 26, 1975, n. 354 has, especially recently also complicit in the serious news related to suicides within the penitentiary institutes, concerned the jurisprudence of legitimacy. In particular, the Court of Cassation stressed the need to balance the needs for the protection of the community and the prisoner’s right to health, having regard to constitutional and European legislation.

Ordinamento penitenziario – carcere – misure alternative alla detenzione – patologia psichica – depressione

(art. 27 Cost., art. 147 c.p., art. 47-ter L. 26 luglio 1975, n. 354)

  1. Premessa

Il tema inerente alla situazione carceraria italiana, intensa non solo come sovraffollamento, ma più in generale come qualità della vita dei detenuti è ritornata all’attenzione del mondo politico e sociale complici, purtroppo, i gravi fatti inerenti all’elevato numero di suicidi avvenuti all’interno degli istituti penitenziari[1].

In tal senso quindi l’opera di rieducazione, disciplinata dall’art. 27 Cost., risulta di fondamentale importanza così come la possibilità di accedere, entro termini brevi, alle c.d. misure alternative alla detenzione.

Proprio su questo punto, negli ultimi mesi, la Corte di cassazione è intervenuta con alcune pronunce in ordine alla concessione della detenzione domiciliare al condannato non solo nei casi di patologia fisica, ma anche di grave infermità psichica.

2. Sulla detenzione domiciliare.

Pare opportuno, al fine di inquadrare meglio la questione affrontata dalla sentenza in commento, evidenziare le principali caratteristiche di tale misura.

La detenzione domiciliare ordinaria è disciplinata dall’art. 47-ter O.P., introdotto con la L. 10 ottobre 1986, n. 663, e permette al condannato di espiare la pena detentiva, o residuo della stessa, non più nell’istituto penitenziario, bensì presso la propria abitazione, in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.

L’art. 47-ter O.P. individua tassativamente i soggetti a che possono richiedere, al Tribunale di sorveglianza competente per territorio, l’accesso a tale beneficio, cioè coloro che abbiano compiuto i 70 anni di età, purché non siano stati condannati per reati previsti dagli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., i delinquenti abituali, professionali o recidivi ai sensi dell’art. 99 c.p.-

Su quest’ultimo punto è opportuno evidenziare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 56 del 9 marzo 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, O.P., limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale».

La Consulta, rimuovendo la preclusione assoluta alla concessione della misura domiciliare in favore dei condannati recidivi ultrasettantenni, ha in tal modo sottoposto alla valutazione del giudice di sorveglianza la possibilità di applicare in beneficio domiciliare nei confronti di quei soggetti di età avanzata, nei cui confronti ragioni umanitarie fanno ritenere sussistente una presunzione di incompatibilità con la restrizione carceraria[2].

Inoltre la detenzione domiciliare può essere concessa ai condannati alla pena della reclusione non superiore a quattro anni  qualora si tratti di donne incinta o madri di prole di età non superiore a 10 anni con esse conviventi, persone che versano in uno stato di salute particolarmente grave da necessitare di costanti contatti con i presidi sanitari del territorio, soggetti che abbiano compiuto i 60 anni di età e affetti da patologie gravi o parzialmente invalidanti, ovvero che non abbiano compiuto i ventun anni di età, per motivi di lavoro, famiglia, salute e studio.

Il comma 1-bis, dell’art. 47-ter O.P., prevede l’applicazione della misura alternativa anche nei confronti dei condannati alla pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.

Il successivo comma 1-ter, che qui riveste particolare interesse, prevede che in caso di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 c.p., il Tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare.

Tale misura, infine, non si applica per i soggetti condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis O.P.-

La natura giuridica della detenzione domiciliare ha suscitato notevole dibattito, soprattutto in dottrina.

Ad attenta analisi, infatti, si evince che il legislatore ha introdotto la misura in esame con finalità umanitarie e assistenziali e ne ha in seguito ampliato l’ambito di operatività per perseguire esigenze di politica deflattiva, senza però mai preoccuparsi di prevedere prescrizioni a contenuto rieducativo o risocializzante[3].

