LA DIFESA D’UFFICIO DOPO LA RIFORMA DEL 2015 – DI DARIO LUNARDON
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LA DIFESA D’UFFICIO DOPO LA RIFORMA DEL 2015
Alcune considerazioni a sei anni di distanza dal D. Lgs. 30 gennaio 2015, n. 6
di Dario Lunardon*
Il Decreto legislativo 30 gennaio 2015 n. 6 ha introdotto significative modifiche alla disciplina della difesa d’ufficio. Tale riforma trova origine nella delega contenuta nella “nuova” Legge Forense del 2012 ed è il risultato di un percorso alla cui elaborazione l’Unione delle Camere Penali Italiane ha dato un contributo fondamentale. È tempo di tracciare un bilancio, individuando quali passi in avanti sono stati fatti e quali sono ancora le criticità residue, nell’ottica di assicurare la piena effettività del diritto di difesa anche e soprattutto nei casi in cui tale diritto venga garantito da un difensore d’ufficio.
Il 5 febbraio 2015, esattamente sei anni fa, veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto legislativo 30 gennaio 2015 n. 6, recante Riordino della disciplina della difesa d’ufficio.
Sono ormai trascorsi alcuni anni, ed anche per questo è importante cercare di ricostruire il percorso che ha portato all’approvazione di questa riforma, per comprendere quale ne fosse l’obiettivo e ricordare il ruolo centrale e propulsivo che ha avuto l’Unione delle Camere Penali Italiane.
Il D. Lgs. n. 6/2015 trova la sua origine nella previsione dell’art. 16 della legge di riforma dell’ordinamento forense (Legge 31 dicembre 2012 n. 247), che delegava il Governo ad «adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge, sentito il CNF, un decreto legislativo recante il riordino della materia relativa alla difesa d’ufficio, in base ai seguenti principi e criteri direttivi: […] previsione dei criteri e delle modalità di accesso ad una lista unica, mediante indicazione dei requisiti che assicurino la stabilità e la competenza della difesa tecnica d’ufficio».
Se la previsione di un elenco unico nazionale si risolveva, per così dire, in un principio di natura “ordinamentale”, che è stato poi pienamente recepito dal D. Lgs. n. 6/2015, sicuramente maggior rilievo va assegnato agli altri due criteri direttivi contenuti nella legge delega (stabilità e competenza della difesa d’ufficio), che consentivano di intervenire sulla disciplina allora vigente per cercare di porre rimedio ai problemi che la concreta prassi giudiziaria aveva evidenziato.
I principi e criteri direttivi della delega consentono di affermare che lo scopo della riforma doveva essere quello di assicurare e garantire la effettività della difesa d’ufficio: nonostante questa espressione non sia direttamente utilizzata dalla legge delega del 2012, è senz’altro quella che meglio di altre si presta a individuare la direttrice lungo la quale tracciare un’evoluzione della disciplina della difesa d’ufficio.
In questo quadro, all’indomani dell’approvazione della legge delega, l’Unione delle Camere Penali Italiane istituì un’apposita Commissione allo scopo di elaborare, d’intesa con il Consiglio Nazionale Forense, l’articolato di una proposta di riforma della materia[1], affidando la “guida” della Commissione a Paola Rebecchi, della Camera penale di Roma.
Il lavoro della Commissione difesa d’ufficio prese le mosse da un’attenta riflessione sulla normativa vigente, in considerazione della concreta prassi giudiziaria e raccogliendo anche gli stimoli che provenivano dal primo “Rapporto sul processo penale”, l’indagine condotta nel 2007/2008 dall’Unione delle Camere Penali Italiane unitamente all’istituto di ricerca EURISPES.
L’analisi svolta consentiva di evidenziare, in particolare, due elementi di criticità, che incidevano sulla effettività del diritto di difesa: 1) l’assenza di garanzie di competenza professionale del difensore d’ufficio e 2) l’assenteismo dei difensori d’ufficio, che determinava un eccessivo ricorso a improprie sostituzioni ex art. 97 co. 4 c.p.p.
