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LA FORZA E IL DIRITTO. IL PRESIDIO DELLA GIURISDIZIONE – DI FABIO PINELLI

LA FORZA E IL DIRITTO. IL PRESIDIO DELLA GIURISDIZIONE – DI FABIO PINELLI

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LA FORZA E IL DIRITTO. IL PRESIDIO DELLA GIURISDIZIONE

La relazione del Vice Presidente del CSM Avv. Fabio Pinelli 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la relazione tenuta dal Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Avv. Fabio Pinelli, al V Congresso Nazionale Area Democratica per la Giustizia svoltosi a Genova, il 10 ottobre 2025.

Il tema del rapporto tra diritto e forza è antico quanto l’idea stessa di Stato.

Da secoli l’uomo si interroga su come sia possibile conciliare il potere necessario a governare con la libertà che occorre preservare.

La forza, senza il diritto, diventa arbitrio, ma il diritto, senza la forza, rimane parola vuota, promessa non mantenuta. È in questa tensione che si gioca la qualità democratica di ogni ordinamento.

Massimo Recalcati di recente ha parlato di forza o, meglio, di guerra, e ha ricordato come per gli esseri umani la violenza della guerra e più in generale la violenza, sembra essere una tentazione irresistibile.

Non accade come nel mondo animale, dove l’uso della violenza serve alla conservazione della specie. No, nel mondo umano l’esercizio della violenza è una vera e propria passione, una vera e propria tentazione.

Il padre della psicanalisi, Freud, diceva che in fondo “noi siamo fatti male”

Siamo – uso le sue parole – nient’altro che una masnada di assassini.

Non dobbiamo sorprenderci insomma se la forza è al centro della storia dell’uomo.

Francesco Carnelutti ricordava che “la polizia è una forza, e come tutte le forze sente poco il freno del diritto”; se, per un momento, deatomizziamo l’asserzione, cercando di coglierne una verità più generale e profonda, si può dire che la forza tende per sua natura a espandersi, a superare i limiti che le vengono imposti.

Proprio per questo nasce la giurisdizione, per questo c’è bisogno del giudice: perché ogni forza, anche quella dello Stato, trovi nel diritto la propria misura. O, per meglio dire, che lo Stato sia Stato di diritto, appunto.

Diritto e forza non sono, dunque, nemici, ma parti complementari di uno stesso equilibrio.

Hans Kelsen affermava che “un ordinamento giuridico è un ordinamento coercitivo”, la coercizione non è l’essenza del diritto, ma il suo strumento.

Il diritto legittima la forza solo quando è esercitata per garantire la libertà, non per sopprimerla.

In una società liberale e democratica la domanda non è se la forza debba esistere, ma entro quali limiti possa operare.

La democrazia non è il regno dell’illimitato, ma il governo del limite.

Lo ricorda la nostra Costituzione fin dall’articolo 1, quando afferma che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

La sovranità non è dunque potere assoluto, ma responsabilità regolata dal diritto; la sovranità popolare non è una fonte di potere, ma una fonte di limiti.

Quando si smarrisce il senso del limite, la forza si emancipa dal diritto e diventa violenza.

La storia del Novecento lo ha mostrato con chiarezza drammatica: la pretesa di un diritto senza garanzie, piegato alla volontà di chi detiene il potere, ha prodotto le più gravi deformazioni dello Stato.

È da quella esperienza che nasce il costituzionalismo moderno: come reazione alla forza che aveva smarrito la misura, come promessa che la legge sarebbe tornata ad essere vincolo, non strumento di dominio. Eppure, anche nelle democrazie mature, il rischio che la forza superi il diritto non scompare.

Talvolta assume forme nuove, più sottili. Si insinua nel linguaggio, nelle pratiche, nelle culture istituzionali. È il rischio di credere che la giustizia consista solo nell’efficacia e non anche nella garanzia.

È il rischio di un diritto che, pur mantenendo la forma, perde lo spirito.

