LA CORTE EDU RITIENE CONVENZIONALMENTE LEGITTIMA L’INCANDIDABILITÀ PREVISTA DAL CD. DECRETO SEVERINO E LA SUA APPLICAZIONE RETROATTIVA – DI GRAZIA CALLIPARI
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LA CORTE EDU RITIENE CONVENZIONALMENTE LEGITTIMA L’INCANDIDABILITÀ PREVISTA DAL CD. DECRETO SEVERINO E LA SUA APPLICAZIONE RETROATTIVA.
di Grazia Callipari*
Corte Edu, Sez. I, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia.
(art. 1 D. Lgs., 31 dicembre 2012, n. 235, artt. 7, 13, 14 C.E.D.U., art. 3 protocollo n. 1 C.E.D.U.)
Incandidabilità – applicazione retroattiva – materia penale – legge Severino.
Sommario: 1. Quadro normativo e note introduttive. – 2. La vicenda del ricorrente. – 3. Sulla presunta violazione dell’articolo 7 della CEDU. – 4. Sulla presunta violazione dell’articolo 3 del protocollo n. 1 CEDU. – 5. Sulla presunta violazione dell’articolo 3 del protocollo n. 1 e l’articolo 14 CEDU. – 6. Sulla presunta violazione dell’articolo 13 CEDU.
Con la decisione del 17 giugno 2021, la prima sezione della Corte europea dei diritti umani si è pronunciata sulla compatibilità delle norme del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (c.d. decreto Severino) riguardante l’incandidabilità (o la decadenza dal mandato in caso di incandidabilità sopravvenuta) alla carica parlamentare dei condannati in via definitiva per determinati reati. Al vaglio della Corte di Strasburgo è stata sottoposta un’annosa questione, ovvero se sia da riconoscersi la natura sostanzialmente penale alle disposizioni sopra citate e se di conseguenza sia da ritenersi violato il principio di irretroattività in materia penale – tutelato dall’articolo 7 CEDU – nell’ipotesi di una loro applicazione a fatti antecedenti all’entrata in vigore del decreto. Il ricorso è stato dichiarato irricevibile rispetto a tutte le prospettate violazioni degli articoli 7, 13 e 14 della Convenzione e 3 del protocollo n. 1.
On the 17th of June 2021, the first Chamber of the European Court of Human Rights delivered its judgment on the compatibility between “Decreto legislativo 21 dicembre 2012, n. 235” and the Convention (ECHR). The decree – also referred to as “Decreto Severino” – concerns the ineligibility to the parliamentary office of people convicted with a final sentence in relation to some specific crimes. The intricate issue referred to the Court was whether these norms may enjoy a substantial criminal nature. Consequently, the principle of non-retroactivity – protected by article 7 of the Convention – would be breached in the event of an application of this law to facts which happened prior to the entry into force. However, the action was declared inadmissible regarding all the supposed violations of articles 7, 13 and 14 ECHR, as well as article 3 of Protocol n. 1.
- Quadro normativo e note introduttive[1]
Il 28 novembre 2012 è entrata in vigore la legge del 6 novembre 2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione».
La legge, oltre ad avere un contenuto dispositivo immediato[2], conferiva sette deleghe al governo italiano, di cui solo quattro sono state attuate.
Il comma 63, dell’articolo 1, della suddetta legge, delegava il governo ad adottare, entro un anno dall’entrata in vigore della stessa, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alle elezioni che consentono l’accesso alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato, di senatore della Repubblica e di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali[3].
Il 6 dicembre 2012, il “governo Monti” ha adottato il decreto legislativo n. 235 del 2012, entrato in vigore il 5 gennaio 2013, giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale.
Ai sensi dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 235 del 2012 non possono essere candidati o ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni[4].
Secondo l’articolo 3 del medesimo decreto qualora la causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque venga accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione[5].
L’incandidabilità alla carica di deputato, senatore e membro del Parlamento europeo derivante da sentenza definitiva di condanna per i delitti indicati, secondo l’articolo 13, decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza stessa ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici comminata dal giudice. In ogni caso l’incandidabilità, anche in assenza della pena accessoria, non è inferiore a sei anni[6].
Fin da subito, si è sviluppata in dottrina una vera e propria disputa relativa alla natura, penale o meno, e all’applicazione retroattiva delle misure contenute nel cd. decreto Severino[7]. La questione, poi, è divenuta particolarmente rilevante in seguito alla proposizione, da parte di Silvio Berlusconi, di un ricorso innanzi alla Corte EDU relativo alla decadenza dalla carica di senatore, conseguente ad una condanna definitiva per frode fiscale per fatti risalenti al 2004, e dunque precedenti all’entrata in vigore del d. lgs. n. 235 del 2012[8]. La Grande Camera, a cui era stato assegnato il ricorso ex art. 30 CEDU, non si è però pronunciata al riguardo, poiché, dopo aver ottenuto la riabilitazione dal Tribunale di Milano, Berlusconi ha rinunciato al ricorso per sopravvenuta carenza di interesse[9].