Sotto il primo profilo emergeva la inadeguatezza dei requisiti di iscrizione previsti dalla Legge 6 marzo 2001 n. 60, che pur aveva fatto segnare un decisivo passo in avanti nell’ottica della effettività della difesa d’ufficio, anche introducendo meccanismi di turnazione e di individuazione automatica del difensore d’ufficio[2].
La legge del 2001, anch’essa fortemente voluta dalle Camere penali[3], aveva però nel tempo manifestato l’insufficienza dei requisiti allora previsti per l’iscrizione alle liste dei difensori d’ufficio, che si risolvevano alternativamente o nella mera frequentazione di un corso di aggiornamento professionale o nella dimostrazione di aver esercitato la professione in sede penale per soli due anni, senza – nell’uno e nell’altro caso – alcun effettivo meccanismo di controllo, con la conseguenza che era sostanzialmente consentita una iscrizione indiscriminata e pressoché automatica alle liste dei difensori d’ufficio.
Su questo tema specifico, la riforma del 2015 – che, lo ricordiamo, trova fondamento in una legge delega che indicava espressamente la competenza tra i principi e criteri direttivi – ha fatto senza dubbio segnare un significativo passo in avanti.
Si è infatti prevista (nuovo art. 29 co. 1-bis disp. att. c.p.p.) l’indicazione di tre alternativi requisiti di formazione per l’accesso all’elenco unico nazionale, di portata sicuramente più stringente rispetto al passato: a) la partecipazione a un corso biennale di formazione e aggiornamento professionale, organizzato dal Consiglio dell’ordine, dalla Camera penale territoriale o dall’Unione delle Camere Penali, della durata di almeno 90 ore e con il superamento di un esame finale; b) la comprovata esperienza professionale in ambito penale con un’anzianità d’iscrizione all’albo almeno quinquennale; c) il conseguimento del titolo di specialista in diritto penale.
Se il requisito sub c) è stato, sin qui, sostanzialmente irrilevante (a causa del difficile percorso della specializzazione), i requisiti sub a) e b) segnano sicuramente un decisivo passo in avanti nell’ottica di una maggiore garanzia di competenza del difensore d’ufficio: da un lato si è aumentata a cinque anni l’anzianità di iscrizione necessaria per poter invocare una comprovata esperienza professionale[4]; dall’altro, ed è ciò che qui più interessa, si sono congiuntamente previsti dei requisiti di durata minima per il corso di formazione (2 anni e 90 ore) e il superamento di una prova finale.
Non solo.
La riforma – recependo anche qui la proposta UCPI-CNF – ha altresì previsto ex novo un vero e proprio meccanismo di controllo periodico, volto a verificare il continuativo esercizio dell’attività professionale nel settore penale, tramite una domanda di permanenza che va annualmente presentata al Consiglio Nazionale Forense (nuovo art. 29 co. 1-quater disp. att. c.p.p.).
Sostanzialmente, con la riforma, ed in esecuzione del principio e criterio direttivo relativo alla competenza, il Governo ha (quasi) integralmente recepito le istanze provenienti dalla proposta elaborata unitariamente dalla Commissione difesa d’ufficio dell’UCPI con il CNF, introducendo più stringenti requisiti di ammissione – onde garantire un controllo “in entrata” degli iscritti all’elenco nazionale – e, nel contempo, un requisito di permanenza, al fine di assicurare un controllo costante sull’elenco.
Vi sarebbe bisogno di maggior spazio per analizzare compiutamente queste previsioni, anche in relazione alla normativa regolamentare complementare nel frattempo intervenuta ad opera del Consiglio Nazionale Forense, ma non può non segnalarsi come l’apporto della Commissione difesa d’ufficio dell’UCPI e, in particolare, di Paola Rebecchi, sia stato fondamentale nella elaborazione del testo della riforma.