Per Luigi Ferrajoli, “il diritto è un insieme di vincoli imposti alla forza, affinché questa sia esercitata non come violenza arbitraria, ma come strumento di tutela dei diritti”; il diritto non si definisce per la quantità della forza che esprime, ma per la qualità dei limiti che le impone. Un diritto senza limiti diventa potere; un potere senza diritto diventa tirannide.

Da una diversa visuale, bisogna chiedersi se il diritto abbia fallito come diritto mite, nella direttrice tracciata da Zagrebelsky, come mediazione sociale, come riconoscimento condiviso di principi generali fondati sul rispetto della dignità della persona. E se il diritto internazionale possa essere (ancora) definito un diritto o se, viceversa, non esista più. O se per i detenuti delle nostre carceri esista ancora un diritto. Insomma, se più in generale sia fallito il diritto rispetto alla forza e come si debba procedere per ricostruire equilibri fondati nuovamente sul diritto. Come ha scritto di recente Pietro Gaeta, è tramontata l’illusione dell’illuminismo giuridico: il problema è che non è stata sostituita da nulla.

Il diritto penale è il luogo in cui la forza dello Stato si manifesta con la massima intensità.

Punire significa limitare la libertà, incidere sui diritti fondamentali della persona, esercitare un potere che tocca la vita.

È per questo che il diritto penale, più di ogni altro ramo dell’ordinamento, deve essere governato dalla misura, dal senso del limite e dal rispetto delle garanzie.

Quando il diritto si piega alla forza, nasce il diritto penale della paura, della reazione, dell’emergenza. Quantomeno dall’inizio del terzo millennio, con qualche parentesi occasionale (comunque singolare e non di sistema), si è assistito ad un progressivo scivolamento verso un uso eccessivo e distorto del diritto penale. Una vera e propria bulimia panpenalistica, tale da rendere sconosciuto e non conoscibile, neppure per gli “addetti ai lavori”, il numero di reati oggi in vigore nel nostro ordinamento. Punire, una passione contemporanea, direbbe Didier Fassin.

L’emergenza è divenuta regola.

Si è legiferato sull’onda dell’emozione collettiva, si sono moltiplicate le fattispecie incriminatrici, anticipate le soglie di punibilità. È l’illusione repressiva: l’idea che l’aumento del numero di reati e di pene, “il tintinnio delle manette”, porti ad un maggiore ordine sociale. È il diritto penale della paura, non il diritto penale del cittadino. In verità, l’eccesso di diritto penale porta lacerazioni nella società e sfavorisce la ricomposizione dei conflitti che inevitabilmente possono sorgere.

In questo contesto, assai confuso e disorganico, la giurisdizione ha talvolta inevitabilmente assunto una funzione di supplenza rispetto all’azione politica.

Come osserva Habermas, la crisi di legittimazione del potere politico nelle democrazie contemporanee ha favorito l’espansione del ruolo della giurisdizione quale sede di razionalità procedurale e di compensazione rispetto al deficit deliberativo della sfera politica. Tuttavia, questa espansione del ruolo giudiziario ha alterato l’equilibrio originario tra i poteri dello Stato.

Ciò che dovrebbe essere limite della forza politica tende infatti a trasformarsi in una sua forma, un potere che, pur privo di mandato politico diretto, esercita una funzione di orientamento e di governo delle situazioni emergenziali.

È un rovesciamento silenzioso ma significativo: la giurisdizione, nata come argine, assume progressivamente le sembianze della decisione politica. Parafrasando Schmitt, può dirsi che il giudice, chiamato a decidere dove la legge tace o è ambigua, si trova oggi a esercitare una sorta di sovranità dell’eccezione.

In assenza di un indirizzo politico o normativo chiaro, l’atto di interpretazione diventa di fatto un atto di decisione, e dunque un gesto di potere.

Questo processo si riflette anche sul terreno dell’interpretazione della legge, sempre più segnata dall’incertezza.