In materia di applicazione retroattiva, però di altre misure previste dal cd. decreto Severino, è intervenuta anche la Corte costituzionale con due decisioni richiamate e condivise dalla Corte EDU, ovverosia le sentenze n. 236 del 2015[10] e n. 276 del 2016[11]. In queste si è affermato che l’incandidabilità, la decadenza e la sospensione non rappresentano un’ulteriore sanzione per le condotte già punite nel precedente procedimento penale, ma semplicemente il «venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate»[12]. Nella seconda decisione, inoltre, la Corte costituzionale si è confrontata anche con i noti “criteri Engel” elaborati dalla Corte EDU[13], non arrivando comunque a conclusioni differenti[14].
- La vicenda del ricorrente
Il ricorrente, candidato alle elezioni del febbraio 2013, viene eletto e proclamato membro del Parlamento nel marzo 2013.
Nell’ambito di un procedimento penale riguardante il progetto MOSE, egli viene accusato di aver commesso un reato di corruzione, di cui all’articolo 319 del Codice penale, per fatti risalenti ad un periodo dal 22 luglio 2008 al 1° gennaio 2012, e dunque anteriori all’entrata in vigore della cd. legge Severino. Il ricorrente, dopo aver ottenuto l’accordo della procura, patteggia la pena. La decisione diviene definitiva il 2 luglio 2015.
Comunicata la sentenza alla Camera dei deputati, ha inizio la procedura prevista dal d. lgs. n. 235 del 2012 e il presidente del Comitato permanente per le incompatibilità, le ineleggibilità e le decadenze invita il ricorrente a presentare le sue osservazioni. L’interessato deposita una memoria in cui chiede di non applicare retroattivamente il decreto legislativo e di rimettere la questione alla Corte costituzionale.
Il 23 febbraio 2016, il Comitato propone alla Giunta delle elezioni di accertare la sussistenza della causa di ineleggibilità sopravvenuta e quindi la decadenza dal mandato parlamentare dell’onorevole. La Giunta, nella seduta pubblica del 7 aprile 2016, accogliendo la proposta del Comitato, respinge le argomentazioni del ricorrente sull’applicazione retroattiva della norma, non trattandosi di materia penale, e afferma che, non essendo una procedura giudiziaria, non è possibile sollevare questioni di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale. Per questi motivi, la Giunta propone all’Assemblea la decadenza dal mandato parlamentare del deputato per motivi di ineleggibilità sopravvenuta. In data 27 aprile 2016, la Camera dei deputati dichiara la decadenza dal seggio parlamentare con effetto immediato.
Il ricorrente lamenta dunque che la decadenza dalle sue funzioni abbia violato gli articoli 7, 13 e 14 della Convenzione e 3 del protocollo n. 1.
- Sulla presunta violazione dell’articolo 7 della CEDU[15]
Il ricorrente afferma che il divieto di candidarsi e la decadenza delle persone condannate per determinati reati escludendole dalla vita pubblica – e in particolare dalle funzioni elettive – per un lungo periodo di tempo rappresenta una pena secondo i criteri Engel, elaborati dalla giurisprudenza della Corte[16], per lo scopo repressivo e la gravità della sanzione.
I giudici di Strasburgo richiamano quindi i principi generali, riguardanti l’articolo 7 CEDU, affermati nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna[17]. Secondo cui per rendere effettiva la protezione offerta dall’articolo 7, è necessario valutare nella sostanza, e al di là delle formali etichette, se si tratta di una pena. Il testo dell’articolo 7 § 1 indica che il punto di partenza per qualsiasi valutazione è determinare se la misura in questione sia stata imposta in seguito ad una condanna penale. Poi, possono essere considerati anche altri elementi: la natura e lo scopo della misura, la sua classificazione nel diritto interno, le procedure associate alla sua adozione e applicazione, nonché la gravità della stessa (tuttavia quest’ultimo elemento non è decisivo perché molte misure preventive non penali possono considerarsi “gravi”, avendo un impatto rilevante sulla vita dell’individuo).
La Corte sottolinea che il termine “inflitta” dell’articolo 7, paragrafo 1, seconda frase, non può essere interpretato nel senso di escludere dall’ambito di applicazione della disposizione tutte le misure adottate dopo la condanna. Non vanno quindi escluse quelle misure che, adottate dal legislatore, dalle autorità amministrative o dai tribunali dopo l’imposizione di una pena definitiva o durante la sua esecuzione, possono portare a una ridefinizione o una modifica della pena imposta dal giudice che l’ha pronunciata. Anche a queste misure deve applicarsi il divieto di retroattività.
Prima di affrontare la questione, sono richiamati i precedenti giurisprudenziali fondamentali. In via generale, le limitazioni dei diritti politici ed elettorali non vengono considerate rilevanti ai fini dell’applicazione degli articoli 6 e 7 CEDU. Nello specifico, un’ineleggibilità di durata annuale derivante dal mancato rispetto delle norme sulle spese elettorali[18], ovvero un’ineleggibilità di durata quinquennale connessa ad una procedura di liquidazione giudiziaria[19], non sono state considerate misure dal carattere penale.