La dottrina maggioritaria[4] ha per lungo tempo classificato solo l’affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale come misure alternative in senso proprio, mentre ha ritenuto la detenzione domiciliare ed il regime di semilibertà strumenti di diversificazione alternativa all’esecuzione delle sanzioni penali.

Tuttavia, nell’applicazione pratica, la detenzione domiciliare ha sempre più di contenuti di natura risocializzante mediante l’imposizione di prescrizioni, non solo a carattere negativo, ma anche positivo, finalizzate alla rieducazione del condannato.

Il Tribunale di sorveglianza, infatti, può stabilire anche disposizioni di natura risocializzante, non limitandosi ad una regolamentazione in negativo, elencando solamente i divieti; costituisce inoltre una misura intermedia, applicata in ragione dei progressi conseguiti nel corso del trattamento, prima dell’applicazione della misura più ampia dell’affidamento in prova.

La concedibilità della liberazione anticipata anche al detenuto domiciliare, inoltre, conferma ulteriormente la natura di misura alternativa, in quanto beneficio che ha come presupposto proprio la partecipazione all’opera di rieducazione.

L’indirizzo interpretativo seguito infatti dalla giurisprudenza, sia della Corte costituzionale[5] sia della Corte di cassazione[6], è costante nel riconoscere alla detenzione domiciliare una componente rieducativa, proprio in virtù del carattere impresso alla pena dall’art. 27 Cost.

Orbene è allora possibile affermare che la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter O.P. si ponga come strumento volto a garantire, anche a quei soggetti a cui non potrebbe essere concessa la più ampia misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali, la possibilità di reinserirsi all’interno del tessuto sociale, effettuando altresì un percorso volto a comprendere il disvalore delle condotte poste in essere per le quali hanno riportato la condanna.

2.1 La detenzione domiciliare speciale.

L’ordinamento penitenziario disciplina anche una particolare ipotesi de detenzione domiciliare, prevista dall’art. 47-quinquies O.P.-

L’art. 3, comma 1, L. 8 marzo 2001, n. 40 ha introdotto, tra le altre disposizioni, l’art. 47-quinquies che è stato poi successivamente innovato dalla L. 21 aprile 2011, n. 62.

La detenzione domiciliare speciale si applica nell’ipotesi in cui non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47-ter O.P., cioè quando non sia possibile disporre la detenzione domiciliare ordinaria, prevista per le madri di prole di età inferiore ai dieci anni, purché la pena detentiva da eseguire non superi la durata di quattro anni.

La norma in esame prevede dunque un’ipotesi di detenzione domiciliare speciale ed in particolare che, qualora la condannata sia una madre di prole non superiore ad anni dieci – in assenza di pericolo di commissione di ulteriori reati e dopo aver espiato un terzo della pena, ovvero almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo – la pena possa essere espiata attraverso tale misura alternativa alla detenzione[7].

La ratio della norma è quella di consentire alle madri la cura e l’assistenza ai figli, evitando che l’esecuzione della pena possa influire in maniera nocumentale e negativa sul rapporto madre-figlio, ovvero condizionare lo sviluppo psicologico e sociale del minore.

Si ravviserebbe, in tale scelta, la volontà del legislatore di ampliare ed estendere la detenzione domiciliare c.d. umanitaria ex art. 47-ter, comma 1, lett. a), O.P. al fine di tutelare l’interesse dei fanciulli che non devono essere penalizzati dalla differenza di situazioni delle rispettive madri sotto il profilo della gravità dei reati commessi e del quantum di pena già espiata[8].

Tale misura alternativa alla detenzione è connotata tuttavia da alcuni meccanismi di ammissione molto più ristretti e rigorosi rispetto alla detenzione domiciliare comune.

