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LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E LA MODULAZIONE DELL’OBBLIGO DI ESERCITARE L’AZIONE PENALE:  IL PUNTO DI VISTA DELL’OSSERVATORIO D.LGS. 231/2001

LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E LA MODULAZIONE DELL’OBBLIGO DI ESERCITARE L’AZIONE PENALE: IL PUNTO DI VISTA DELL’OSSERVATORIO D.LGS. 231/2001

OSSERVATORIO 231 – SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E 231.pdf

LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E LA MODULAZIONE DELL’OBBLIGO DI ESERCITARE L’AZIONE PENALE: IL PUNTO DI VISTA DELL’OSSERVATORIO D.LGS. 231/2001[1] 

THE SEPARATION OF CAREERS AND THE MODULATION OF THE OBLIGATION TO EXERCISE CRIMINAL ACTION: THE POINT OF VIEW OF THE OBSERVATORY OF LEGISLATIVE DECREE 231/2001

La riforma dell’assetto costituzionale promossa dall’UCPI interessa anche l’ente incolpato e il suo difensore. Gli interventi promossi con Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare muovono dall’indifferibile necessità di realizzare i principi espressi nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Le stesse considerazioni ed esigenze si ripropongono nel procedimento all’ente acutizzate da un testo normativo frammentario che ha prodotto una giurisprudenza ancora meno garantista. A sostegno dell’iniziativa politica dell’UCPI si pone l’Osservatorio D.Lgs. 231/2001.

The constitutional reform promoted by the UCPI also affects the accused entity and its defender. The interventions promoted with the proposed constitutional law of popular initiative stem from the imperative need to implement the principles expressed in the Manifesto of liberal criminal law and due process. The same considerations and needs are repeated in the proceedings against the body, sharpened by a fragmentary legislative text that has produced an even less guarantee-based jurisprudence. The Observatory of Legislative Decree 231/2001 is in support of the political initiative of the UCPI.

SOMMARIO: 1. Introduzione. Le linee essenziali della Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. 1.1. I fondamenti della c.d. “separazione delle carriere”. 1.2. Il valore finale da garantire: il giusto processo. – 2. L’identità tra la funzione di accusa e quella di decisione nel procedimento penale all’ente. 2.1. Il pubblico ministero si fa giudice (e legislatore). 2.2. Il giudice si fa pubblico ministero. – 3. Conclusioni.

  1. Introduzione. Le linee essenziali della Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. I temi dell’organizzazione giudiziaria si mantengono stabilmente al centro dell’attenzione e del dibattito politico-culturale. Da tempo, avvocatura e magistratura si collocano, infatti, su posizioni antitetiche quando si affronta il delicato tema della magistratura e della sua organizzazione. Dall’ultimo decennio del secolo scorso a oggi, «la comunicazione tra queste due componenti della vita giudiziaria s’è fatta difficile e complicata». Proprio sull’organizzazione degli uffici della magistratura essa è, infatti, divenuta «terreno fertile di fraintendimenti e diffidenze reciproche»: «alla ferma determinazione degli avvocati nell’esigere la separazione delle carriere, si oppone la pervicacia della magistratura associata nel conservare lo status quo»[2].

Uno degli ultimi atti, in ordine di tempo, di questo contrasto è rappresentato dalla Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, recante «norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura», articolata e promossa dall’Unione delle camere penali italiane e presentata alla Camera dei deputati nella XVII legislatura il 31 ottobre 2017[3]. Le linee essenziali di questa Proposta sono così sintetizzabili.

  • L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere (art. 104 co. 1 Cost. come sostituito con art. 3 co. 1 della Proposta). Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente (art. 87 co. 10 Cost. come integrato con art. 1 della Proposta), debitamente separati.
  • Del Consiglio superiore della magistratura giudicante fa parte di diritto il Primo presidente della Corte di cassazione (art. 104 co. 2 Cost. come sostituito con art. 3 co. 2 della Proposta). Gli altri componenti sono scelti, per la metà, tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l’altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili (art. 104 co. 4 Cost. come sostituito con art. 3 co. 4 della Proposta). La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universitari di materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante (art. 106 co. 3 Cost. come sostituito con art. 7 co. 2 della Proposta). Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali né fare parte del Parlamento o di un Consiglio regionale o provinciale o comunale ovvero di un ente di diritto pubblico (art. 104 co. 7 Cost. come integrato con art. 3 co. 6 della Proposta). Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei giudici. Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale (art. 105 Cost. come sostituito con art. 4 della Proposta).
  • Del Consiglio superiore della magistratura requirente fa parte di diritto il Procuratore generale della Corte di cassazione. Gli altri componenti sono scelti, per la metà, tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l’altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti agli albi professionali né fare parte del Parlamento o di un Consiglio regionale o provinciale o comunale ovvero di un ente di diritto pubblico. Il Consiglio elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento (art. 105-bis come inserito con art. 5 della Proposta). Spettano al Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati requirenti. Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale (art. 105-ter Cost. come inserito con art. 6 della Proposta).
  • Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati (art. 106 co. 1 Cost. come sostituito con art. 7 co. 1 della Proposta). I magistrati giudicanti e requirenti sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione rispettivamente del Consiglio superiore della magistratura giudicante o del Consiglio superiore della magistratura requirente (art. 107 co. 1 Cost. come integrato con art. 8 co. 1 della Proposta).
  • Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge (art. 112 Cost. come integrato con art. 10 della Proposta).

1.1. I fondamenti della c.d. “separazione delle carriere”. La Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare è, principalmente, diretta a concretizzare quella che, nel dibattito sull’argomento, si tende a indicare con l’espressione “separazione delle carriere”. Per uscire da prospettazioni non adeguate dei problemi e per affrontare questa analisi in modo appropriato è utile fissare qualche premessa per sgombrare il campo da equivoci ricorrenti.

Il termine “carriere” è, invero, limitativo e non restituisce in modo preciso e completo i fondamenti della petizione di separazione. La questione non è, in breve, se i magistrati dell’accusa e quelli della decisione siano da sottoporre a regimi eterogenei per il progresso delle rispettive carriere. La questione è, in termini più ampi, se le due categorie di magistrato debbano appartenere a differenti organizzazioni di ordinamento giudiziario e, prius, personificare differenti configurazioni istituzionali[4], separando le organizzazioni ordinamentali dei magistrati dell’accusa e di quelli della decisione[5].

Sono, così, da respingere le posizioni di quanti tendono a serbare una netta distinzione tra le questioni di ordinamento giudiziario e quelle di normativa processuale penale. È, sul punto, paradigmatica la formula programmatica dell’Associazione nazionale magistrati: «riformare il processo, non il giudice» (rectius, il magistrato). Queste posizioni scontano, infatti, «un marcato errore di portata non solo teorica, ma soprattutto pratica. Secondo un grande insegnamento (da Francesco Carnelutti a Gaetano Foschini e Gian Domenico Pisapia), oggi purtroppo assai poco tenuto presente, il processo penale deve trovare la propria disciplina nell’integrazione delle norme ordinamentali e processuali. Anche da questa integrazione dipende spesso l’efficacia pratica dell’amministrazione della giustizia»[6].

Ciò precisato, la separazione delle organizzazioni ordinamentali si propone di affrontare e di risolvere un problema fondamentale: l’identità, sul piano dell’ordinamento, delle due categorie di magistrato, favorita dall’unicità organizzativa, e gli effetti, ormai intollerabili, che la stessa produce sul piano delle garanzie processuali. È appena da osservare che si tratta «non già di notazioni politico-ideologiche innocue, ma di un’opzione che informa l’operatività giudiziaria a una concreta, precisa caratterizzazione»[7].

La ragione della natura deteriore di questa caratterizzazione identitaria è, a più riprese, ribadita nella Relazione accompagnatoria alla Proposta. Essa alloca «nella figura stessa di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e pubblici ministeri. […] Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore». Il profilo di sofferenza di questa caratterizzazione identitaria «non è soltanto quello dell’“amicizia” in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: “pubblici ministeri e giudici prendono il caffè insieme” o “si danno del tu”), ma soprattutto quella dell’assenza di una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all’efficienza e all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto»[8]. In breve, l’«assunzione da parte dei magistrati […] di un’identica cultura del processo visto come strumento di contrasto al crimine» fa sì che «pubblico ministero e giudice pens[i]no entrambi di essere impegnati […] nella medesima “lotta” contro questo o quel “fenomeno criminale”»[9]. Così, «il giudice non potrà mai essere terzo»[10].

1.2. Il valore finale da garantire: il giusto processo. Il punto di partenza, nonché «cuore della progettata riforma “epocale”»[11], è infrangere l’identità, presente nell’attuale quadro costituzionale, ordinamentale e processuale, tra la funzione di accusa e quella di decisione. Infatti, le stesse «sono radicalmente incompatibili: non possono essere concepite come due sotto-funzioni di una medesima funzione e neppure possono vedere gli organi dell’una e dell’altra accomunati in un’unica organizzazione ordinamentale»[12]. Dunque, solo mediante la separazione delle organizzazioni «sarà preservata quella condizione essenziale che i pensatori dell’illuminismo, cultori della separazione dei poteri, chiamavano “inimicizia”, ovvero quel sentimento che fa sì che un potere controlli l’altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni»[13].

Il valore finale da garantire è, quindi, il giusto processo nell’essenzialità sancita all’art. 111 Cost.[14]. In definitiva, «la separazione delle carriere serve a rendere il processo penale più equo»[15], «senza coltivare partigianerie di sorta e senza piegarsi a esigenze e interessi della più varia natura»[16].

2.L’identità tra la funzione di accusa e quella di decisione nel procedimento penale all’ente. Quelle appena cennate sono – rectius, dovrebbero essere – cose risapute. Tuttavia, le prassi giurisprudenziali, «nel succedersi di vicende inesauste e invero esasperanti di rinnovamenti e di riflussi, non consentono di figurare assetti consolidati su cui adagiarsi»[17]. Ciò, per vero, nel contesto del procedimento penale a carico tanto della persona fisica quanto di quella giuridica. Rispetto a quest’ultima in misura più patente, inter alia, in sede di annotazione dell’illecito amministrativo (art. 55 d.legisl. 231/2001)[18] e di decisione (artt. 66-70). È in queste sedi che sembra, infatti, profilarsi, più visibilmente, il problema del difetto di separazione tra magistrati di accusa e di decisione.