Diversamente la Corte, in Matyjek c. Polonia[20], ha concluso per la natura penale della perdita della “qualificazione morale” – comportante la perdita del seggio da deputato e l’ineleggibilità decennale – irrogata all’esito di un “procedimento di lustrazione”, per delle falsità pronunciate, da un candidato a ricoprire determinate posizioni specificate dalla legge polacca (essenzialmente cariche elettive di livello nazionale), in merito ad una sua collaborazione con i servizi segreti del regime comunista. Sebbene la procedura non fosse classificata come “penale” nel diritto interno, questa comportava l’applicazione di norme del Codice di procedura penale e la decisione di un tribunale composto da giudici che siedono nelle sezioni penali. Inoltre, la dichiarazione non veritiera, causa della misura, si poteva considerare simile al reato di spergiuro. Poi, la disposizione legislativa era suscettibile di essere applicata ad un gran numero di cittadini (tutti coloro che svolgevano determinati lavori pubblici e che erano nati prima del maggio 1972) e non ad un piccolo gruppo di individui con uno status speciale. Rispetto alla natura e alla gravità della pena, la Corte ha osservato che la sanzione aveva un impatto significativo sulla vita della persona, privandola della possibilità di continuare la propria vita professionale, elemento indicativo del carattere repressivo e preventivo della stessa. La procedura aveva quindi lo scopo di punire le persone che non avevano rispettato l’obbligo di far conoscere al pubblico la loro cooperazione passata con i servizi segreti[21].
D’altra parte, la Corte, adottando un approccio più restrittivo, ha ritenuto che l’articolo 6 non si dovesse applicare a procedimenti simili a quello polacco. In questi casi, i ricorrenti avevano subito delle limitazioni per atti commessi sotto il regime comunista, ovvero per aver lavorato e collaborato con i servizi segreti[22].
Nel caso in esame, si osserva che il D. lgs. 235 del 2012 ha comportato l’inflizione, attraverso una procedura parlamentare, di una misura ulteriore alla pena principale stabilita dalla condanna definitiva per corruzione e per questo motivo si devono applicare i criteri Del Rio Prada c. Spagna[23].
Rispetto alla natura e alla finalità della misura, la Corte ritiene che la scelta della condanna definitiva per alcuni delitti, come base giustificante la decadenza, rappresenti la volontà legislativa di fondarsi su dei criteri astratti[24].
Riguardo alla qualificazione delle misure nel diritto interno, la Corte concorda con quanto stabilito dalla Corte costituzionale italiana, in particolare nelle sentenze n. 236 del 2015[25] e n. 276 del 2016[26], per cui le misure non sono né delle sanzioni, né degli effetti della condanna rilevanti nell’ambito penale, ma attengono esclusivamente alla perdita della condizione soggettiva che permette l’accesso alle funzioni elettive e al loro esercizio[27].
Non può, inoltre, configurarsi il carattere penale della misura per i punti in comune della stessa con la pena accessoria dell’interdizione, perché queste due hanno una base legale diversa, una diversa durata e diverse conseguenze sui diritti individuali. In aggiunta, l’incandidabilità prevista dal decreto Severino comporta, diversamente dall’interdizione, la sola perdita del diritto di voto passivo[28].
L’estinzione dell’incandidabilità in seguito alla riabilitazione è dovuta, secondo i giudici, al semplice fatto che la misura abbia come suo precedente necessario una condanna penale definitiva[29], non rilevando quindi tale elemento per una qualificazione penale della stessa.
Con riferimento alla gravità, l’inattitudine ad esercitare il mandato di deputato e la perdita del diritto a candidarsi hanno per il ricorrente delle conseguenze solo sul piano politico. Tuttavia, ciò non è sufficiente a qualificarle come penali, a fortiori per la mancata limitazione del diritto di voto attivo[30].
In conclusione, le misure non sono assimilabili a delle sanzioni penali e il ricorso, rispetto all’articolo 7 CEDU, è respinto ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
- Sulla presunta violazione dell’articolo 3 del protocollo n. 1 CEDU[31]
Il ricorrente ritiene che il divieto di candidarsi e la decadenza previsti dal decreto Severino non siano sufficientemente prevedibili sia per loro applicazione retroattiva, sia per l’assenza di un’applicazione automatica della legge, sostituita da deliberazioni ad hoc, in questo caso della Camera dei deputati.
In ogni caso, le misure non sarebbero, poi, proporzionali all’obiettivo perseguito, per la durata predeterminata ed eccessiva delle limitazioni che dimostrerebbero, tra l’altro, lo scopo dell’intervento legislativo.
Infine, l’assenza di un controllo esterno ed indipendente sulla decisione non evita un possibile abuso di potere della misura in questione.