Oltre al mero limite di pena già scontato, che comunque rappresenta già un primo ostacolo, è necessaria una valutazione in concreto al fine di comprendere se sussista o meno sia la possibilità che il soggetto possa commettere ulteriori delitti e che lo stesso possa ripristinare la convivenza

con i figli[9].

Valutazione che quindi si deve basare, oltre che sul curriculum criminale del detenuto, anche sull’esame della sua personalità e del contesto socio familiare dove l’interessato sconterà la pena inflitta.

La misura è dunque finalizzata, in presenza di determinati presupposti e circostanze, sia al reinserimento sociale del condannato (finalità propria di tutte le misure alternative alla detenzione) sia a garantire ai figli l’assistenza necessaria.

Il Tribunale di sorveglianza deve quindi effettuare un giudizio di bilanciamento delle esigenze sottese alla decisione, valutando quale sia la possibilità del reinserimento sociale dell’istante, nonché l’entità effettiva dell’esigenza delle cure parentali[10].

Inoltre l’art. 47-quinquies, comma 8, O.P. prevede che sia prorogabile il beneficio della detenzione domiciliare speciale in presenza dei presupposti previsti dall’art. 50 O.P. quando il figlio compia il decimo anno di età.

Qualora la madre sia deceduta ovvero per condizioni fisiche o psichiche non possa in alcun modo prendersi cura dei figli, la misura dell’art. 47-quinquies, O.P. può essere applicata al padre detenuto.

È poi opportuno specificare che le preclusioni stabilite dall’art. 4-bis, L. 354/75 operano anche con riferimento alla detenzione domiciliare speciale e che, in assenza di collaborazione con la giustizia, ostano alla concessione del beneficio premiale; difatti, anche prima dell’entrata in vigore della L. 62/11 che ha provveduto ad esplicitarlo, sia la dottrina che la giurisprudenza concordavano nel ritenere non applicabile la detenzione domiciliare speciale ai condannati per uno dei reati c.d. ostativi[11].

Permane tuttavia un dubbio, non chiarito dalla norma, in merito alla procedura da applicarsi per quanto concerne l’esecuzione della quota di pena necessaria affinché la condannata, per un reato non rientrante nell’art. 4-bis O.P., possa beneficiare della detenzione domiciliare speciale.

Come noto sul punto è intervenuta la Corte costituzionale[12] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1, O.P., limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis»[13].

Con riferimento al regime prescrittivo, il Tribunale di sorveglianza deve provvedere a individuare, a mente dei criteri di cui all’art. 284, comma 2, c.p.p., le modalità di attuazione della detenzione domiciliare.

Tale consistente dilatazione del potere discrezionale del Tribunale è implicitamente sottesa alla ratio della norma; se infatti questa è da individuarsi nella tutela e nello sviluppo dei figli appare chiaro come debba essere possibile ampliare il ventaglio delle prescrizioni.

La giurisprudenza di legittimità[14] ha poi avuto modo di chiarire che la detenzione domiciliare soggiace alle preclusioni sancite dall’art. 58-quater O.P. con la conseguenza che, a titolo di esempio, non potrà essere applicata nei confronti dei soggetti a cui è stato revocato l’affidamento in prova al servizio sociale.

Sempre la Corte di cassazione[15] ha, di recente, fatto applicazione dei principi dettati dalla Corte costituzionale stabilendo che l’interesse superiore del minore debba essere valutato come preminente anche rispetto alle esigenze di sicurezza della collettività e ponendo quindi un limite alla valutazione del Tribunale di sorveglianza sul pericolo di commissione di ulteriori reati da parte della madre detenuta, che costituiva oramai l’unico serio ostacolo alla concessione della misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies O.P.[16]

In merito alla revoca della misura, questa potrà essere disposta qualora ricorrano le medesime ipotesi previste in tema di revoca della detenzione domiciliare ordinaria, e cioè quando il comportamento mantenuto dalla condannata venga giudicato incompatibile con la misura.