2.1. Il pubblico ministero si fa giudice (e legislatore). Alla luce degli unici dati disponibili e al netto delle inevitabili approssimazioni, risulta, rispetto all’annotazione dell’illecito amministrativo, quanto segue.

Nel 2013, a fronte di 955.236 procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato a carico di persone fisiche adulte, risultano annotati nel medesimo registro 492 procedimenti a carico di enti. Nel 2014, a fronte di 1.005.824 procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato a carico di persone fisiche adulte, risultano annotati nel medesimo registro 473 procedimenti a carico di enti. Nel 2015, a fronte di 972.964 procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato a carico di persone fisiche adulte, risultano annotati nel medesimo registro 427 procedimenti a carico di enti[19].

Anche atteso che non tutti i reati sono anche reati-presupposto della responsabilità dell’ente, il rapporto non varia in misura apprezzabile. Preso, infatti, ad esempio il delitto di corruzione, che dal 2001 è anche reato-presupposto, emerge quanto segue. Nel 2013, a fronte di 1.009 procedimenti definiti nei confronti di persone fisiche adulte imputate di corruzione, risultano definiti 483 procedimenti nei confronti di enti incolpati degli illeciti amministrativi di cui all’art. 25[20]. Nel 2014, a fronte di 1.091 procedimenti definiti nei confronti di persone fisiche adulte imputate di corruzione, risultano definiti 464 procedimenti nei confronti di enti incolpati degli illeciti amministrativi di cui all’art. 25. Nel 2015, a fronte di 1.042 procedimenti definiti nei confronti di persone fisiche adulte imputate di corruzione, risultano definiti 249 procedimenti nei confronti di enti incolpati degli illeciti amministrativi di cui all’art. 25[21].

Valutato, comunque, il numero incredibilmente cospicuo degli attuali reati-presupposto della responsabilità dell’ente, il macro-dato che spicca è il seguente. L’ente risulta annotato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. nel 2013 nello 0,052% dei casi, nel 2014 nello 0,047% dei casi e nel 2015 nello 0,044% dei casi[22].

La magistratura requirente sostiene che il «trend [per cui] il numero [di annotazioni dell’illecito amministrativo] appare molto inferiore a quello dei c.d. reati “presupposto” […] deriva, in primo luogo, dalla scelta operata da molti P.M. di ritenere discrezionale l’iscrizione della persona giuridica […] tenendo presente che tale opzione è avallata da parte della dottrina che riconduce la discrezionalità alla natura amministrativa del relativo procedimento ex 231»[23].

Nondimeno, la dizione letterale dell’art. 55 co. 1[24] «richiede, quale unico elemento per far sorgere in capo al p.m. l’obbligo di annotazione, l’acquisizione di una notizia per uno dei reati presupposto della responsabilità degli enti contemplati dal decreto legislativo agli artt. 24-25-[sexiesdecies], ritenendo applicabile, anche con riguardo alla annotazione, i canoni elaborati in relazione alla corrispondente disciplina codicistica, secondo la quale, ai fini dell’iscrizione ex art. 335 c.p.p., basta un minimo di concretezza e di specificità, sufficiente a consentire di individuare nel fatto oggetto dell’informazione gli elementi essenziali di un reato, anche meramente ipotetico. Conseguentemente, ed analogicamente, l’annotazione dell’illecito amministrativo presupporrebbe soltanto l’ipotetica configurabilità a carico dell’ente di una responsabilità dipendente da reato, situazione che ricorrerebbe ogni qual volta una persona fisica, qualificata dalla posizione ricoperta in seno all’ente, ponga in essere uno dei reati di cui agli artt. 24-25-[sexiesdecies], senza che risulti l’esclusiva destinazione a proprio favore dei vantaggi conseguiti attraverso l’ipotizzata condotta criminosa»[25].

In conclusione, atteso che «il co. 1° dell’art. 55 ricalca sostanzialmente il co 1° dell’art. 335 c.p.p., che impone al p.m. di iscrivere immediatamente nell’apposito registro ogni notizia che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa […] il p.m. è tenuto ad annotare immediatamente nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. tutte […] le informazioni che costituiscono illeciti amministrativi»[26]. Né potrebbe essere altrimenti, attesi la chiarezza testuale dell’art. 55 co. 1 e il vincolo esegetico, comunque, posto dall’art. 12 co. 1 disp. prel., a norma del quale «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore»[27]. L’art. 55 andrebbe, dunque, interpretato «assimila[ndo] il significato proprio delle parole al significato letterale» o al «significato appropriato, adeguato della disposizione normativa», tenendo conto «della sintassi, ossia […] la relazione che intercorre tra le parole che compongono [l’]enunciato normativo», e «dell’intenzione comunicativa del legislatore, senza associarvi necessariamente uno o più scopi»[28].

Ciò posto, non è questa la sede per entrare nel merito del dibattito circa l’opportunità – rectius, l’inopportunità, che l’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI fermamente censura – dell’opzione legislativa di prevedere l’annotazione generalizzata di ogni categoria di ente incolpato, senza, cioè, tenere conto, ad esempio, del suo carattere dimensionale. Qui interessa, piuttosto, formulare un quadruplice ordine di apprezzamenti, in considerazione di quanto sopra.

In primo luogo, all’opposto di quanto sostenuto dalla magistratura requirente, la «scelta originaria del legislatore della responsabilità amministrativa» non «lascia ampio spazio [alcuno] alla discrezionalità delle iscrizioni»[29].

In secondo luogo, e conseguentemente, la «scelta operata da molti P.M. di ritenere discrezionale l’iscrizione della persona giuridica»[30] è compiuta al di fuori dei «confini tracciati congiuntamente dalle regole»[31] dell’ermeneutica e si rivela, quindi, non «discrezionale ma […] arbitraria»[32]. Ciò a dispetto dei dettati dell’art. 73 l. ord. giud. – a mente del quale «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche […]» – e, prius, dell’art. 97 co. 1 Cost. (stabilito con riguardo agli uffici della pubblica amministrazione, ma che non può non valere anche per quelli giudiziari) – a norma del quale «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»[33].

In terzo luogo, «il ragionamento che sino ad oggi si è fatto che, per effettuare l’iscrizione, il P.M. deve prima verificare l’interesse o l’utilità dell’ente», oltre a essere vuoto di qualsivoglia fondamento normativo, rivela una discutibile interversione anzitempo del pubblico ministero da magistrato dell’accusa a quello della decisione. Infatti, «tale valutazione deve seguire e non precedere l’iscrizione (anche per permettere all’ente di difendersi) e comunque riguarda il merito della responsabilità che, qualora non venisse ritenuta, può e deve dare luogo all’archiviazione»[34]. Invece, in sede di annotazione dell’illecito amministrativo, «“un giudice che non è giudice” (in quanto privo del fondamentale requisito costituzionale della terzietà) […] governa […] questi spazi smisurati: li crea, li alimenta o li elimina a suo piacimento. Giovandosi della ricerca del consenso, pur non essendo eletto»[35]. «A parte i principi generali che attengono all’obbligatorietà dell’azione penale, questa scelta […] porta […] ad inammissibili disparità di trattamento»[36], in quanto la selezione dell’ente da annotare e di quello da “risparmiare” è, oggi, lasciata in balia delle scelte politiche – auto-concesse, arbitrarie e incontrollate – di un pubblico ministero «paragiudice»[37]. Scelte che possono tradursi nell’astensione dalle investigazioni nei confronti dell’ente “x” o nel mancato perseguimento di certi illeciti amministrativi o, all’opposto, nel perseguimento discrezionale dell’ente “y”[38]. «Una discrezionalità che con il tempo è divenuta sempre più visibile anche a causa delle crescenti dimensione e complessità dei fenomeni criminali»[39]. Che fine fa, però, l’eguaglianza, anche degli enti, di fronte alla legge penale?

In quarto e ultimo luogo – e, forse, più gravemente – la soluzione prospettata dalla magistratura requirente – «è in corso di studio una circolare che regolamenterà oggettivamente ed in maniera uniforme le iscrizioni»[40] – palesa un magistrato dell’accusa che tende a identificarsi, oltreché a quello della decisione, anche al legislatore stesso. Cioè un magistrato dell’accusa che, «governando la politica, pur essendo un funzionario […] [si] colloca […], di fatto, al vertice della produzione normativa, pur essendo un “burocrate”»[41].

In sintesi, risorse inevitabilmente limitate rispetto alla domanda di giustizia paiono implicare criteri di selezione tra le notizie di illeciti amministrativi dipendenti da reato da perseguire e quelle da pretermettere. In difetto di criteri di legge, la situazione attuale è, tuttavia, caratterizzata «dalla discrezionalità libera, cioè dall’arbitrio, delle singole Procure, che seguono criteri propri, talvolta dichiarati […] ma generalmente taciuti». Questa situazione contravviene anche all’art. 112 Cost. Anzi, «lo mette nel nulla»[42]. Perciò, «non sembra possa essere più a lungo lasciata alle dinamiche locali […] la fissazione di regole atte a definire rigorosi “paletti”»[43] in tema di annotazione e di contestazione dell’illecito amministrativo.

Il principio dell’obbligatorietà dell’annotazione e della contestazione dell’illecito amministrativo, nel significato con cui è asserito agli artt. 55 e 59, non richiede che per ogni notizia di illecito amministrativo dipendente da reato corrisponda un procedimento, bensì che, in base al principio di legalità declinato all’art. 2, questa selezione fosse condotta in modo trasparente sulla sola base di criteri stabiliti dalla legge. Anche di ciò si fa carico, all’art. 10, la Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare[44].

La determinazione per legge di questi criteri non esprime, peraltro, una compressione dell’indipendenza funzionale esterna del magistrato dell’accusa[45]. Essa, al contrario, riporta la disciplina «entro la sfera della legalità, secondo la categoria della discrezionalità vincolata: una situazione di dovere determinato […] da valutazioni che in concreto il pubblico ministero deve svolgere sulla base di criteri di legge»[46].