La Corte richiama dunque i criteri generali stabiliti nella sua giurisprudenza. Rispetto alle limitazioni dei diritti previsti all’art. 3 del protocollo n. 1, si è sottolineato che poiché manca un riferimento agli “scopi legittimi”, diversamente dagli artt. 8 e 11 CEDU, gli Stati contraenti possono fare liberamente affidamento su uno scopo che non è incluso in tale elenco per giustificare una restrizione, a condizione che sia dimostrata la compatibilità di questa con i principi dello Stato di diritto e della Convenzione. La Corte, per valutare l’esistenza di una violazione, si concentrerà su due criteri: da un lato, la presenza di arbitrarietà o mancanza di proporzionalità e dall’altro se la restrizione mina la libera espressione d’opinione del popolo. Per quanto riguarda l’aspetto “passivo” dei diritti garantiti dall’articolo 3 del protocollo n. 1, la Corte si limiterà, invece, a verificare l’assenza di arbitrarietà[32].
Si osserva che le misure impugnate hanno comportato interferenze nell’esercizio dei diritti elettorali del ricorrente garantiti dall’articolo in questione. Resta da verificare se questa limitazione persegua uno scopo legittimo e sia stata circondata da adeguate garanzie contro l’arbitrarietà[33].
Lo scopo perseguito dalle limitazioni è, secondo la Corte, legittimo. Le misure garantiscono un corretto funzionamento della gestione della res publica, regolano l’accesso alla vita pubblica ai massimi livelli e preservano il libero processo decisionale degli organi elettivi[34].
Sull’arbitrarietà, la Corte distingue nella sua analisi tra l’incandidabilità e la decadenza.
Rispetto alla prima si sottolinea che il divieto di candidarsi è circondato da garanzie. Questo è previsto in seguito ad una condanna definitiva per reati gravi definiti dalla legge; mentre riguardo alla prevedibilità dello stesso, i giudici di Strasburgo richiamano l’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati nelle limitazioni alla capacità elettorale passiva. Il ricorrente, poi, avrebbe comunque potuto proporre l’istanza di riabilitazione, prevista dall’art. 3 del decreto[35].
Riguardo alla decadenza, sia la legge che il decreto Severino sono entrati in vigore prima delle elezioni del febbraio 2013, di conseguenza sia il ricorrente che gli elettori erano consapevoli degli effetti di una condanna definitiva. Anche sulla scelta di affidare la decisione al Parlamento, la Corte invoca nuovamente il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati in materia. In ogni caso, nella procedura prevista ed applicata, il ricorrente ha avuto modo di presentare delle memorie; le sue argomentazioni sono state analizzate dalla Commissione permanente, dalla Giunta e dalla Camera dei deputati; per finire, il procedimento dinanzi alla Camera può considerarsi trasparente, poiché le sessioni erano pubbliche[36].
Per tutte queste ragioni, la Corte non ritiene che le misure siano arbitrarie, sproporzionate o prive di garanzie procedurali e respinge il ricorso, rispetto all’articolo 3 del protocollo n. 1, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3, lettera a) e 4 della Convenzione.
- Sulla presunta violazione dell’articolo 3 del protocollo n. 1 e l’articolo 14 CEDU[37]
Il ricorrente denuncia un trattamento discriminatorio poiché le misure non si applicano in caso di condanna all’estero dei deputati, si applicano indipendentemente dal reato commesso, dalla sua gravità e dalla scelta di optare per un rito alternativo premiale, infine la decadenza di un membro del Parlamento non è soggetta ad alcun ricorso legale a differenza della decadenza degli amministratori locali e regionali[38].
La Corte ritiene la doglianza manifestamente infondata e la respinge ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione. I giudici sottolineano che solo le differenze di trattamento di persone collocate in posizioni simili possono considerarsi discriminatorie, e le stesse, inoltre, non devono trovare alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole[39].
- Sulla presunta violazione dell’articolo 13 CEDU[40]
Il ricorrente sostiene, infine, che l’assenza, nel diritto interno, di un ricorso accessibile ed efficace contro la decisione del Parlamento contrasti con l’articolo 13 CEDU[41].
La Corte ritiene manifestamente infondata la questione poiché, in base al fondamentale principio di separazione dei poteri, un giudice non può sindacare una decisione parlamentare relativa alla composizione dell’organo stesso.
- Note conclusive
La sentenza qui annotata ha statuito che l’incandidabilità, e l’annessa decadenza, previste dal cd. Decreto Severino, non violano l’articolo 7 CEDU.
Secondo la Corte il divieto di retroattività dev’essere applicato – anche – a tutte quelle misure che, adottate dal legislatore, dalle autorità amministrative o dai tribunali dopo l’imposizione di una pena definitiva o durante la sua esecuzione, possono portare a una ridefinizione o una modifica della pena imposta dal giudice che l’ha pronunciata[42].
A parere della scrivente, l’analisi riguardante la misura adottata dopo l’imposizione di una pena definitiva o della sua esecuzione non dovrebbe guardare esclusivamente alla singola misura in questione, ma dovrebbe avere ad oggetto tutte le limitazioni dei diritti subite in seguito alla commissione di un fatto individuato dalla legge come reato, prendendo in considerazione dunque le limitazioni complessivamente previste dalla sentenza di condanna, insieme all’ulteriore intervenuta misura.
Di conseguenza, se le limitazioni/afflizioni di diritti subite prima della misura in questione sono pacificamente qualificate come una pena, allora una successiva limitazione dei diritti del soggetto per il medesimo fatto di reato, che si aggiunge alle precedenti, non potrebbe che determinare un insieme di limitazioni che unitariamente considerate dovrebbero qualificarsi come una “pena”, e come tali essere soggette al divieto di retroattività.