Sussiste invece un’automatica revoca, data dal mero dato temporale, nel caso in cui – al compimento del decimo anno del figlio – il Tribunale di sorveglianza non disponga la proroga del beneficio.

Altri due casi di revoca automatica concernono nel caso in cui vi sia l’assenza dal domicilio per più di dodici ore, ovvero nell’ipotesi in cui vi sia la decadenza dalla potestà genitoriale ex art. 330 c.c.-

La detenzione domiciliare inoltre può essere concessa anche al condannato dichiarato recidivo ex art. 99, comma 4, c.p. (che invece è preclusa dall’art. 47-ter O.P.), atteso che l’art. 47-quinquies O.P. non richiama le disposizioni di cui al citato art. 47-ter O.P.[17]

La Corte costituzionale[18] ha avuto modo di intervenire, anche in tempi recenti, proprio con riferimento alla detenzione domiciliare speciale, fornendo, mediante una lettura costituzionalmente orientata della norma, una più ampia possibilità di accesso a tale misura.

3. Malattia psichica e detenzione domiciliare: l’orientamento di legittimità.

Come evidenziato sub.1., la giurisprudenza della Corte di cassazione si di recente interessata alla questione della concessione della detenzione domiciliare ordinaria al soggetto affetto da malattia psichica.

In una prima pronuncia[19], la Suprema Corte aveva rilevato che il differimento facoltativo della pena è applicabile quando sussista o uno stato patologico del detenuto che consenta di configurare una prognosi di fine vita ravvicinata, o quando vi sia una affezione che determini la probabilità di rilevanti conseguenze dannose per il soggetto, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti non praticabili in regime intramurario, ovvero qualora ricorrano condizioni di salute talmente gravi da porre la espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità o comunque da non consentire al condannato di partecipare consapevolmente al processo rieducativo, tenuto conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale.

La sussistenza di uno dei requisiti menzionati, nel caso oggetto della pronuncia, non giustificava tuttavia l’applicazione della detenzione domiciliare.

La Corte riteneva infatti necessario: “Verificare la compatibilità in astratto, tenendo conto dell’inquadramento nosografico della patologia che affligge il detenuto e della sua obiettiva gravità. In seconda battuta, occorre accertare se la patologia possa essere adeguatamente gestita in rapporto alle concrete caratteristiche dell’istituto in cui egli è ristretto e alle, eventuali, ulteriori strutture carcerarie dove poterlo trasferire. Indi, è necessario verificare se, in ogni caso, sia possibile assicurare i suddetti interventi diagnostico e terapeutici attraverso il ricorso allo strumento del ricovero in luogo esterno di cura. E ove si ritenga, all’esito di tale composita valutazione, che non ricorra alcuna delle condizioni predette, è comunque necessario verificare l’incidenza della condizione detentiva sulla dignità della persona, al fine di accertare l’eventuale disumanità della pena”.

Non deve inoltre sussistere il rischio che il soggetto compia ulteriori reati una volta lasciata la struttura penitenziaria.

A questo si aggiunga che le condizioni inerenti la patologia psichica del detenuto devono essere ammantate da una gravità tale per cui, alla luce dell’orientamento espresso dalla Corte costituzionale[20], può essere applicato al condannato la detenzione domiciliare, anche in deroga ai limiti di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P.-

In una successiva sentenza, la Corte di cassazione[21] ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sulla questione, richiamando una diversa decisione della Corte costituzionale[22].

La Consulta infatti ha evidenziato che: “In questo contesto, alla misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga” deve essere attribuito il ruolo di colmare le carenze presenti nell’ordinamento penitenziario. Essa, pertanto, anche nel caso di “infermità psichica grave” deve operare come “uno strumento intermedio e più duttile tra il mantenimento della detenzione in carcere e la piena liberazione del condannato (conseguente al rinvio): permettendo così di tener conto della eventuale pericolosità sociale residua di quest’ultimo e della connessa necessità di contemperamento delle istanze di tutela del condannato medesimo con quelle di salvaguardia della sicurezza pubblica”.