2.2. Il giudice si fa pubblico ministero. Per converso, in sede di decisione, qualsivoglia struttura essa assuma[47], il giudice, anche a fronte di norme la cui formulazione è piuttosto ambigua e i cui significati risultano pure molto vaghi, incomprensibilmente inverte i fattori e frequentemente privilegia un’interpretazione stretta o strettissima. Si attiene, cioè, «al significato letterale, inteso come il significato più ovvio […], più immediato della disposizione normativa»[48]. Rinuncia, dunque, a reperire nell’articolato del d.legisl. 231/2001 significati congruenti rispetto a quelli espressi da altre norme del sistema giuridico[49] o dalla costruzione concettuale operata dalla dottrina[50] e, quindi, una coerenza logica di insieme.

In questo senso, si appunta l’indirizzo maturato nella giurisprudenza prevalente in tema, ad esempio, di contestazione dell’illecito amministrativo (art. 59) e di valutazione dei modelli di organizzazione e di gestione (artt. 6 e 7).

Quanto al primo aspetto, il giudice spesso tende ad accontentarsi di una contestazione dell’illecito amministrativo pressoché esangue e interamente impostata sulla sola tecnica del richiamo dell’imputazione della persona fisica. Ciò con buona pace di quanto prescritto all’art. 59 co. 2, a mente del quale la contestazione deve, invece, contenere, oltre agli elementi identificativi dell’ente e all’indicazione del reato da cui l’illecito dipende e dei relativi articoli di legge, anzitutto «l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative» e «l’indicazione […] delle fonti di prova». È, infatti, in forza di un’interpretazione letterale stretta dell’art. 6 co. 1 che il giudice tende ad attribuire, in via esclusiva, all’ente incolpato, anziché al pubblico ministero, l’onere di riconoscere gli elementi costitutivi della potenziale colpa di organizzazione, per, poi, organizzare su di essi la strategia difensiva.

Ex plurimis: «è proprio l’esplicita previsione dell’inversione dell’onere della prova che induce a ritenere il reato già perfetto e completo in tutti i suoi elementi costitutivi allorquando ricorrano le condizioni di cui all’art. 5: reato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di soggetto che rivesta al suo interno una posizione apicale[51]. Diversamente opinando, la prova dell’elemento costitutivo dell’illecito dovrebbe essere fornita, secondo le ordinarie regole, dall’accusa, mentre aver attribuito l’onere probatorio della sussistenza delle ridette condizioni alla persona giuridica ne evidenzia la loro natura di elemento impeditivo e cioè idoneo a paralizzare le conseguenze giuridiche connesse alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito. Quando il reato è commesso da un soggetto apicale il requisito soggettivo di responsabilità dell’ente è soddisfatto, giacché il vertice rappresenta ed esprime la politica di impresa. L’illecito amministrativo è, dunque, perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi. Ove così non fosse, dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, provando la sussistenza di una serie di condizioni concorrenti: l’assenza di una colpa di organizzazione, attraverso l’adozione di modelli operativi idonei ed efficaci; la vigilanza sulla effettiva operatività dei modelli e sulla loro osservanza; ma soprattutto dovrà dimostrare che il comportamento integrante il reato sia stato commesso dal suo vertice eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione, nonché l’attività di vigilanza, agendo infedelmente contro l’interesse dell’ente al suo corretto funzionamento. Non è sufficiente che si dia la prova dell’infedeltà dell’apice, occorre altresì che non sia ravvisabile alcuna colpa da parte dell’ente, il quale deve fornire la prova di avere adeguatamente vigilato, attraverso l’organo di vigilanza, al fine di assicurare la conformità delle decisioni dell’apice agli standard di legalità preventiva». In definitiva, «l’enunciato normativo è esplicito nel prevedere che tutte le concorrenti condizioni contemplate nelle lettere a), b), c) e d) dell’art. 6 comma 1, idonee ad esentare l’ente da responsabilità, siano oggetto di un onere della prova a carico dell’interessato (“l’ente non risponde se prova che”)»[52].

Adottando, nondimeno, criteri ermeneutici di coesione e di conformità sistemiche, può, invece, registrarsi che «la contestazione dell’illecito svolge inequivocabilmente, rispetto all’ente, l’identica funzione assegnata dall’ordinamento processualpenalistico all’imputazione rispetto alla persona fisica, così da potersi tranquillamente affermare che la stessa definisce l’oggetto del processo, delimitando i confini dell’accertamento e conseguentemente consentendo effettivo e concreto esercizio del diritto inviolabile di difesa»[53]. Se così è, come si crede, la contestazione ex art. 59 dovrebbe contenere, a «prescinde[re] dal riferimento ai singoli e diversi atti di esercizio dell’azione penale»[54], «l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative», che è la colpa di organizzazione e, propriamente, lo specifico deficit organizzativo[55].

Quanto al secondo profilo, il giudice, in forza, ancora una volta, di un’interpretazione letterale stretta dell’art. 6, tende a considerare sempre integrata la colpa di organizzazione in caso di mancata o di imperfetta adozione o attuazione di un formale modello di organizzazione e di gestione. Tende, cioè, a non concedere all’ente, in caso di incolpazione per un reato-presupposto che si presume commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, di dimostrare in altro modo la corretta gestione organizzativa dei rischi aziendali in funzione esimente della responsabilità da reato.

Ex plurimis: «si deve considerare che il legislatore, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale. Tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. Non ottemperare a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa di organizzazione»[56]. A fortiori ratione: «il rilievo di tale colpa di organizzazione si estrinseca […] nella mancanza di modelli di organizzazione e gestione, idonei a prevenire la commissione di reati […]. Cioè, l’ente non risponde del reato, se prova di avere adottato tali modelli, corredati di organismo di controllo ad hoc e l’onere di fornire tale dimostrazione incombe integralmente sulla difesa […]. Nel caso di specie […] non è mai esistito alcun modello organizzativo […], né esso è stato adottato […] dopo la scoperta dei fatti per cui si procede. Cosicché la questione è chiusa»[57].

Sempre in ragione di canoni esegetici di aggregazione e di concordanza sistemiche, questa tesi non è, tuttavia, da condividere. Il punto merita, infatti, un rapido chiarimento.

Vero è che il rischio che l’ente possa commettere illeciti amministrativi e possa esporsi alle conseguenti sanzioni non può, «a differenza di altri rischi di perdita derivanti dal fisiologico gioco del mercato, […] essere semplicemente “accettato” in base a una mera valutazione costi e benefici, ma deve essere senz’altro presidiato sì da ridurlo al minimo (per quanto possibile)»[58]. Ugualmente vero è che, nella materia in argomento, «il modello organizzativo sia uno strumento posto a tutela di interessi pubblici, che ovviamente non sono nella libera disponibilità degli amministratori»[59].

Fermo, dunque, che i rischi-reato vanno ridotti il più possibile, ciò può, nondimeno, avvenire anche mediante soluzioni organizzative diverse rispetto all’adozione di un formale modello di organizzazione e di gestione ex artt. 6 e 7[60], che appare, quindi, come «una delle possibili modalità di corretta gestione preventiva dei reati»[61], talora neppure preferibile in relazione alla singola realtà[62]. Pure essendo gli amministratori vincolati nell’an della valutazione e della mitigazione, entro soglie di accettabilità, dei rischi-reato, gli stessi conservano, infatti, una certa discrezionalità nella scelta del quomodo[63]. Detto altrimenti, «a parità di risultato finale (ovvero di riduzione al minimo del rischio) è ben possibile selezionare misure organizzative più in linea con le esigenze dell’impresa, evitando l’adozione del modello organizzativo ex artt. 6-7 in tutti i casi in cui il relativo contenuto “minimo” sia ultroneo rispetto alle concrete esigenze di prevenzione»[64].

Dunque, l’adozione di un formale modello di organizzazione e di gestione «non solo non costituisc[e] un obbligo (giuridicamente sanzionato in sé), ma neanche l’unica modalità operativa […] attraverso la quale l’ente può adempiere all’obbligo di corretta direzione e vigilanza». Ne consegue, in conclusione, che «l’assenza o la ritenuta inidoneità (cartacea) del modello organizzativo non dovrebbe comportare, ipso iure, il riconoscimento della colpa di organizzazione in capo all’ente, che “nei fatti” potrebbe avere adeguatamente adempiuto comunque agli obblighi di vigilanza, attraverso controlli o prassi operative in concreto applicate nelle dinamiche aziendali, sebbene non adeguatamente formalizzate e recepite nell’ambito di specifici modelli di organizzazione»[65].

Volendo tirare le somme rispetto alle disfunzioni processuali del tipo di quelle che si sono sopra esemplificate, l’analisi dello scenario esibito dalla pratica giudiziaria nell’ultimo ventennio di applicazione del d.legisl. 231/2001 evidenzia questo dato. In sede di valutazione dei modelli di organizzazione e di gestione, il giudice, muovendo dalla contestazione dell’illecito amministrativo, tende ad “appiattirsi” sulle asciutte petizioni del pubblico ministero. Ciò documentano le sentenze di condanna ex art. 69, numericamente preminenti rispetto alle sentenze di esclusione della responsabilità dell’ente ex art. 66, abitualmente corredate di motivazioni telegrafiche e “in miniatura”.

In breve, quali che siano le reali dinamiche del caso particolare, «ciò che emerge è la mancanza di autorevolezza dell’effettività del controllo giurisdizionale, non percepito come affidabile» nella fase di valutazione della colpa di organizzazione e, propriamente, dello specifico deficit organizzativo. «Non c’è dubbio». Casi singoli, quelli menzionati, «sovraespost[i], esplicitat[i] anche in modo inesorabile, ma emblematic[i] di una realtà diffusa», in cui gli enti incolpati e i loro difensori «subiscono troppo spesso il cosiddetto “appiattimento” del giudice sul pubblico ministero a causa della carenza di controllo giurisdizionale, non compensata da forze di bilanciamento esterne al processo»[66]. «Non c’è niente di più marcatamente partisan di questo modo di procedere»[67], che indubbiamente va, al postutto, a incidere in maniera decisiva sulla possibilità di concreto ed effettivo esercizio del diritto di difesa dell’ente. Ma tutto ciò, lo si ribadisce, è patologia.