Non sfugge che il presupposto applicativo delle predette misure, non sia il reato, ma la condanna penale definitiva[43], ma è chiaro che la condanna presuppone l’esistenza del reato, ed è proprio nella sentenza che se ne accerta l’esistenza e in ragione di quell’accertamento si condanna il soggetto ad una pena[44]. L’incandidabilità e la decadenza, previste dal Decreto Severino, quindi, hanno come presupposto un reato che viene accertato in una sentenza definitiva e appare alquanto forzato ritenere, come fa la Corte, che il legislatore abbia scelto la condanna definitiva, come base giustificante la misura, al solo scopo di fondarsi su criteri astratti[45].
Questi ultimi rilievi sono fondamentali anche per evidenziare che i precedenti giurisprudenziali richiamati dalla Corte non sono del tutto simili al caso in esame. Questi si basavano quasi esclusivamente sulla violazione dell’articolo 6 CEDU, perciò, le limitazioni al diritto di voto non seguivano né all’accertamento di un reato, né, soprattutto, all’irrogazione di una precedente pena[46].
Venendo all’analisi svolta dalla Corte, che si basa solo sulla singola misura, si osserva quanto segue. Con riferimento all’articolo 7 CEDU riemergono i criteri affermati nel leading case Welch c. Regno Unito[47] e ripresi nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna che sono i seguenti: 1) misure imposte in seguito alla condanna penale; 2) qualificazione nel diritto interno; 3) natura e finalità dell’illecito; 4) procedura; 5) severità delle misure, tuttavia, quest’ultimo requisito non è sufficiente da solo a determinare la qualifica penale perché molte misure di natura preventiva possono avere un impatto significativo sull’interessato[48].
Si tratta sostanzialmente dei criteri Engel[49]: 1) qualificazione della misura nel diritto interno; 2) natura dell’illecito; 3) gravità della misura[50], dove però la “procedura” è normalmente ricompresa nel criterio riguardante la “natura dell’illecito”. Anche con riferimento alla “gravità della misura” si può notare una certa corrispondenza, poiché, sebbene normalmente s’invochi l’alternatività, al posto della cumulatività, dei criteri, le sentenze in cui il terzo criterio è risultato decisivo riguardavano situazioni in cui la qualificazione ai sensi del secondo criterio era incerta, non perché mancasse la finalità punitiva, ma perché accanto a questa sussistevano specifiche finalità di natura preventiva o regolatoria[51].
Sicuramente la misura in esame presenta una finalità preventiva, ovvero evitare che una persona già condannata per determinati reati possa ricoprire importanti posizioni nell’amministrazione della cosa pubblica. Non può però neppure escludersi una finalità punitiva che insieme alla severità della misura doveva – forse – portare ad una diversa conclusione della Corte. Ciò emerge chiaramente dalla sproporzionalità della misura perché, secondo l’art. 13 del cd. Decreto Severino, l’incandidabilità è pari al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici comminata dal giudice, e, in assenza della pena accessoria, questa comunque non è inferiore a sei anni, e nel caso in cui il delitto che ha determinato l’incandidabilità o il divieto di assumere incarichi di governo è stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato elettivo, di parlamentare nazionale o europeo, o all’incarico di Governo, la durata dell’incandidabilità o del divieto è aumentata di un terzo.
Altro elemento invocabile a sostegno della natura penale della misura, normalmente richiamato dalla Corte nell’ambito della natura dell’illecito[52], è l’applicabilità generale della norma, come nel caso in esame[53]. Infine, per quanto attiene al criterio delle “procedure associate all’adozione e all’esecuzione” per cui la Corte protende a qualificare come penale la misura, se adottata da un giudice in sede penale, si osserva che scegliere se applicare un principio di natura sostanziale ad una misura in base al tipo di procedimento previsto per la sua assunzione non segue la logica per cui è la natura della misura a precedere, e non seguire, l’analisi del procedimento ad esso relativo[54]. Da questa prospettiva il criterio si potrebbe considerare idoneo solo per affermare la natura penale del principio, ma non per escluderla[55].
*Dott.ssa in Giurisprudenza e praticante avvocato
[1] Per un primo commento alla sentenza qui analizzata si veda P. Brambilla, Il decreto “Severino” al vaglio della Corte di Strasburgo: escluso il “carattere penale” dell’incandidabilità parlamentare e del divieto di ricoprire cariche elettive regionali, in Sistema penale, 8 luglio 2021.
[2] Ci si riferisce, ad esempio, all’obbligo per le pubbliche amministrazioni di redigere un piano di prevenzione per la corruzione e al conferimento alla CiVIT (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche) del ruolo di “Autorità nazionale anticorruzione”.
[3] L’articolo 1, comma 63, della l. n. 190 del 2012 stabilisce che «Il Governo è delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità’ alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di amministrazione e di presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all’articolo 114 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267, e successive modificazioni, di presidente e di componente degli organi esecutivi delle comunità montane».