Orbene, a seguito degli interventi della Corte costituzionale si evince che è possibile concedere la detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di infermità psichica di gravità e consistenza tale da determinare, in caso di protrazione della detenzione inframuraria, quel supplemento di pena contrario al senso di umanità.

La detenzione umanitaria può quindi essere modellata dal giudice in modo da salvaguardare il fondamentale diritto alla salute della persona sottoposta ad esecuzione penale e le esigenze di difesa della collettività[23].

Ad aggiungersi che il soggetto portatore della patologia psichica potrà scontare la pena non necessariamente presso il proprio domicilio, ma in un luogo più adeguato a contemperare le diverse esigenze coinvolte, con valutazione caso per caso ed apprezzamento concreto, tanto della gravità della patologia che del livello di pericolosità sociale della persona di cui si discute.

In tale caso, tuttavia, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso proposto in quanto il Tribunale di sorveglianza, aveva posto a fondamento della decisione, oltre all’adeguatezza delle cure e dell’assistenza garantiti al detenuto durante la carcerazione, la sua attuale pericolosità sociale, desumendola plausibilmente dalle modalità dei reati commessi e dal tipo di patologia psichiatrica che lo affligge.

In tal senso il rigetto dell’istanza è legittimo in quanto, ai sensi dell’art. 147, comma 4, c.p. il provvedimento di cui al comma 1 non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti.

3.1. Non solo la malattia psichica, ma anche fisica.

 Oltre alla patologia di natura psichica la giurisprudenza della Corte di cassazione ha esaminato anche il caso di quella fisica.

In tal senso l’ultima pronuncia[24] concerneva il differimento dell’esecuzione della pena, nella forma della detenzione domiciliare, per motivi di salute.

A seguito del rigetto da parte del Tribunale di Sorveglianza la Corte rilevava che, in caso di una richiesta di differimento dell’esecuzione della pena — o di sua esecuzione nelle forme della detenzione domiciliare — per grave infermità fisica, il Tribunale è tenuto a valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato.

Proprio su questo punto la giurisprudenza di legittimità[25] ha più volte stabilito che: «In tema di differimento facoltativo della pena detentiva, ai sensi dell’art. 147 cod. pen., comma primo, n. 2), è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo

la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività».

Tale decisione deve quindi fondarsi sull’equilibrato contemperamento di interessi tra le esigenze di certezza ed indefettibilità della pena e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, che non consente il mantenimento della restrizione carceraria che finisca con il rappresentare una sofferenza aggiuntiva intollerabile da vivere in condizioni umane degradanti, dovendosi tenere conto tanto dell’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili quanto della concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nella situazione.

Nel caso de quo  il Tribunale di sorveglianza avrebbe dovuto verificare, stante il rischio per il detenuto, che aveva subito in passato un delicato intervento chirurgico con installazione di una placca di metallo a seguito di un trauma cranico, di subire una nuova dislocazione del mezzo di sintesi, suscettibile di arrecare pregiudizi anche letali — se ed in quale misura gli accorgimenti di fatto apprestati dall’amministrazione fossero effettivamente funzionali all’eliminazione o quantomeno, alla significativa riduzione del pericolo.

Si deve, in definita, effettuare un bilanciamento ed una valutazione che, anche nel caso dell’infermità fisica, tenga conto delle esigenze di tutela della collettività e della possibilità per il detenuto di accedere a delle strutture sanitarie ove poter ricevere le migliori cure.

4. Nuovi punti prospettici: la depressione.

Con una recente pronuncia la Corte di cassazione[26] è ritornata sul differimento della pena e la concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1, O.P. in caso di detenuto affetto da patologia psichica.

La sentenza origina dal ricorso per cassazione presentato dal difensore del detenuto contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che aveva rigettato la richiesta di differimento dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art.147, n. 2, c.p. e 47-ter, comma 1, O.P., poiché aveva ritenuto che le condizioni di salute del condannato potessero avere adeguata tutela, mediante i presidi della struttura penitenziaria.