3.Conclusioni. Il testo del d.legisl. 231/2001 è incredibilmente ricco di criticità. Si tratta di una legge «incerta, priva di organica sistematicità: anzi, è lo stesso legislatore che, incapace di sciogliere importanti nodi di disciplina, affida decisioni salienti alla concreta applicazione della magistratura»[68]. Il d.legisl. 231/2001 e, a nostra scienza, tutte le leggi straniere che disciplinano la responsabilità dell’ente sono tutt’altro che perfette. L’evidenza è, da tempo, consolidata e anzitutto su di essa si appunta il lavoro di proposta riformatrice dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI.

L’imperfezione del d.legisl. 231/2001 è, tuttavia, solo in piccola parte la causa del gravissimo stato di cose sopra ritratto. Ciò occorre, alla soglia del ventennio di vigenza del d.legisl. 231/2001, dirselo con franchezza, apertis verbis. La presunta discrezionalità dell’annotazione dell’illecito amministrativo, la tendenza, in sede di sua contestazione, a non enunciare, in forma chiara e precisa, gli elementi identificativi dell’illecito dell’ente dipendente da reato della persona fisica e la valutazione della colpa di organizzazione unicamente in termini di adozione ed efficace attuazione di un formale modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, senza, cioè, darsi la pena di indagare le concrete dinamiche aziendali che operano oltre i confini del mero formalismo cartolare della c.d. paper compliance policy, descrivono, infatti, il risultato non già – o, quanto meno, non primariamente – di un difetto nelle norme, bensì dell’atteggiamento, sopra tratteggiato, ricorrente, in misura capillare, tra i magistrati dell’accusa e quelli della decisione. Il problema non è, quindi, solo di leggi, ma anche di magistrati. È qui che il discorso si fa difficile e delicato perché mette in comunicazione premessa e conclusione.

Questo atteggiamento (di “laissez faire, laissez passer” rispetto alla pretesa discrezionalità dell’annotazione dell’illecito amministrativo e alla volatilità della relativa contestazione, da un lato, e di ostinazione verso una forma di responsabilità dell’ente conchiusa entro il solo perimetro di un formale modello di organizzazione e di gestione, dall’altro lato) ha, infatti, almeno una causa e un effetto.

La causa dell’atteggiamento di “assistenza biunivoca” intercorrente tra magistrati dell’accusa e della decisione nell’ambito del procedimento penale a carico dell’ente è, ineluttabilmente, destinata a rintracciarsi «nella figura stessa di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e pubblici ministeri. […] Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore». Ciò che difetta è, cioè, «una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all’efficienza e all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto». Quella «“inimicizia” […] che fa sì che un potere controlli l’altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni»[69].

L’effetto dell’assimilazione tra magistratura requirente e giudicante è tutto a detrimento della difesa dell’ente. Quanto all’annotazione dell’illecito amministrativo, le sorti procedimentali dell’ente in termini di incolpazione sono, infatti, indivisibilmente avvinte al grado di profondità, imperscrutabile e pienamente discrezionale, della c.d. “cultura della legalità” del singolo pubblico ministero[70]. Quanto, invece, alla contestazione dell’illecito amministrativo e alla valutazione dei modelli di organizzazione e di gestione, la difesa dell’ente, moderno Don Chisciotte della Mancia, si trova a scontrarsi contro “giganti invisibili” (i.e. la contestazione che non esplicita i criteri oggettivi e soggettivi di incolpazione e l’insanabile pregiudizio tale per cui l’avvenuta consumazione stessa del reato-presupposto certificherebbe l’inidoneità del formale modello di organizzazione e di gestione[71]), riducendosi, così, a mero flatus vocis[72]. Ne consegue, all’evidenza, il rovesciamento del principio secondo cui, «nel processo penale liberale, la condanna dell’imputato [sia esso persona fisica o giuridica] può essere pronunciata solo quando la sua responsabilità – così come ogni altro elemento da cui dipende la misura della pena – sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio, altrimenti l’imputato [persona fisica o giuridica] deve essere prosciolto»[73].

Per tutto quanto sopra espresso, l’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI, anche rilevato lo straordinario potere di condizionamento delle sorti dell’impresa e dell’economia in generale fisiologicamente connesso al diritto penale e alle consuetudini mediatiche che lo sostengono e ferma restando la cennata necessità di porre mano al testo del d.legisl. 231/2001 mediante una riforma ragionata, organica e sistemica della disciplina della responsabilità dell’ente, indica nella separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante la precondizione per ricondurre a conformità costituzionale anche la disciplina di tale responsabilità.

L’Osservatorio UCPI sul D.Lgs. 231/2001

[1] Il presente articolo è stato scritto da Vittore d’Acquarone, avvocato del foro di Verona, solicitor UK e co-responsabile dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’Unione delle camere penali italiane, e da Riccardo Roscini-Vitali, avvocato del foro di Verona e cultore della materia in diritto processuale penale presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Verona, è stato revisionato dal delegato di Giunta, avv. Daniele Ripamonti, e dal co-responsabile dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI, avv. prof. Giulio Garuti, ed è stato condiviso dai componenti dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001.

[2] R. ORLANDI, La separazione delle carriere. Opinioni a confronto, in Criminalia, 2008, p. 217. Sul punto, cfr. anche G. SPANGHER, Riforma dell’ordinamento giudiziario e separazione delle carriere, in Giust. pen., 6, 1, 2003, c. 162.

[3] Il testo della Proposta è consultabile sul sito web dell’UCPI: www.camerepenali.it.

[4] Sul punto, cfr. O. DOMINIONI, Giudice e pubblico ministero. Le ragioni della “separazione delle carriere”, in Foro amb., 3, 2005, p. 361.

[5] Per un breve catalogo definitorio utile per una migliore comprensione dei termini del problema qui affrontato, cfr., ad memoriam, G. SPANGHER, Riforma dell’ordinamento giudiziario e separazione delle carriere, cit., c. 162. Ivi, l’Autore annota, infatti, la classificazione proposta in dottrina da C.L. KUSTERMANN, Unità e separazione delle carriere nella riforma costituzionale, in Giust. pen., 3, 1998, p. 193. Peraltro, per la separazione delle carriere non sussistono ostacoli di natura costituzionale, risultando un’eventuale opzione legislativa in tale senso pienamente conforme alle norme di tutela della magistratura poste dalla Carta costituzionale. I giudici costituzionali stessi annotano, infatti, che la Costituzione, «pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto a poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che […] precluda la configurazione di […] carriere separate tra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle una alle altre funzioni» (C. cost., 3 febbraio 2000, n. 37, in Giur. cost., 2000, p. 289).

[6] O. DOMINIONI, La separazione delle carriere. Opinioni a confronto, in Criminalia, 2008, p. 218. Sul punto, cfr. anche G. SPANGHER, op. cit., c. 162.

[7] O. DOMINIONI, La separazione delle carriere. Opinioni a confronto, cit., p. 219.

[8] Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, cit., p. 2.

[9] Sul punto, cfr.: E. AMODIO, Separazione delle carriere e imparzialità del giudice: un circolo virtuoso, in Processo penale e giustizia, 1, 2011, p. 4; O. DOMINIONI, La separazione, cit., p. 219; O. DOMINIONI, Giudice e pubblico ministero. Le ragioni della “separazione delle carriere”, cit., p. 370. Emblematico di questa visuale è, in giurisprudenza, quanto statuito da C. cost., 23 aprile 1975, n. 96, in Foro it., 1975, c. 1616, che è utile richiamare in tutta la sua articolazione: «nel concetto di giurisdizione al quale fa riferimento l’art. 102 Cost., deve intendersi compresa non solo l’attività decisoria, che è peculiare e propria del giudice, ma anche l’attività di esercizio dell’azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia e che l’art. 112, appunto, attribuisce al P.M. E nell’esplicazione di tale potestà d’iniziativa, rientrano tutte le attività di natura istruttoria che il P.M. svolge, perché necessarie alla acquisizione di elementi utili per porsi in grado di esercitare l’azione penale. Tali attività – proprio in quanto costituiscono esercizio di giurisdizione (in senso lato) da parte di un organo che è, comunque, un Magistrato – risultano pienamente compatibili con il sistema delineato dalla Costituzione. Il P.M. – anche se non è investito del potere decisorio onde non può qualificarsi giudice in senso stretto – è, comunque, anch’egli un Magistrato, come dimostra la collocazione degli articoli della Costituzione che lo riguardano (in particolare da 104 a 107) nel titolo IV de “La Magistratura” e financo nella sez. I de “L’Ordinamento giurisdizionale”. Egli è collocato in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere e non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia».

[10] Proposta, cit., p. 3. Sul punto, cfr. anche: O. DOMINIONI, La separazione, cit., p. 219; UCPI, Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, in www.camerepenali.it, 7 maggio 2019, c. 38, che statuisce, al pr. 25, che, «nel processo penale liberale, nel “giusto processo”, il diritto di difesa della persona imputata o sottoposta a indagine assume la massima estensione. Tale modello rifiuta l’idea di poteri attribuiti, a titolo di soccorso, al giudice o all’organo dell’accusa; colloca il giudice in posizione di rigorosa imparzialità, il cui presupposto essenziale è la terzietà, ossia la distinzione – sul piano dell’ordinamento prima ancora che del processo – tra la figura del giudice e quella di chi svolge la funzione di accusatore. Il processo liberale punta ad assicurare alla difesa le più ampie prerogative, così da eliminare ogni squilibrio rispetto a quelle di chi sia incaricato delle funzioni d’accusa».

[11] G. MARINUCCI, Sulla progettata riforma della Costituzione (Titolo IV), in Riv. it. dir. e proc. pen., 4, 2011, p. 1361.

[12] G. SPANGHER, op. cit., c. 164.

[13] Proposta, cit., p. 3.

[14] Sul punto, cfr.: G. MARINUCCI, Sulla progettata riforma della Costituzione (Titolo IV), cit., p. 1361; G. SPANGHER, op. cit., c. 165.