E, quell’apporto non sempre è stato ben compreso neppure da una pare dell’Avvocatura, a volte troppo impegnata a considerare l’elenco dei difensori d’ufficio alla stregua di un “ufficio di collocamento”, dimenticando che l’intera materia è funzionale a garantire invece quel fondamentale diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, che è assicurato al cittadino dalla previsione dell’art. 24 cost. e di cui proprio la normativa sulla difesa d’ufficio costituisce specifica attuazione: di quella normativa, in altre parole, gli Avvocati sono destinatari, ma i beneficiari restano le persone sottoposte a procedimento a penale, a cui va pertanto garantito un difensore preparato. Anzi, per certi versi addirittura “più preparato”, proprio perché viene designato direttamente dall’ordinamento, secondo determinati meccanismi, se e fino a quando l’interessato non si attiva con la designazione di un difensore di fiducia.
Come si è detto supra l’assenza di garanzie di competenza professionale del difensore d’ufficio non esauriva, però, le criticità della disciplina previgente.
Un altro, fondamentale, vizio risiedeva e risiede nell’assenteismo dei difensori d’ufficio: troppo spesso accade che il difensore d’ufficio originariamente designato non sia presente in udienza, determinando la individuazione – da parte del Giudice – di un sostituto prontamente reperibile ai sensi dell’art. 97 co. 4 c.p.p.; queste situazioni, che ben possono essere annoverate nella patologia dell’istituto, comportano troppo spesso la celebrazione di processi in una vera e propria “girandola” di difensori, pregiudicando l’effettività del diritto di difesa.
Come ha avuto modo di affermare anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Sannino c/ Italia del 27 aprile 2006 (che si è occupata proprio di un caso in cui l’imputato risultava rappresentato in ogni udienza da differenti sostituiti dell’avvocato d’ufficio) «la nomina di un avvocato non garantisce da sola l’effettività dell’assistenza che l’avvocato può fornire all’imputato», dovendo il diritto di difesa – al pari degli altri diritti fondamentali – essere oggetto di garanzia concreta ed effettiva, non meramente teorica.
Anche di questo specifico tema si era occupata la Commissione difesa d’ufficio UCPI, tant’è che nell’articolato proposto d’intesa con il CNF si prevedeva espressamente l’inserimento di un nuovo co. 4-bis all’art. 97, secondo cui in caso di mancata e ingiustificata comparizione del difensore, il Giudice avrebbe dovuto a pena di nullità nominare un nuovo difensore.
Il Governo ritenne di non spingersi nella riforma fino a recepire questa (in realtà davvero importante) indicazione, che pur trovava un preciso fondamento nel criterio della stabilità contenuto nella legge delega (che, altrimenti, finiva di fatto per svuotarsi di significato).
Questa specifica previsione – così come quella che voleva limitare la facoltà di designare sostituti ex art. 102 c.p.p. soltanto a coloro che, a loro volta, risultassero iscritti nell’elenco nazionale dei difensori d’ufficio[5] – non ha trovato l’adesione del legislatore delegato che, a conti fatti, ha finito per intervenire soltanto sul fronte della competenza, lasciando l’assenteismo dei difensori d’ufficio come uno dei nodi irrisolti della disciplina della materia.
Se questo è il quadro normativo risultante dalla riforma del 2015, nel provare a tracciarne un bilancio – a ormai sei anni dall’entrata in vigore – non si può rilevare come gran parte delle criticità residue chiamino in causa anche e direttamente l’Avvocatura: la cd. girandola dei difensori d’ufficio, infatti, presuppone la violazione di plurimi doveri deontologici in capo al difensore, così come le residue (e difficilmente superabili sul piano esclusivamente normativo) carenze di competenza che tuttora purtroppo affliggono in parte la figura.
Con lucida visione, all’indomani dell’approvazione della riforma, la Commissione difesa d’ufficio diffuse un documento, invocando la necessità di una vera e propria “battaglia culturale” in seno all’Avvocatura: «è necessario chiarire che la capacità di tutelare in modo concreto i diritti dei cittadini, passa soprattutto attraverso la piena consapevolezza del delicato ruolo svolto dal difensore d’ufficio, così come passa attraverso la piena responsabilizzazione della classe forense e la formazione di un difensore d’ufficio tecnicamente preparato, forte ed indipendente»[6]; su questo fronte le Camere penali e, in particolare, le scuole territoriali sono e devono restare un imprescindibile canale di formazione culturale e politica.