[4] L’articolo 1 del d. lgs. 235 del 2012 stabilisce che «1. Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore: a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale; b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale; c) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale».
[5] L’articolo 3 del d. lgs. 235 del 2012 stabilisce che «1. Qualora una causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione. A tal fine le sentenze definitive di condanna di cui all’articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato dell’articolo 665 del codice di procedura penale, alla Camera di rispettiva appartenenza. 2. Se l’accertamento della causa di incandidabilità interviene nella fase di convalida degli eletti, la Camera interessata, anche nelle more della conclusione di tale fase, procede immediatamente alla deliberazione sulla mancata convalida. 3. Nel caso in cui rimanga vacante un seggio, la Camera interessata, in sede di convalida del subentrante, verifica per quest’ultimo l’assenza delle condizioni soggettive di incandidabilità di cui all’articolo 1».
[6] L’articolo 13 della d. lgs. 235 del 2012 stabilisce che «1. L’incandidabilità alla carica di deputato, senatore e membro del Parlamento europeo spettante all’Italia, derivante da sentenza definitiva di condanna per i delitti indicati all’articolo 1, decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza stessa ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici comminata dal giudice. In ogni caso l’incandidabilità, anche in assenza della pena accessoria, non è inferiore a sei anni. 2. Il divieto ad assumere e svolgere incarichi di Governo nazionale, derivante da sentenza di condanna definitiva per i delitti indicati all’articolo 1, opera con la medesima decorrenza e per la stessa durata prevista dal comma 1. 3. Nel caso in cui il delitto che determina l’incandidabilità o il divieto di assumere incarichi di governo è stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato elettivo, di parlamentare nazionale o europeo, o all’incarico di Governo, la durata dell’incandidabilità o del divieto è aumentata di un terzo».
[7] Gli autori che hanno individuato la natura penale delle misure del cd. decreto Severino cfr. N. D’Ascola, Alla ricerca di un diritto che non c’è – La presunta retroattività della ‘legge Severino’, tra derive assiomatiche e suggestioni moralistiche, in Arch. pen., n. 1/2014, 25 ss.; M. Gambardella, “Legge Severino” in materia di incandidabilità sopravvenuta e divieto di retroattività convenzionale (art. 7 Cedu), ibidem L. Mancano, Riflessioni in tema di incandidabilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 951 ss.; P. Torretta, L’incandidabilità al mandato parlamentare – La “legge Severino” oltre il “caso Berlusconi”, Napoli, 2015; Contra, cfr. B. Galgani, Le vicende dell’incandidabilità nella dialettica tra garanzie costituzionali: distingue frequenter, in Arch. pen., n. 1/2014, 10 ss.; A. Manna, L’incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato parlamentare e l’irretroattività della norma penale, ibidem, 5 ss.; O. Mazza, La chassé-croisé della retroattività (in margine alla ‘legge Severino’), ibidem, 6.
[8] Ricorso alla Corte EDU, 7 settembre 2013, Berlusconi c. Italia, in Dir. pen. cont., 15 settembre 2013. Allo stesso erano, inoltre, allegati dei pareri pro veritate di illustri giuristi contrari ad un’applicazione retroattiva delle misure in questione, tra questi: G. Guzzetta (all. 8); A. Marandola (all. 9); R. Nania (all. 10); G. Pansini (all. 11); G. Spangher (all. 12); B. Caravita, G. de Vergottini e N. Zanon (all. 13).
[9] Corte EDU, Grande Camera, dec. 26 novembre 2018, Berlusconi c. Italia. Cfr. A. Galluccio, La Grande Camera della Corte EDU chiude, senza decidere, la causa Berlusconi c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 29 novembre 2018, in cui si afferma che, in seguito alla decisione, «nessuna risposta ci perviene (né perverrà, per il momento) da Strasburgo circa: la reale natura delle ‘incandidabilità’ di cui a d.lgs. 235 del 2012 – sono pene mascherate che assolvono a una prevalente funzione punitiva o, piuttosto, misure essenzialmente preventive di gravi fenomeni di corruzione all’interno di organi politici di rilevanza costituzionale? –; la conseguente legittimità di una loro applicazione in relazione a fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della ‘riforma Severino’; l’accettabilità della compressione del diritto di voto che la disciplina in questione indubbiamente presenta».
[10] Corte costituzionale, sent. 20 ottobre 2015, n. 236. La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, della Costituzione. Si è trattato di una pronuncia di particolare rilevanza, attesa la delicatezza del caso che l’ha originata ovvero la sospensione del Sindaco di Napoli per effetto di una condanna in primo grado per il reato di abuso di ufficio. Cfr. L. Longhi, Il caso de Magistris: il delicato bilanciamento tra diritti di elettorato passivo e tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, in federalismi.it, 3, 2016; G. Marolda, La non irragionevolezza delle “legge Severino”: nota a margine della sent. n. 236/2015 della Corte costituzionale, in forum costituzionale, 30 gennaio 2016; F. S. Marini, La “legge Severino” tra le Corti: luci e ombre dell’incandidabilità dopo la sentenza n. 236 del 2015, in Osservatorio costituzionale, 6 Febbraio 2016.