[15] Proposta, cit., p. 1. Sul punto, si sono autorevolmente espressi anche G. CONSO, Intervento del 2009 al Congresso dell’Unione delle camere penali italiane di Torino, in Proposta, cit., p. 4 e G. FALCONE, Intervista al quotidiano La Repubblica del 3 ottobre 1991, in Proposta, cit., p. 5.

[16] O. DOMINIONI, Giudice, cit., p. 358. Sul punto, cfr. anche: O. DOMINIONI, La separazione, cit., p. 218; G. SPANGHER, op. cit., c. 162.

[17] O. DOMINIONI, Giudice e pubblico ministero. Le ragioni della “separazione delle carriere”, cit., p. 360.

[18] Il riferimento al numero di un articolo non seguito da altra indicazione va normalmente inteso come rinvio a un articolo del d.legisl. 8 giugno 2001, n. 231 (e successive modificazioni). In sede di annotazione dell’illecito amministrativo valgono le medesime perplessità già espresse dalla dottrina rispetto all’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato. Sul punto, cfr. F. SGUBBI, Alcuni riflessi della riforma sulla pratica penale, in Foro it., 1, 5, 2006, cc. 9-10.

[19] I dati sono estratti dal raffronto tra ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Delitti, imputati e vittime dei reati. La criminalità in Italia attraverso una lettura integrata delle fonti sulla giustizia. Riedizione con dati aggiornati, in www.istat.it, 22 gennaio 2021, p. 82 e MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – DIREZIONE GENERALE DI STATISTICA E ANALISI ORGANIZZATIVA, Procedimenti iscritti e definiti nei tribunali italiani sezione GIP/GUP negli anni 20132015 inerenti alla responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato (ex d.l. 231/2001), p. 1 (documento chiesto e ottenuto dall’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI).

[20] Il riferimento univoco all’art. 25, che include reati-presupposto aggiuntivi rispetto alla corruzione per l’esercizio della funzione (i.e. artt. 317, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p.), autorizza a ritenere che il numero di procedimenti definiti nei confronti di enti incolpati dell’illecito amministrativo dipendente dall’art. 318 c.p. sia, in realtà, perfino minore rispetto a quello indicato.

[21] I dati sono estratti dal raffronto tra ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Delitti, imputati e vittime dei reati. La criminalità in Italia attraverso una lettura integrata delle fonti sulla giustizia. Riedizione con dati aggiornati, cit., p. 93 e MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – DIREZIONE GENERALE DI STATISTICA E ANALISI ORGANIZZATIVA, Procedimenti iscritti e definiti nei tribunali italiani sezione GIP/GUP negli anni 20132015 inerenti alla responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato (ex d.l. 231/2001), cit., p. 1.

[22] I fattori non variano a livello locale. L’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI, ritenendo che il punto di partenza del proprio lavoro di studio della materia fosse l’analisi delle concrete prassi applicative adottate dagli uffici giudiziari nei territori di rispettiva competenza, ha, infatti, formulato, nell’intento di raccogliere queste informazioni sul territorio nazionale, istanza alle Procure della Repubblica, chiedendo alle stesse il rilascio dei dati in loro possesso in tema, inter alia, di annotazione degli illeciti amministrativi ex art. 55. L’unica Procura della Repubblica che ha, allo stato attuale, riscontrato, in termini intellegibili, l’istanza formulata dall’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI è stata quella di Genova. Dai dati rilasciati da quest’ultima risultano annotati nel registro delle notizie di reato 11 procedimenti a carico di enti nel 2017, 7 procedimenti a carico di enti nel 2018 e 19 procedimenti a carico di enti nel 2019.

[23] PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2012-2013, in www.procura.milano.giustizia.it, p. 31, che pure critica l’orientamento anche dei propri pubblici ministeri: «a parte i principi generali che attengono all’obbligatorietà dell’azione penale, questa scelta potrebbe portare ad inammissibili disparità di trattamento». Sul punto, cfr. anche: PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2013-2014, in www.procura.milano.giustizia.it, p. 41, secondo cui «questa situazione deriva, in primo luogo, dall’interpretazione, nel senso della discrezionalità dell’iscrizione della persona giuridica»; PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2014-2015, in www.procura.milano.giustizia.it, p. 57, che imputa «questo trend negativo dell’applicazione della responsabilità della persona giuridica […] a plurimi fattori quali la difficoltà nel suo accertamento, l’aumento di soggetti processuali in procedimenti già di per sé complessi, l’aumento dei tempi processuali che genera nei procedimenti a rischio di prescrizione e altro», comunque manifestando preoccupazione («è di tutta evidenza la gravità e la conseguente preoccupazione che deriva dall’aumento dello spread tra reati presupposti ed iscrizioni […] questi dati indicano il concreto rischio di un declino dell’istituto che, invece, doveva rivoluzionare e contraddistinguere il rapporto tra giurisdizione ed economia […]. Tuttavia, si resta dell’opinione che tale istituto sia centrale e attuale nel definire l’area del contrasto alla criminalità economica che spesso si caratterizza per essere motivata unicamente dall’interesse delle società»); PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2016, in www.procura.milano.giustizia.it, p. 37, secondo cui «la ragione di fondo è che l’iscrizione della persona giuridica è ritenuta ancora una valutazione discrezionale anche se, ad esempio nel caso di responsabilità degli apicali, dovrebbe essere effettuata di default. […] Non può essere ritenuto congruo il ragionamento che sino ad oggi si è fatto che, per effettuare l’iscrizione, il P.M. deve prima verificare l’interesse o l’utilità dell’ente. Infatti, tale valutazione deve seguire e non precedere l’iscrizione (anche per permettere all’ente di difendersi) e comunque riguarda il merito della responsabilità che, qualora non venisse ritenuta, può e deve dare luogo all’archiviazione»; PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2017, in www.procura.milano.giustizia.it, p. 86, secondo cui «la flessione delle iscrizioni degli enti ha diverse motivazioni che rischiano, complessivamente, di portare al fallimento, a 17 anni dall’entrata in vigore della norma, un istituto importante e decisivo che ha svolto un indubbio ruolo di ammodernamento del sistema delle imprese. Occorre intervenire sulla scelta originaria del legislatore della responsabilità amministrativa che lascia ampio spazio alla discrezionalità delle iscrizioni […]». In dottrina, cfr.: M. BARESI, Commento all’art. 55, in A. PRESUTTI – A. BERNASCONI – C. FIORIO (a cura di), La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d. legisl. 8 giugno 2001, n. 231, Cedam, 2008, pp. 488-489; G. PAOLOZZI, Vademecum per gli enti sotto processo. Addebiti “amministrativi” da reato (Dal d.lgs. n. 231 del 2001 alla legge n. 146 del 2006), Giappichelli, 2006, p. 125; L. PISTORELLI, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare nel procedimento per l’accertamento della responsabilità degli enti giuridici da reato, in A. ALESSANDRI – H. BELLUTA – R. BRICCHETTI (a cura di), La responsabilità amministrativa degli enti. Il D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Ipsoa, 2002, p. 302; I. TAGLIANI, Morfologia della fase investigativa, in A. BERNASCONI (a cura di), Il processo penale de societate, Giuffrè, 2006, p. 204.

[24] Testualmente: «il pubblico ministero che acquisisce la notizia dell’illecito amministrativo dipendente da reato commesso dall’ente annota immediatamente, nel registro di cui all’art. 335 del codice di procedura penale, gli elementi identificativi dell’ente unitamente, ove possibile, alle generalità del suo legale rappresentante nonché il reato da cui dipende l’illecito».

[25] M. BARESI, Commento all’art. 55, cit., p. 489. Sul punto, cfr. anche M.L. DI BITONTO, Le indagini e l’udienza preliminare, in G. LATTANZI (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Giuffrè, 2010, p. 539.

[26] M. BARESI, op. cit., p. 488.

[27] Sul punto, cfr.: F. SGUBBI, Alcuni riflessi della riforma sulla pratica penale, cit., c. 11; UCPI, Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, cit., c. 25 e c. 33, che statuisce, al pr. 14, che, «stante la funzione di garanzia della legge penale, la dimensione testuale del divieto è base ineludibile, che deve essere rispettata secondo una “stretta interpretazione”» e, al pr. 33, che «l’accertamento penale implica e integra esercizio di potere: perciò, l’agire dei pubblici funzionari incaricati di tale accertamento è vincolato al principio di stretta legalità che, nel modello liberale, rappresenta un canone generale, tanto sul fronte del diritto sostanziale, quanto su quello della procedura».

[28] V. VELLUZZI, Le preleggi e l’interpretazione. Un’interpretazione critica, Edizioni ETS, 2013, pp. 72-74.

[29] PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2017, cit., p. 86.

[30] PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2012-2013, cit., p. 31.

[31] V. VELLUZZI, Le preleggi e l’interpretazione. Un’interpretazione critica, cit., p. 26.

[32] V. VELLUZZI, op. cit., p. 22. Sul punto, cfr. anche F. SGUBBI, op. cit., c. 11.

[33] In tema di “imparzialità”, da intendersi propriamente come “obiettività”, cfr. G. FOSCHINI, Il pubblico ministero in un processo penale a struttura giurisdizionale, in Iustitia, 1967, p. 138.

[34] PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2016, cit., p. 37.

[35] Proposta, cit., p. 2. Sul punto, cfr. anche UCPI, op. cit., c. 28, che statuisce, al pr. 17, che «le leggi penali sono irrazionalmente vessatorie quando sono strumentali all’ottenimento di consensi elettorali garantiti dalla enfatizzazione di singoli fatti di cronaca drammatizzati dai media».

[36] PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2012-2013, cit., p. 31.

[37] G. FALCONE, Intervista al quotidiano La Repubblica del 3 ottobre 1991, cit., p. 5.

[38] Sul punto, cfr. UCPI, op. cit., c. 27, che statuisce, al pr. 16, che «la sede nella quale deve svolgersi il confronto sulle scelte punitive non può che essere il Parlamento».

[39] Proposta, cit., p. 6.

[40] PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, Bilancio di responsabilità sociale 2016, cit., p. 37.