Ciò che in passato mirava alla ricostruzione del significato oggettivo della norma, tende ora a configurarsi come un’attività di integrazione e adattamento, volta a colmare le lacune del legislatore e a rispondere alle esigenze di una realtà in continua trasformazione.

Questa evoluzione, pur garantendo l’effettività del diritto, attenua il principio di certezza, trasforma la norma in un ambito di elaborazione dinamica; la giurisdizione assume una funzione complementare rispetto all’indirizzo politico, contribuendo al governo della complessità più che al solo presidio del diritto.

In tale contesto, occorre sfuggire all’insidia di un’interpretazione dicotomica del binomio forza/diritto; è un’operazione riduttiva e pericolosa, che rischia di tradurre la dialettica istituzionale in una contrapposizione politica tra potere esecutivo e potere giudiziario.

Una simile rappresentazione manichea – forza usata male da una parte, diritti difesi bene dall’altra – è fuorviante, perché conduce a un equivoco di fondo: l’idea che la magistratura sia chiamata non a garantire il diritto, ma a partecipare al conflitto.

La magistratura, invece, non può e non deve assumere il ruolo di parte all’interno dei conflitti politici o sociali.

La sua missione è un’altra: essere il luogo in cui il conflitto si compone secondo diritto.

Se la giurisdizione si trasforma in attore politico, inevitabilmente perde quella distanza dal potere che ne costituisce la fonte stessa di legittimazione e autorevolezza.

Il giudice è chiamato a essere custode del limite, garante della misura. Ma questo compito non è solo tecnico: è morale e civile.

Come ricordava Calamandrei, “il giudice rappresenta la legge non solo con l’autorità che gli viene conferita, ma con l’autorevolezza che deriva dal suo costume”. L’autorevolezza del giudice nasce dalla fedeltà al dovere, dal rigore dell’imparzialità, dalla capacità di servire la legge senza piegarla. Perché ciò accada, la magistratura deve guardarsi dentro, deve interrogarsi con onestà.

Nel corso degli ultimi anni, l’esercizio della funzione giurisdizionale ha conosciuto una progressiva estensione in ambiti nei quali l’equilibrio tra efficienza e garanzia si è mostrato particolarmente delicato.

Sul piano processualpenalistico, alcuni istituti, chiari nel loro portato normativo, sono stati oggetto di interpretazioni discutibili. L’uso delle intercettazioni, pur restando strumento essenziale di indagine, ha talvolta oltrepassato la soglia della stretta necessità, trasformandosi da mezzo di ricerca della prova in mezzo di ricerca della notizia di reato, divenendo così un fattore di pressione o di esposizione indebita delle comunicazioni private.

Questa evoluzione ha sollevato e solleva interrogativi fondati circa la compatibilità con i principi di proporzionalità e di tutela della riservatezza sanciti dall’articolo 15 della Costituzione e dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Analoga esigenza di equilibrio è emersa in relazione alle misure cautelari personali, il cui ricorso, in alcuni casi, ha finito per anticipare, di fatto, gli effetti della sanzione penale, smarrendo la propria natura di extrema ratio e incidendo sulla presunzione di innocenza prevista dall’articolo 27, secondo comma, della Costituzione.

Come decliniamo, in questi casi, il rapporto forza/diritto?

Un uso non rigorosamente selettivo di questi strumenti rischia, a ben vedere, di spostare la giurisdizione da funzione di garanzia a forma di gestione preventiva del rischio. Anche questo è un atto di potere.

Considerazioni simili, si possono estendere ai sequestri patrimoniali, la cui applicazione ha talvolta assunto un’estensione interpretativa tale da produrre effetti afflittivi prima dell’accertamento definitivo delle responsabilità individuali.

In questi ambiti, come in molti altri, possiamo dire, in estrema sintesi, che il rispetto dei limiti normativi e dei principi di legalità rappresenta la condizione essenziale per mantenere la giurisdizione entro la propria funzione di equilibrio e di garanzia.