Il gravame si basava sulla violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p. rispettivamente in relazione agli artt. 147, n. 2, c.p., 47-ter, comma 1, O.P., 32 e 27, comma 3, Cost. e al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità in relazione alla salvaguardia del diritto di salute del condannato, nonché agli artt. 2 e 3 CEDU, che garantiscono il diritto alla salute quale corollario del diritto alla vita e stabiliscono il divieto di trattamenti inumani e degradanti, nonché per difetto di motivazione in relazione alle due consulenze di parte depositate in atti.

La Suprema corte ritiene che il Tribunale di sorveglianza non abbiamo fatto un buon governo dei principi più volte rimarcati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla patalogia psichica.

Se da un lato si è affermato che, con riferimento alla depressione e al conseguente rischio di atti autolesionistici e suicidari, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o la applicazione della detenzione domiciliare, non è limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita, dovendosi avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di una soglia di dignità da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria, dall’altro con la pronuncia in esame la Corte ritiene che: «(…) in tema di differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai fini della valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato, ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, il giudice deve verificare, non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale».

Ed in effetti il Tribunale di prime cure non si è adeguatamente confrontato con le relazioni sanitarie effettuate dalla struttura penitenzia e nemmeno con le due consulenze depositate dalla difesa del detenuto che evidenziavano una forma di depressione con disturbo di personalità, già in trattamento farmacologico e psicoterapeutico.

La Corte di cassazione ha quindi disposto l’annullamento dell’ordinanza e rinviato al Tribunale di sorveglianza per un nuovo giudizio.

5. Brevi note conclusive.

La sentenza in esame ha fatto buon governo dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.

Sul punto infatti il Tribunale chiamato a decidere sul differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, sull’applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo con riguardo sia all’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico.

Quello che dunque deve essere effettuato è un giudizio di bilanciamento tra la patologia che affligge il condannato, sia essa fisica o psichica, e la disponibilità e possibilità per la struttura penitenziaria di curare tali soggetti e le esigenze di tutela e di sicurezza della collettività, con riferimento ai reati commessi dal condannato.

Inoltre, la valutazione riguarderà anche gli accorgimenti di fatto apprestati dall’amministrazione penitenziaria e la loro idoneità ad eliminare o, quantomeno, a ridurre concretamente il pericolo per la salute del detenuto.

Nel caso in esame, in particolare, la depressione di cui è affetto il detenuto è stata ritenuta talmente elevata da comportare un pericolo per la propria incolumità; il Tribunale di sorveglianza dovrà quindi confrontarsi con gli aspetti evidenziati dalla Corte di cassazione nonché sulle relazioni medico-sanitarie che evidenziano il quadro clinico complessivo del detenuto.

* Avvocato del Foro di Venezia, Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso L’Università degli Studi di Udine

[1] Si veda il report inerente ai suicidi in carcere http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/

[2] F. FIORENTIN, Illegittima la preclusione in tema di detenzione domiciliare per condannati recidivi ultrasettantenni, in Il Penalista, 06.04.2021.

[3] M. GASPARI, M. LEONARDI, La detenzione domiciliare, Torino, 2017

[4] M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2010; C. FLORIO, F. FIORENTIN, Manuale dell’ordinamento penitenziario, Milano, 2020; G.M. PAVARIN, Misure alternative alla detenzione, a cura di F. FIORENTIN, Torino, 2012.

[5] Cort. cost., 31 marzo 2021, n. 56.

[6] Cass. pen., Sez. I, 4 marzo 2021, n. 24099.

[7] M.G. PAVARIN, Le ipotesi di detenzione domiciliare, in F. FIORENTIN (a cura di), Misure alternative alla detenzione, Torino, 2012.

[8] L. DEGLI INNOCENTI, F. FALDI, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Milano, 2010.