[41] Proposta, cit., p. 2, in cui si conclude che, «collocato all’interno di una magistratura autocratica, questo tipo di giudice-non-giudice si sottrae con ostinazione agli interventi del potere legislativo». Sul fenomeno si espresse criticamente anche A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Utet, 2017, p. 540, mediante un principio di natura liberale che può apprezzarsi anche rispetto alla magistratura requirente.

[42] Sul punto, cfr. E. AMODIO, Separazione delle carriere e imparzialità del giudice: un circolo virtuoso, cit., p. 3; G. MARINUCCI, op. cit., p. 1364, il quale ricorda che «già nel 1979 (Corte cost. n. 84) la Corte affermava limpidamente che erano due i fondamentali beni garantiti dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: “da un lato, l’indipendenza del p.m. nell’esercizio della propria funzione, e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”. Gli stessi principi sono stati ribaditi dalla Corte nella sentenza n. 88 del 1991, che suona così: “il principio di legalità, che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità del procedere; e questa, in un sistema come il nostro fondato sul principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardato che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale […]; il principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo”».

[43] G. SPANGHER, op. cit., c. 167.

[44] Sul punto, cfr. UCPI, op. cit., c. 34, che statuisce, al pr. 21, che «l’obbligo di esercitare l’azione penale deve essere congruamente disciplinato dalla legge, nei modi e nei casi, così da rendere trasparenti i criteri di scelta e di priorità».

[45] Sul punto, cfr. G. SPANGHER, op. cit., cc. 165-166.

[46] O. DOMINIONI, La separazione, cit., p. 225.

[47] Sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente (art. 66), di non doversi procedere (art. 67) o di condanna (art. 69).

[48] V. VELLUZZI, op. cit., p. 37.

[49] Si tratta della c.d. “interpretazione sistematico-teleologica”. Sul punto, cfr. V. VELLUZZI, op. cit., p. 53.

[50] Si tratta della c.d. “interpretazione sistematico-dogmatica”. Sul punto, cfr. V. VELLUZZI, op. cit., p. 53.

[51] Sul punto, cfr., ex plurimis, trib. Napoli, sez. g.i.p., 26 giugno 2007, in Resp. amm. soc. enti, 2007, p. 163, secondo cui «l’illecito […], sussistendo le condizioni di cui all’art. 5, deve ritenersi perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi». Non vi è, in realtà, comunanza di venute neppure circa la necessità di esplicitare, nella contestazione dell’illecito amministrativo, i criteri oggettivi di incolpazione dell’interesse o del vantaggio, atteso che, sul punto, si è, di recente, dovuta esprimere la Corte di cassazione stessa: cfr. Cass. pen., Sez. V, 29 settembre 2000, n. 30753, in www.ilpenalista.it, 3 dicembre 2020, secondo cui, «in tema di responsabilità da reato dagli enti collettivi, la contestazione dell’illecito alla persona giuridica deve specificare quale sia il vantaggio che questa ha ottenuto o l’interesse della medesima che è stato perseguito mediante la realizzazione del reato presupposto. Quando tale elemento non sia presente nella contestazione, il giudice dovrà invitare il pubblico ministero ad integrare la contestazione e solo in caso di mancato adempimento all’invito potrà dichiarare la nullità dell’atto di esercizio dell’azione penale e rinviare gli atti alla Procura per provvedere altrimenti».

[52] Trib. Napoli, sez. g.i.p., 26 giugno 2007, in Resp. amm. soc. enti, 2007, p. 163, che così illustra le ragioni dell’inversione dell’onere della prova: «circa l’inversione dell’onere della prova, la soluzione adottata dal legislatore delegato appare la conseguenza di un compromesso determinato dal distacco del d. lgs. rispetto ai criteri segnati dalla legge delega. L’art. 11 della legge delega non richiedeva, infatti, alcuna condizione ulteriore agli elementi di cui all’art. 5, nell’ipotesi di commissione del reato da parte di soggetto apicale, giacché il soggetto in posizione apicale è esso stesso espressione della volontà e della politica dell’ente, in nome e per conto del quale agisce, secondo il generale principio di identificazione, connaturale alla rappresentanza organica e valido per ogni rapporto negoziale e processuale. La deroga al cennato principio sembrerebbe essere stata determinata dalla considerazione che, nelle attuali complesse realtà aziendali, il management si sviluppa non più solo in senso verticistico, ma anche orizzontale; che, tra i soggetti apicali, sono stati inseriti non solo coloro che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione dell’ente, ma anche coloro che siano preposti ad una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale; che il principio di immedesimazione viene meno nell’ipotesi di amministratore infedele che agisca eludendo fraudolentemente i controlli della persona giuridica. Tali considerazioni hanno evidentemente suggerito al delegato di adottare una disciplina di esenzione della responsabilità dell’ente, differenziandola in ogni caso dall’ipotesi in cui il reato risulti commesso dai sottoposti, e ciò in ragione proprio della particolare qualità dei soggetti apicali. […] L’oggetto della verifica rimessa al giudice è, dunque, duplice, essendo necessaria una valutazione sull’idoneità del modello e cioè sulla completezza, esaustività e specificità delle sue previsioni, in punto di individuazione e tipizzazione delle misure di organizzazione e di controllo, nonché sull’efficacia della sua attuazione, sulla concreta misurazione dei presidi predisposti alla realtà effettuale ed operativa. La prima indagine va svolta sul modello, sul suo contenuto dichiarativo e descrittivo; la seconda, comportando la valutazione di circostanze fattuali concrete, necessita di ulteriori elementi e dati di natura obiettiva, alla cui emersione, nella fase del giudizio ovvero nella fase incidentale della cautela, deve provvedere il soggetto su cui incombe il relativo onere dimostrativo e cioè lo stesso ente che subisce il rischio sostanziale del mancato accertamento. […] L’art. 6 del d. lgs. n. 231/2001 individua i criteri c.d. di imputazione soggettiva. L’art. 6 prevede, infatti, che nell’ipotesi di reato commesso da soggetto in posizione apicale, l’ente non risponde se prova, cumulativamente e non alternativamente: a) che l’organo dirigente abbia adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) che il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli e di curarne l’aggiornamento sia stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) che i soggetti autori dell’illecito abbiano commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) che non vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b)». Sul punto, cfr. anche: Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, in Resp. amm. soc. enti, 2010, p. 193, secondo cui, «per non rispondere per quanto ha commesso il suo rappresentante, l’ente deve provare di avere adottato le misure necessarie ad impedire la commissione di reati del tipo di quello realizzato. Originano da questi assunti le inversioni dell’onere della prova e le previsioni probatorie di cui al cit. d. lgs., art. 6 e, specificamente, la necessità che l’ente fornisca innanzitutto la prova che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione a tale fine»; Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 1055, secondo cui «l’inesistenza della c.d. colpa dell’organizzazione per effetto della presenza di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi, adeguatamente monitorati da un organismo di vigilanza, è tema di prova il cui onere, per atti compiuti dai vertici aziendali, è invertito a carico dell’ente»; trib. Milano, sez. g.i.p., 27 aprile 2004, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 989, secondo cui «è in base al disposto dell’art. 6 d. lgs. n. 231/2001, che concerne i criteri di attribuzione all’ente delle condotte di soggetti con posizione apicale, che anche la presenza di un efficace modello organizzativo finalizzato a prevenire reati come quelli verificatisi non basterebbe ad esimere l’ente dalla responsabilità amministrativa in quanto dovrebbe comunque provarsi che l’apicale abbia commesso il reato eludendo fraudolentemente le strutture di organizzazione e di gestione. È chiaro, infatti, nel sistema del d. lgs. n. 231/2001, che chi, come il dirigente apicale, impersona l’ente, non trascina nella responsabilità l’ente stesso solo nella situazione limite in cui si possa provare, non certo per ipotesi o presunzioni, che egli abbia frustrato con l’inganno l’intero sistema decisionale e di controllo della società. Ma si tratta evidentemente di una situazione limite e quasi manualistica che ben difficilmente può fare ingresso in simili procedimenti». Contra, cfr.: trib. Milano, Sez. g.u.p., 6 ottobre 2011, in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2012, secondo cui, «allorché l’ente sia dotato di modello organizzativo al momento della commissione del reato presupposto […], è onere specifico del pubblico ministero precisare in che cosa si concretizzi l’inidoneità assunta a base dell’accusa. […] Non è indifferente – sul piano processuale – chiarire se l’addebito all’ente collettivo derivi da un reato-presupposto commesso da un soggetto apicale (art. 6) o non apicale (art. 7 d. lgs. n. 231/2001). L’onere di provare la veste “apicale” o “non apicale” ricade, in prima battuta, sul pubblico ministero cui compete di precisare se i soggetti persone fisiche esercitano di diritto o di fatto funzioni di rappresentanza o di direzione o di amministrazione degli enti o di loro unità organizzative dotate di autonomia finanziaria o funzionale. Solo dalla corretta configurazione della fattispecie di cui all’art. 6 nascono gli oneri probatori ivi menzionati e a carico dell’ente collettivo»; Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, in Resp. amm. soc. enti, 2010, p. 163, secondo cui «grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa: tale accertata responsabilità si estende “per rimbalzo” dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo. Militano, inoltre, a favore dell’ente, con effetti liberatori, le previsioni probatorie di segno contrario di cui all’art. 6 del d. lgs. n. 231/2001 e, specificamente, l’onere per l’ente di provare, per contrastare gli elementi di accusa a suo carico, “che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi” (lett. a dell’art. 6) e che, sulla base di tale presupposto, ricorrono le altre previsioni elencate nelle successive lettere del citato art. 6. Nessuna inversione dell’onere della prova è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa l’onere di dimostrare la commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all’art. 5 d. lgs. n. 231 e la carente regolamentazione interna dell’ente. Quest’ultimo ha ampia facoltà di fornire prova liberatoria».

[53] P. DELL’ANNO, Commento all’art. 59, in A. PRESUTTI – A. BERNASCONI – C. FIORIO (a cura di), La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d. legisl. 8 giugno 2001, n. 231, cit., pp. 512-513. Con riferimento, nell’ambito del procedimento penale per l’accertamento della responsabilità dell’ente derivante da reato-presupposto, alla tematica della nullità della contestazione dell’illecito amministrativo per la sua genericità, cfr. A. DIDDI, Commento all’art. 61, in A. PRESUTTI – A. BERNASCONI – C. FIORIO (a cura di), op. cit., p. 518.