Solo preservando la misura dell’intervento giudiziario è possibile evitare che la forza dello strumento processuale si trasformi in esercizio di potere non proporzionato, assicurando così la coerenza del sistema con i valori dello Stato di diritto.

Secondo Gustavo Zagrebelsky, la giustizia rischia di smarrire la propria misura se dimentica di essere un potere che opera nel nome dei diritti, non della verità assoluta.

Questa è la grande sfida della giurisdizione contemporanea: evitare che la giustizia si trasformi in forza, che la tutela dei diritti diventi esercizio del potere. Occorre scongiurare il rischio della “giurisdizione dell’emergenza permanente”, per usare l’icastica espressione di Glauco Giostra, una giurisdizione in cui la sospensione delle regole diventa la regola stessa e il sospetto sostituisce la prova.

È un monito severo, che deve far riflettere: quando la giurisdizione assume i tratti della forza, non solo tradisce la propria missione, ma indebolisce la fiducia dei cittadini.

Perché la fiducia non nasce dalla potenza, ma dalla misura.

La magistratura è autorevole non quando fa paura, ma quando ispira fiducia; non quando domina, ma quando convince; non quando esercita la forza, ma quando riconosce i diritti.

La magistratura si difende dentro la giurisdizione, non fuori di essa.

Si difende con la qualità delle decisioni, con la fedeltà alla Costituzione, con la sobrietà del linguaggio e del comportamento. E con la disponibilità e apertura al dialogo anche con gli altri attori istituzionali, anche con gli altri poteri dello Stato. Deve essere reciproco, certo, ma la vita ci insegna che governiamo completamente solo i nostri comportamenti.

Umberto Galimberti ci ha ricordato che il dialogo prevede che chi dialoga pensi diversamente l’uno dall’altro. Tutte le parole greche che cominciano per “dia” indicano la massima distanza; purtuttavia la condizione del dialogo è che partecipi una figura invisibile dal nome “rispetto”, che consiste nel disporsi al dialogo ipotizzando che il parere dell’altro, possa ampliare la propria visione del mondo o quantomeno abbia un gradiente di verità superiore al proprio. Se invece il dialogo non possiede queste caratteristiche, prevale la forza; Platone l’avrebbe chiamata “sopraffazione”.

La forza del magistrato è in fondo la sua responsabilità: sapere che ogni decisione pesa, che ogni parola può incidere sulla vita di una persona, che ogni atto deve essere guidato dal rispetto della dignità umana.

Le regole, se vissute con spirito di giustizia, non sono catene, ma garanzie; non sono ostacoli alla forza, ma la sua forma più alta.

In un tempo in cui serpeggia una religiosità profana che tende ad allentare il peso della libertà nelle democrazie, la giurisdizione è chiamata a un compito decisivo: restituire alla legge il suo volto umano.

Non basta applicare la norma; occorre comprenderne il senso, ascoltare il bisogno di giustizia che la attraversa, sentire la voce dei diritti che essa protegge. Sentire i bisogni dei cittadini attiene al dovere di solidarietà che deve appartenere a ciascuno di noi. Non perché si sia dalla stessa parte, ma perché si è parte dello stesso patto civile.

In fondo, questa è la forza più grande del diritto: la sua umiltà. Il diritto non grida, non impone, non minaccia. Il diritto convince, costruisce, ripara. È la forza mite di cui parlava Zagrebelsky, la forza che non distrugge ma custodisce, che non impone ma riconosce. È la forza di chi sa che la giustizia non è potere, ma servizio; non dominio, ma responsabilità.

In un tempo in cui tutto sembra gridare, il diritto deve tornare a parlare con voce ferma ma pacata. Perché la sua forza non è nella durezza, ma nella misura. E la misura, oggi più che mai, è il nome della libertà.

Genova, 10.10.2025