[11] Corte costituzionale, sent. 5 ottobre 2016, n. 276. La Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 1, e 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevate con riferimento: a) ad un eccesso di delega, in violazione dell’art. 76 Cost.; b) l’asserita violazione del principio di legalità e irretroattività in materia penale di cui agli artt. 25 co. 2 e 117 co. 1 Cost. (quest’ultimo in riferimento all’art. 7 Cedu); c) l’efficacia retroattiva delle norme in questione rispetto a reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge, in asserita violazione degli artt. 2, 4 co. 2, 51 e 97 co. 2 Cost.; d) un’asserita disparità di trattamento tra gli eletti ai consigli regionali e gli eletti al Parlamento nazionale ed europeo, in violazione degli artt. 3, 51, 76 e 76 Cost. cfr. F. Viganò, La Consulta respinge le censure di illegittimità costituzionale della c.d. legge Severino in materia di sospensione dalle cariche politiche in conseguenza di sentenze di condanna, in Dir. pen. cont., 19 dicembre 2016; G. Menegus, La sospensione di diritto ex “legge severino” supera ancora una volta il vaglio della corte. Nota a margine della sent. N. 276/2016, in Riv. A.I.C., 2, 2017.
[12] Corte costituzionale, sent. 5 ottobre 2016, n. 276, Considerato in diritto § 5.2
[13] Corte Edu, Grande Camera, sent. 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi. Amplius L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018, 29 ss.; V. Manes – M. Caianiello, Introduzione al diritto penale europeo, Torino, 2020, 174 s; F. Mazzacuva, Le pene nascoste – topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Torino, 2017, 14 ss.
[14] Riguardo alla natura della “sospensione dalla carica”, prevista dal decreto Severino, si afferma che questa non ha alcuna finalità punitiva, bensì il mero scopo di tutelare la pubblica funzione in attesa che l’accertamento penale si consolidi nel giudicato, e ciò «trova il suo fondamento nella valutazione, compiuta dal legislatore, delle condizioni che sconsigliano provvisoriamente la permanenza dell’eletto in una determinata carica pubblica, al fine di sottrarre l’ufficio a dubbi sulla onorabilità di chi lo riveste che potrebbero metterne in discussione il prestigio e pregiudicarne il buon andamento»; rispetto, poi, alla gravità della stessa per l’interessato si dichiara che la circoscritta durata temporale della sospensione (diciotto mesi) ne evidenzia la limitata severità, con conseguente inidoneità della misura a essere assimilata a una sanzione con finalità deterrente o punitiva. Ivi, Considerato in diritto § 5.6.1.
[15] Articolo 7 – Nulla poena sine lege. «1. Nessuno può essere condannato per un’azione o una omissione che al momento in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole d’una azione o d’una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili».
[16] Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel c. Olanda.
[17] Corte EDU, sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, ric. n. 42750/09.
[18] In questo senso Estrosi c. France n. 24359/94 (decisione della Commissione del 30 giugno 1995) e Pierre-Bloch c. Francia, 21 ottobre 1997, dove la Commissione ha ritenuto che l’ineleggibilità di un anno, pronunciata dal Consiglio costituzionale, ai sensi del codice elettorale, per il mancato rispetto delle norme sulle spese elettorali, non rientrasse nel diritto penale, ma regolasse semplicemente l’esercizio di un diritto politico;
[19] Tapie c. Francia n. 32258/96 (decisione della Commissione del 13 gennaio 1997, non pubblicata), la Commissione ha ritenuto che un’ineleggibilità quinquennale derivante da una procedura di liquidazione giudiziaria rientrasse nel diritto commerciale e non nell’ambito penale; nello stesso senso Corte EDU, Refah Partisi e altri c. Turchia n. 41340/98 e Sobaci c. Turchia n. 26733/02.
[20] Corte EDU, 30 maggio 2006, Matyjek c. Polonia.
[21] Il precedente è stato richiamato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 276 del 5 ottobre 2016. La Corte, al p. 5.6.1. del Considerato in diritto, afferma che la decisione della Corte EDU in questione si basava «sull’accertato presupposto che il procedimento adottato nel caso concreto non avesse altro scopo che sanzionare l’autore della falsa dichiarazione (paragrafo 56 della sentenza)».
[22] In Corte EDU, sent. 1° luglio 2003, Sidabras e Džiautas c. Lituania, la sanzione consisteva nella perdita del lavoro pubblico e nell’impedimento decennale di accedere a lavori del settore pubblico e ad alcune aree del privato. In Corte EDU, sent. 21 gennaio 2016, Ivanovski c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, il ricorrente, giudice della Corte costituzionale, era stato rimosso dall’incarico e gli era stato vietato qualsiasi impiego pubblico o accademico per un periodo di cinque anni.
[23] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 83.
[24] Ivi, § 85.
[25] Corte costituzionale, sent. 20 ottobre 2015, n. 236.
[26] Corte costituzionale, sent. 5 ottobre 2016, n. 276.
[27] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 89 – 90.
[28] Ivi, § 91 – 93.
[29] Ivi, § 94.