[9] F. FIORENTIN, C. FIORIO, La riforma dell’Ordinamento penitenziario, Milano, 2019

[10] F. MARTIN, Detenzione domiciliare speciale alla condannata madre: una incisiva apertura della Corte costituzionale, in Giur. Pen., 2020, n. 3.

[11] F. FIORENTIN, C. FIORIO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2020

[12] Cort. cost., 12 aprile 2017, n. 76.

[13] Secondo la Consulta nella disposizione in esame il legislatore ha escluso in assoluto dall’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall’aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione (l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975) che contiene, oltretutto, un elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità (sentenza n. 32 del 2016). Ne deriva quindi che vengono del tutto pretermessi l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si è già detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione. Questa sorta di esemplarità della sanzione – la madre deve inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena – non può essere giustificata da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.

[14] Cass. pen., Sez. I, 1° luglio 2002, n. 28712.

[15] Cass. pen., Sez. I, 4 giugno 2020, n. 16945.

[16] N. CARDINALE, Detenzione domiciliare speciale e interesse superiore del minore, in Sist. Pen., 17.06.2020

[17] M.G. PAVARIN, Op.cit.-

[18] Cort. cost., 18 febbraio 2020, n. 18 in cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 47 quinquies, I comma, L 354/75, nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri di figli affetti da handicap grave, ai sensi dell’art. 3, III comma, L. 104/92; Cort. Cost., 03.02.2022, n. 30, con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. dell’art. 47-quinquies, commi 1, 3 e 7, L. 354/75, nella parte in cui non prevede che, ove vi sia un grave pregiudizio per il minore derivante dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di detenzione domiciliare può essere proposta al Magistrato di sorveglianza, che può disporre l’applicazione provvisoria della misura, nel qual caso si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 47, c. 4, L. 354/75.

[19]  Cass. pen., Sez. I, 22 febbraio 2022, n. 6300.

[20] Cort. cost., 19 aprile 2019, n. 99. Con tale pronuncia la Consulta ripercorre l’evoluzione normativa, lasciata di fatto incompleta, con la legge delega 23 giugno 2017, n. 223 che ha creato un vulnus in particolare ai soggetti detenuti affetti da infermità psichica sopravvenuta, i quali non avevano accesso né alle REMS, né ad altre misure alternative al carcere, qualora residuasse una pena superiore a quattro anni.  Tali soggetti inoltre potevano avere accesso alla detenzione domiciliare ordinaria di cui all’art. 47-ter, comma 1, lett. C), O.P., prevista per tutti i detenuti con una pena residua inferiore a quattro anni, affetti da una patologia fisica o psichica. Non trovava nemmeno applicazione l’istituto obbligatorio della esecuzione della pena di cui all’art. 146, comma 1, n. 3, c.p., così come non poteva disporsi il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena di cui all’art. 147, comma 1, n. 2, c.p., o l’ipotesi di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P.- La Corte costituzionale ha quindi ritenuto che l’impossibilità di accedere a misure alternative da parte di tale categoria di soggetti rappresenti una compressione ingiustificata dei diritti fondamentali che si poneva in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, comma 3, 32 e 117, comma 1, Cost.- Sul punto si veda V. MANCA, La Consulta estende la detenzione domiciliare “in deroga” (al legislatore) per la grave infermità psichica sopraggiunta durante la detenzione, in Il Penalista, 13.06.2019.

[21] Cass. pen., Sez. I, 12 luglio 2022, n. 26851.

[22] Corte cost., 1° luglio 2005, ord. n. 255.

[23] F. MARTIN., Detenzione domiciliare per infermità fisica: la corte di cassazione detta i presupposti applicativi, in Riv. pen., n. 9, 2022.

[24] Cass. pen., Sez. I, 11 agosto 2022, n. 31019.

[25] Ex multis Cass. pen., Sez. 1, 13 novembre 2020, n.2337

[26] Cass. pen., Sez. I, 20 ottobre 2022, n. 39817.