[54] P. DELL’ANNO, Commento all’art. 59, cit., p. 507.

[55] Sul punto, episodicamente, cfr.: Cass. pen., S.U., 24 aprile 2014, n. 38343, in Le soc., 2015, p. 215, secondo cui «è da considerarsi “colpa di organizzazione” dell’ente ogni mancanza propria dell’organizzazione produttiva complessa (come l’assenza del documento di valutazione dei rischi, della strumentazione tecnica ma anche la carente selezione del personale e delle deleghe, nonché l’inidonea gestione dell’orario di lavoro dei dipendenti e via di seguito) e che proprio questo sarà oggetto di analisi in sede di giudizio dinanzi al giudice penale, a prescindere da ogni (autonomo) profilo colposo del singolo lavoratore o dirigente».

[56] Cass. pen., S.U., 24 aprile 2014, n. 38343, in Le soc., 2015, p. 215. Sul punto, cfr. anche: Cass. pen., Sez. III, 24 gennaio 2019, n. 18842, in www.dejure.it, n.m., secondo cui, «in tema di responsabilità delle persone giuridiche, che configura una sorta di tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza, una volta accertata la commissione di determinati reati da parte delle persone fisiche che esercitano funzioni apicali, i quali abbiano agito nell’interesse o a vantaggio delle società, incombe sui predetti enti l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di avere adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; in tale senso, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata, nel sistema introdotto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli»; Cass. pen., Sez. VI, 17 aprile 2018, n. 38243, in www.dejure.it, n.m., secondo cui «il riscontro del deficit organizzativo conseguente alla mancata adozione del modello ha […] consentito una piena e agevole ascrizione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo»; Cass. pen., sez. II, 6 luglio 2012, n. 35999, in Il quotidiano giuridico, 30 ottobre 2012, secondo cui «la mancata “preventiva” adozione di tali modelli, in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dell’essere stato il reato commesso nell’interesse o vantaggio della società e della posizione apicale dell’autore del reato, è sufficiente a costituire quella “rimproverabilità” di cui alla Relazione ministeriale al decreto legislativo e ad integrare la fattispecie sanzionatoria, costituita dall’omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose. Ne consegue che l’ente che abbia omesso di adottare e attuare il modello organizzativo e gestionale non risponde per il reato (rientrante tra quelli elencati negli artt. 24 e 26), commesso dal suo esponente in posizione apicale soltanto nell’ipotesi, di cui all’art. 5 comma 2, dell’avere agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi»; Cass. pen., sez. V, 26 aprile 2012, n. 40380, in Resp. amm. soc. enti, 2013, p. 224, secondo cui, «in tema di responsabilità amministrativa da reato degli enti, la persona giuridica, che abbia omesso di adottare ed attuare il modello organizzativo e gestionale, non risponde del reato presupposto commesso da un suo esponente in posizione apicale soltanto nell’ipotesi in cui lo stesso abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi»; trib. Milano, sez. g.u.p., 17 novembre 2009, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, p. 607, secondo cui «il modello di organizzazione e gestione deve essere adottato dall’ente prima della commissione del reato-presupposto, per esimere l’ente dalla responsabilità amministrativa alle condizioni previste dall’art. 6 d. lgs. n. 231/2001»; Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, in Resp. amm. soc. enti, 2010, p. 193, secondo cui «la mancata adozione di tali modelli, in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi […] (reato commesso nell’interesse o vantaggio della società e posizione apicale dell’autore del reato) è sufficiente a costituire quella “rimproverabilità” di cui alla Relazione ministeriale al decreto legislativo e ad integrare la fattispecie sanzionatoria, costituita dall’omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose. […] Dagli artt. 5 e 6 scaturisce il principio di diritto secondo cui l’ente che abbia omesso di adottare e attuare il modello organizzativo e gestionale non risponde per il reato (rientrante tra quelli elencati negli artt. 24 e 26), commesso dal suo esponente in posizione apicale, soltanto nell’ipotesi di cui all’art. 5 comma 2. […] In tema di responsabilità da reato degli enti, la persona giuridica che abbia omesso di adottare ed attuare il modello organizzativo e gestionale non risponde del reato presupposto commesso da un suo esponente in posizione apicale soltanto nell’ipotesi in cui lo stesso abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi». In dottrina, cfr. M. SCOLETTA, Commento all’art. 6, in D. CASTRONUOVO – G. DE SIMONE – E. GINEVRA – A. LIONZO – D. NEGRI – G. VARRASO (a cura di), Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, Ipsoa, 2019, p. 134 con particolare riferimento a Cass. pen., sez. III, 23 gennaio 2019, n. 11518, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 180 e a Cass. pen., sez. IV, 23 maggio 2018, n. 38363, in Cass. pen., 2019, p. 2694.

[57] Trib. Milano, sez. I, 18 dicembre 2008, in Foro amb., 2009, p. 328.

[58] C. PRESCIANI, Commento agli artt. 5, 6 e 7, in D. CASTRONUOVO – G. DE SIMONE – E. GINEVRA – A. LIONZO – D. NEGRI – G. VARRASO (a cura di), Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, cit., pp. 218-219. Sul punto, cfr. anche: N. ABRIANI, La responsabilità da reato degli enti: modelli di prevenzione e linee evolutive del diritto societario, in Analisi giuridica dell’economia, 2, 2009, p. 195; I. DEMURO, I modelli organizzativi tra obbligatorietà e moral suasion, in M. IRRERA (a cura di), Assetti adeguati e modelli organizzativi, Zanichelli, 2016, p. 921 e nt. 20; M. MAUGERI, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), in Orizzonti del diritto commerciale, 1, 2014, p. 9; P. SFAMENI, Idoneità dei modelli organizzativi e sistema di controllo interno, in Analisi giuridica dell’economia, 2, 2009, p. 277; P. SFAMENI, Responsabilità da reato degli enti e nuovo diritto azionario: appunti in tema di doveri degli amministratori ed organismo di vigilanza, in Riv. soc., 1, 2007, p. 167. Contra, cfr. S. BARTOLOMUCCI, Modelli organizzativi obbligatori ed auto-validanti: evoluzione eteronoma del D.Lgs. n. 231/2001, in Le soc., 4, 2008, p. 408. Per un diverso parametro, cfr. P. RIVELLO, Il MOG quale esimente, in Resp. amm. soc. enti, 2, 2018, p. 201.

[59] C. PRESCIANI, Commento agli artt. 5, 6 e 7, cit., p. 219. Sul punto, cfr. anche: E. AMODIO, Prevenzione del rischio penale di impresa e modelli integrativi di responsabilità degli enti, in Cass. pen., 2, 2005, p. 326; P. SFAMENI, Idoneità dei modelli organizzativi e sistema di controllo interno, cit., p. 277.

[60] Sul punto, cfr.: L. BENVENUTO, Organi sociali e responsabilità amministrativa da reato degli enti. Relazione al Convegno regionale della Toscana dell’Unione nazionale giovani dottori commercialisti ed esperti contabili di Lucca del 28 novembre 2008, in Le soc., 6, 2009, p. 673; F. GIUNTA, Il reato come rischio d’impresa e la colpevolezza dell’ente collettivo, in Analisi giuridica dell’economia, 2, 2009, p. 247; M. MAUGERI, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), cit.; P. SFAMENI, Responsabilità da reato degli enti e nuovo diritto azionario: appunti in tema di doveri degli amministratori ed organismo di vigilanza, cit., p. 171. In giurisprudenza, un’apertura, ancorché isolata, può leggersi in trib. Milano, Sez. X, 20 marzo 2007, in www.rivista231.it, n.m., che ha condannato l’ente solo dopo avere accertato che, «anche a volere prescindere dalla formale adozione dei Modelli previsti dal citato decreto, la società non ha offerto nessun elemento in ordine all’esistenza di modalità organizzative e di gestione, comunque, volte a prevenire la commissione di reati».

[61] M. SCOLETTA, Commento all’art. 6, cit., p. 134.

[62] Sul punto, cfr.: S. BARTOLOMUCCI, Sulla configurabilità del (fantomatico) modello organizzativo ex d.lgs. n. 231/2001 dedicato alla p.m.i., in Resp. amm. soc. enti, 2, 2010, p. 97; L. BENVENUTO, Organi sociali e responsabilità amministrativa da reato degli enti. Relazione al Convegno regionale della Toscana dell’Unione nazionale giovani dottori commercialisti ed esperti contabili di Lucca del 28 novembre 2008, cit., pp. 679-680; A. BERNASCONI, Commento agli artt. 6 e 7, in A. PRESUTTI – A. BERNASCONI – C. FIORIO (a cura di), op. cit., p. 120 e p. 160; F. CERQUA, Commento all’art. 6, in A. CADOPPI – G. GARUTI – P. VENEZIANI (a cura di), Enti e responsabilità da reato, Utet, 2010, p. 139; M. CHILOSI, La responsabilità dipendente da reato e il Modello 231 nelle piccole imprese. Pro e conto e prospettive di riforma, in Resp. amm. soc. enti, 1, 2018, p. 294; C. FRIGENI – C. PRESCIANI, Commento agli artt. 5, 6 e 7, in D. CASTRONUOVO – G. DE SIMONE – E. GINEVRA – A. LIONZO – D. NEGRI – G. VARRASO (a cura di), op. cit., p. 251; D. GALLETTI, I modelli organizzativi nel d.lgs. n. 231 del 2001: le implicazioni per la corporate governance. Intervento al Convegno “La modellistica organizzativa nel d.lgs. n. 231 del 2001. Profili di corporate governance ed esperienze aziendali” di Trento dell’11 febbraio 2005, in Giur. comm., 1, 1, 2006, p. 129; G. LASCO, Commento all’art. 6, in G. LASCO – V. LORIA – M. MORGANTE (a cura di), Enti e responsabilità da reato. Commento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Giappichelli, 2017, p. 100; C. PRESCIANI, op. cit., p. 219.

[63] Sul punto, cfr. P. SFAMENI, Responsabilità, cit., p. 165.