Questo non significa che nel frattempo molto altro non sia stato fatto: il riferimento, in particolare, è all’intervento nel 2017 ad opera della cd. legge Orlando sulla spinosa prassi dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio[7] – recuperando, peraltro, un’altra disposizione che era contenuta nella proposta di riforma UCPI-CNF del 2013 – e, più di recente, al fondamentale approdo della giurisprudenza di legittimità in tema di conoscenza del processo per l’imputato assistito da un difensore d’ufficio[8].
Guardando, oggi, all’indietro il percorso che si è qui sommariamente tracciato, e provando ad “unire i puntini”[9], va sottolineato e rivendicato con orgoglio il ruolo fondamentale che l’Unione delle camere penali italiane ha avuto nel provare a disegnare un processo penale in cui è garantito il diritto di difesa a tutti, «soprattutto agli “ultimi”, coloro i quali (per disinteresse, difficoltà economiche o altre ragioni) sono spesso i protagonisti invisibili dei processi penali»[10].
Proprio per questo la battaglia per l’effettività del diritto di difesa e, in particolare, della difesa d’ufficio è senza dubbio una delle battaglie più nobili tra quelle combattute dalle Camere penali.
*Avvocato del Foro di Vicenza
[1] Il testo condiviso della proposta UCPI-CNF di riforma è stato presentato a Parma il 24-25 maggio 2013, nell’ambito del Convegno Qualità ed efficacia del difensore nel processo penale, e approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 21 febbraio 2014.
[2] Fino ad allora il difensore d’ufficio veniva talvolta designato a seconda delle convenienze o delle conoscenze personali dell’Autorità Giudiziaria, che di fatto era libera di individuare, senza reali vincoli, il difensore da designare d’ufficio: non a caso in quei casi si parlava, con espressione efficace e polemica, di difensori “di fiducia dell’ufficio”.
[3] Tant’è che non si può dimenticare che con la legge del 2001 l’Unione delle Camere Penali Italiane e le Camere penali territoriali ricevettero un primo, straordinario, riconoscimento normativo, con il richiamo all’art. 29 disp. att. c.p.p. dei corsi svolti dalle camere penali (unitamente o alternativamente agli ordini forensi) quale presupposto per il conseguimento di quell’attestazione di idoneità che era requisito per l’iscrizione all’elenco (allora circondariale) dei difensori d’ufficio.
[4] La citata proposta di riforma UCPI – CNF prevedeva la minor anzianità di quattro anni, a cui doveva però affiancarsi il superamento di un esame finale, che avrebbe dovuto svolgersi annualmente su base distrettuale (analogamente, secondo questa proposta, a quanto previsto per la partecipazione al corso biennale).
[5] La limitazione della possibilità per il difensore d’ufficio di designare quale proprio sostituto d’udienza altro difensore a sua volta, necessariamente, iscritto all’elenco nazionale, era stata inizialmente recepita dal primo Regolamento adottato dal CNF il 22 maggio 2015; questa limitazione, che pur aveva portata esclusivamente deontologica, è stata da ultimo eliminata dal Regolamento CNF attualmente in vigore, a seguito delle modifiche approvate nel luglio 2019.
[6] Commissione Difesa d’Ufficio, Una “battaglia” culturale!, 30 gennaio 2015, in www.camerepenali.it.
[7] Con l’introduzione di un nuovo co. 4-bis all’art. 162 c.p.p., secondo cui «l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non ha effetto se l’autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l’assenso del difensore domiciliatario» (art. 1 co. 24, Legge 23 giugno 2017, n. 103).
[8] Il riferimento è alla sentenza delle Sezioni Unite 28 novembre 2019 – 17 agosto 2020, n. 23.948, ric. Ismail, che ha affermato il seguente principio di diritto: «la sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, da parte dell’indagato, non è di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza di cui all’articolo 420-bis c.p.p., dovendo il giudice in ogni caso verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso».
[9] Il riferimento è all’efficace e affascinante immagine che proposte Steve Jobs agli studenti di Standford il 12 giugno 2005.
[10] Paola Rebecchi, Il difensore d’ufficio, Pacini, 2017, pag. 9.