[30] Ivi, § 96.
[31] Articolo 3 – Diritto a libere elezioni. «Le Alte Parti Contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo».
[32] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 105.
[33] Ivi, § 110.
[34] Ivi, § 112.
[35] Ivi, § 114 – 119.
[36] Ivi, § 120 – 135.
[37] Articolo 14 – Divieto di discriminazione. «Il godimento dei diritti e delle libertà̀ riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
[38] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 137 – 138.
[39] Ivi, § 139.
[40] Articolo 13 – Diritto a un ricorso effettivo. «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali».
[41] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 137 – 138.
[42] Corte EDU, sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, ric. n. 42750/09, § 89.
[43] Al riguardo, O. Mazza scrive “La mera esegesi dell’art. 1 d.lgs. n. 235 del 2012 dimostra che gli effetti giuridici introdotti dalla nuova disciplina (incandidabilità e decadenza) sono ricollegati alle sentenze di condanna e non riguardano direttamente il reato. Da ciò discendono due importanti corollari: le norme in questione non possono avere natura penale, non avendo come punto di riferimento, e la loro applicazione irretroattiva deve avere come imprescindibile collegamento temporale il momento del realizzarsi dell’evento condizionante rappresentato dalla sentenza di condanna definitiva. È inutile nascondersi che proprio su questo punto si è giocato l’equivoco di fondo che ha caratterizzato il dibattito politico-giuridico nel lungo periodo di tempo in cui si è discussa la decadenza del Senatore Silvio Berlusconi”, cfr. O. Mazza, La chassé-croisé della retroattività, cit. 32.
[44] Per rendere più chiaro il ragionamento si potrebbe fare questo esempio, un legislatore che stabilisce che per tutti i condannati per un reato “x” ad una pena “y” è prevista l’ulteriore reclusione di due mesi. Sebbene il legislatore riferisca formalmente l’ulteriore reclusione alla condanna, è chiaro che l’effetto è quello di aumentare la pena prevista per il reato “x”, tra l’altro in modo retroattivo.
[45] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 85.
[46] In Estrosi c. Francia, cit., l’ineleggibilità di un anno, pronunciata dal Consiglio costituzionale ai sensi del codice elettorale riguardava il mancato rispetto delle norme sulle spese elettorali; in Tapie c. Francia, cit., si trattava di un’ineleggibilità quinquennale derivante da una procedura di liquidazione giudiziaria; In Pierre-Bloch c. Francia, cit., un’ineleggibilità di un anno e le dimissioni automatiche del mandato di deputato per inosservanza delle norme sulle spese elettorali; in Paksas c. Lituania, cit., sebbene vi fosse un richiamo all’articolo 7 CEDU, la limitazione al diritto di voto faceva riferimento ad un procedimento di impeachment per l’emissione di un illegittimo decreto di cittadinanza; in Refah Partisi e altri c. Turchia e Sobaci c. Turchia, cit., lo scioglimento dei partiti non era dovuto ad una condanna penale, ma all’applicazione da parte della Corte costituzionale della legge sui partiti politici. Nei casi che avevano ad oggetto procedimenti di lustrazione, la limitazione al diritto di voto era prevista per atti commessi sotto il regime comunista (in particolare per aver lavorato o collaborato con i servizi segreti), cfr. Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 78 – 79. Solo in Matyjek c. Polonia, cit., come già anticipato, la Corte ha ritenuto che la dichiarazione falsa fosse assimilabile al reato di spergiuro.
[47] Corte EDU, sent. 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito. Cfr. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il principio di legalità in materia penale (art. 7 Cedu), in Dir. pen. cont., 3 – 4, 2012, 263 ss.; G. Abbadessa, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il principio di legalità in materia penale (art. 7 Cedu), ), in Dir. pen. cont, 2011, n. unico, 281 ss.; B. Randazzo (a cura di), I principi del Diritto e del processo penale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, Madrid 13 – 15 ottobre 2011, 20 ss.
[48] Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 84 – 96.
[49] L. Masera, Op. cit., 90.
[50] Vedi nota 13.
[51] Masera, a tal proposito, parla di “parziale cumulatività” tra il secondo e il terzo criterio e di “natura sussidiaria” di quest’ultimo, cfr. L. Masera, Op. cit., 86 ss.
[52] Cfr. ex multis Corte EDU, 30 maggio 2006, Matyjek c. Polonia.
[53] La Corte, del resto, afferma che il legislatore sceglie come base giustificante la misura della condanna per basarsi su criteri astratti, cfr. Corte EDU, sent. 17 giugno 2021, Galan c. Italia, § 85.
[54] L. Masera, Op. cit., 79; “Un siffatto modo di argomentare costituisce vera e propria inversione logica e metodologica, poiché è proprio nella natura sostanziale del tipo di sanzione prescelta che deriva per il legislatore l’obbligo di dare ad essa una certa disciplina e non altra per quanto attiene agli organi e alla procedura per l’irrogazione”, in F. Palazzo, Il principio di determinatezza nel diritto penale, 1979, 194.
[55] Per considerazioni simili cfr. L. Masera, Op. cit., 79 s.