[64] C. PRESCIANI, op. cit., pp. 219-220. Sul punto, cfr. anche: E. AMODIO, Prevenzione del rischio penale di impresa e modelli integrativi di responsabilità degli enti, cit., p. 327; F. GIUNTA, Il reato come rischio d’impresa e la colpevolezza dell’ente collettivo, cit., p. 247; P. SFAMENI, Idoneità, cit., p. 283; P. SFAMENI, Responsabilità, cit., p. 168. In giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 22013, in Dir. giust., 21 maggio 2018.

[65] M. SCOLETTA, Commento all’art. 7, in D. CASTRONUOVO – G. DE SIMONE – E. GINEVRA – A. LIONZO – D. NEGRI – G. VARRASO (a cura di), op. cit., pp. 170-171. Sul punto, cfr. anche: E. AMODIO, Prevenzione, cit., pp. 326-327; O. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. LATTANZI (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 120; M. SCOLETTA, La disciplina della responsabilità da reato degli enti collettivi: teoria e prassi giurisprudenziale, in G. CANZIO – L.D. CERQUA – L. LUPÁRIA (a cura di), Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica, Cedam, 2016, p. 867. In giurisprudenza, eccezionalmente, cfr.: Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2018, n. 54640, in Cass. pen., 2019, p. 3344, secondo cui «in assenza di un modello organizzativo idoneo, la colpa di organizzazione risulta comunque sottesa ad un deficit di direzione o vigilanza […] occorre che l’assetto organizzativo risulti comunque in grado di assicurare un’azione preventiva […]. In tale prospettiva, nel caso di mancata adozione di modelli organizzativi, i presupposti della responsabilità dell’ente, a seconda che si tratti o meno di soggetto apicale, differiscono solo alla condizione che sia correttamente attestato un assetto, ispirato a regole cautelari, destinato comunque ad assicurare quell’azione preventiva»; App. Milano, sez. II, 21 marzo 2012, n. 1824, in Resp. amm. soc. enti, 2012, p. 167, secondo cui «in presenza della commissione di un reato rilevante non può automaticamente essere giudicato inefficace il modello di organizzazione della società, ma occorre verificare la causa della elusione che ha agevolato la consumazione dei reati. Né un modello potrebbe ritenersi inefficace per il solo fatto che da parte dei responsabili della persona giuridica siano stati commessi degli illeciti, eludendo fraudolentemente le procedure previste dal modello, perché altrimenti l’esimente non avrebbe mai pratica applicazione»; trib. Milano, 14 dicembre 2004, n. 2333, in Foro it., 2005, c. 527, secondo cui, «posto che il modello organizzativo viene previsto e disciplinato dal legislatore al fine di garantire una struttura amministrativa all’ente tale da prevenire il rischio di commissione di illeciti amministrativi dipendenti da reato, è chiaro che le indicazioni contenute a tale fine nell’art. 6 comma 2 lett. a), b), c), d) ed e) costituiscono parametri la cui presenza attenua la pericolosità, sino ad escluderla del tutto ove il modello presenti tutte le caratteristiche sopra indicate e le stesse siano attuate in modo idoneo. Ciò non implica che da una valutazione congiunta di tutti i parametri sopra indicati (persone fisiche operanti in posizione qualificata nell’ente, struttura organizzativa e adozione di uno o più degli accorgimenti previsti per i modelli di organizzazione) gli stessi possano escludere in concreto la pericolosità anche laddove l’attuazione del modello sia parziale ovvero non rispetti tutti i presupposti richiesti dal legislatore ai fini dell’effetto impeditivo della responsabilità o ai fini dell’effetto attenuante della medesima. La reciproca influenza del parametro soggettivo e di quello oggettivo (struttura amministrativa dell’ente) è infatti evidente, risultando chiaro che le modificazioni nelle persone fisiche in posizione qualificata nell’ente e l’adozione di opportune garanzie in ordine alla loro stabilità possono considerarsi sufficienti a garantire dal pericolo, fermo restando che l’adozione di un modello organizzativo idoneo esclude obiettivamente la pericolosità dell’ente». Sul tema della facoltatività dell’adozione di un formale modello di organizzazione e di gestione, cfr.: trib. Tolmezzo, sez. g.u.p., 23 gennaio 2012, n. 18, in Le soc., 2012, p. 1105, secondo cui «l’adozione di un modello organizzativo idoneo a prevenire il reato […] non è un obbligo per gli enti, sanzionabile in caso di omissione con la loro responsabilità amministrativa; al contrario, è un’esimente della stessa, qualora, nonostante l’adozione del modello, si verifichi il reato (art. 6 d. lgs. n. 231/2001). Dunque, la sua […] assenza […] non può di per sé essere addebitata all’ente per costituire la ragione unica della sua responsabilità»; trib. Novara, sez. g.u.p., 1° ottobre 2010, in Resp. amm. soc. enti, 2011, p. 161, secondo cui «l’adozione dei modelli organizzativi costituisce una incoercibile scelta positiva dell’ente di dotarsi di uno strumento organizzativo che, al di là del mero adempimento formale e burocratico, ove preventivamente attuato ed in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società, comporta l’esclusione della responsabilità amministrativa. […] La responsabilità amministrativa dell’ente non trova fondamento, in sé, nella mancata adozione e attuazione dei modelli organizzativi, ma nella introdotta colpa di organizzazione, di guisa che l’adempimento in questione costituisce una “facoltà” finalizzata ad esonerarsi da tale responsabilità. Vale a dire che l’ente risponde in ragione del nuovo illecito amministrativo stabilito dall’ordinamento e che se vuole evitare tale responsabilità deve dimostrare di avere provveduto ad attuare idonei rimedi preventivi nella sua organizzazione interna da cui possono originarsi determinati delitti. Dunque, si tratta di un “onere” da soddisfare, nei termini ritenuti appropriati, nel proprio interesse, essendo rimessa all’ente la scelta di usufruire o meno dell’efficacia “scusante” dei modelli idonei»; trib. Milano, sez. VIII, 13 febbraio 2008, n. 1774, in Le soc., 2008, p. 1507, secondo cui «l’adozione del modello organizzativo e di gestione non è obbligatoria»; trib. Napoli, sez. g.i.p., 26 giugno 2007, in Resp. amm. soc. enti, 2007, p. 163, secondo cui «il legislatore, pur avendo inteso ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi e, dunque, a motivarlo all’osservanza degli stessi, non ha previsto il modello organizzativo come adempimento obbligatorio, al quale l’ente sia sempre e comunque tenuto, ma come mero onere che l’ente stesso ha interesse ad assolvere per prevenire e paralizzare gli effetti della commissione di reati da parte delle persone fisiche che agiscono al suo interno»; Cass. pen., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 32627, in Cass. pen., 2007, p. 80, secondo cui, «nella normativa contenuta nel d. lgs. n. 231/2001, […] non si prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare in alcuni casi la esclusione della responsabilità (art. 6 d. lgs. n. 231/2001), in altri un sollievo sanzionatorio (artt. 17, 78 d. lgs. cit.) e che, nella fase cautelare, può portare alla sospensione o alla non applicazione delle misure interdittive (art. 49)»; trib. Milano, sez. riesame, 28 ottobre 2004, in Corr. merito, 2005, p. 319, secondo cui «la mancata adozione del modello organizzativo definito compliance program non costituisce di per sé un illecito, essendo la adozione del programma una causa di esclusione della responsabilità per colpa della società in caso di reati commessi dai soggetti nella posizione di cui all’art. 5 comma 1 del decreto»; trib. Milano, sez. g.i.p., 20 settembre 2004, in Foro it., 2005, c. 528, secondo cui «le scelte organizzative dell’impresa sono proprie dell’imprenditore. Il d. lgs. n. 231/2001 non può dunque essere interpretato nel senso di una intromissione giudiziaria nelle scelte organizzative dell’impresa, ma nel senso di una necessaria verifica di compatibilità di queste scelte con i criteri di cui al d. lgs. n. 231/2001. Ciò che il decreto richiede è che l’imprenditore adotti modelli di organizzazione idonei a ridurre il rischio che si verifichino, nella vita dell’impresa, “reati della specie di quello verificatosi” (art. 6 d. lgs. n. 231/2001)». Contra, in dottrina, cfr.: G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in C.F. GROSSO – T. PADOVANI – A. PAGLIARO (a cura di), Trattato di diritto penale, Giuffrè, 2008, p. 193; C.E. PALIERO, La colpa di organizzazione tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1-2, 2018, pp. 208-209; D. PULITANÒ, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri d’imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2002, p. 431; M. SCOLETTA, Commento all’art. 7, cit., p. 171.

[66] O. DOMINIONI, La separazione, cit., p. 221. Sul punto, cfr. anche E. AMODIO, Separazione, cit., p. 2.

[67] E. AMODIO, Separazione, cit., p. 4. Sul punto, cfr. anche: O. DOMINIONI, Giudice, cit., p. 373; G. SPANGHER, op. cit., c. 166.

[68] F. SGUBBI, op. cit., c. 10.

[69] Proposta, cit., pp. 2-3.

[70] Sul punto, cfr. UCPI, op. cit., c. 24, che statuisce, al pr. 13, che «tutti sono uguali di fronte alla legge. L’interpretazione della legge è uguale per tutti».

[71] Sul punto, cfr. UCPI, op. cit., c. 32, che statuisce, al pr. 19, che «liberale è il modello di processo penale imperniato sulla presunzione d’innocenza dell’imputato».

[72] Sul punto, cfr. UCPI, op. cit., c. 35, che statuisce, al pr. 22, che, «nel modello liberale, chi sia sottoposto al procedimento penale dev’essere tutelato – nei suoi diritti fondamentali ed innanzitutto nella sua libertà personale – come qualsiasi altra persona. Anzi, in tale modello, la funzione stessa del diritto processuale penale è quella di proteggere i diritti fondamentali di chi subisce l’“attacco” del potere pubblico, così da consentirgli di difendersi nel modo migliore possibile; questo nella consapevolezza che, nel momento del reato il soggetto debole è la vittima, mentre nel momento del processo il soggetto debole è l’imputato».

[73] UCPI, op. cit., c. 41, pr. 28.