Enter your keyword

L’AMBITO D’APPLICAZIONE DELLA MESSA ALLA PROVA AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE – DI LAURA BARTOLI

L’AMBITO D’APPLICAZIONE DELLA MESSA ALLA PROVA AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE – DI LAURA BARTOLI

BARTOLI – L’AMBITO D’APPLICAZIONE DELLA MESSA ALLA PROVA AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE.PDF

L’AMBITO D’APPLICAZIONE DELLA MESSA ALLA PROVA AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE

THE APPLICABILITY RANGE OF THE SUSPENSION OF THE TRIAL WITH PROBATION

di Laura Bartoli*

Ordinanza del G.U.P. presso il Tribunale di Taranto del 22 maggio 2024 (giudice: dott. Maccagnano) – ord. n. 156 del registro degli atti di promovimento – G.U. 4 settembre 2024, n. 36.

(Art. 3 Cost.; Art. 168-bis c.p.; Art. 550 c. 2 c.p.p.; Art. 379 c.p.; Art. 372 c.p.)

Il Giudice dell’udienza preliminare di Taranto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 168-bis c.p. rispetto all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l’accesso alla sospensione con messa alla prova agli imputati del reato di favoreggiamento reale e lo ammette, invece, per chi è incolpato del reato di falsa testimonianza.

________

 Ordinanza del Tribunale di Padova del 24 maggio 2024 (giudice: dott.ssa Chillemi) – ord. n. 149 del registro degli atti di promovimento – G.U. 28 agosto 2024, n. 35.

(Art. 3 Cost.; Art. 27 c. 3 Cost.; Art. 168-bis c.p.; Art. 550 c. 2 c.p.p.; Art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990; Art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990)

Il Tribunale di Padova dubita della legittimità costituzionale degli artt. 168-bis c.p. e 550 c. 2 c.p.p. rispetto all’art. 3 e 27 c. 3 Cost., nella parte in cui non consentono l’accesso alla sospensione con messa alla prova agli imputati del reato di cui all’art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990 e lo ammette, invece, per chi è incolpato del reato di cui all’art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990.

Sospensione con messa alla prova – Ammissibilità al giudizio speciale – Proporzionalità sanzionatoria – Favoreggiamento reale – Detenzione e cessione di stupefacenti di lieve entità.

____

Il contributo fotografa i frastagliati confini della sospensione con messa alla prova ed esamina due recenti questioni di legittimità costituzionale che mirano a estendere il giudizio speciale anche ai procedimenti per il reato di favoreggiamento reale (art. 379 c.p.) e di detenzione e cessione di stupefacenti di lieve entità (art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990).

The essay describes the convoluted perimeter of the suspension of the trial with probation. It examines then two ordinances that question the constitutional legitimacy of those limits, and that aim at extending the simplified proceeding to two further crimes (art. 379 c.p. and art. 73 § 5 d.P.R. n. 309/1990).  

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Un confine incerto: l’art. 168-bis c.p. – 3. La riforma “Cartabia” e il nuovo art. 550 c. 2 c.p.p. – 4. La prima questione: il favoreggiamento reale (art. 379 c.p.). – 5. La seconda questione: la cessione di stupefacenti di lieve entità (art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990). – 6. Il dito e la luna.

1. Introduzione – La sospensione con messa alla prova, piaccia o dispiaccia, è un modulo processuale di relativo successo[1]: dà alla difesa il potere di interrompere l’accertamento; dà all’imputato la possibilità di estinguere il reato rispettando prescrizioni meno gravose di quelle cui sarebbe soggetto in caso di condanna, permettendogli tra l’altro di recuperare controllo sulla vicenda penale che lo vede protagonista. Il giudizio speciale avvantaggia anche i magistrati: la trattazione di casi poco allarmanti riesce semplificata; in più la misura porta frutti concreti, immediatamente apprezzabili. Le prestazioni a vantaggio della comunità e della vittima, infatti, arrivano subito; sono condizioni necessarie a ottenere il beneficio: il giudice che ha accolto la richiesta dell’imputato, in questo caso, potrà osservare direttamente l’impatto sociale del suo lavoro, di solito nascosto dalla barriera dell’esecuzione.

La messa alla prova, insomma, riesce a riunire tutti i soggetti interessati attorno a una soluzione condivisa, vantaggiosa e soddisfacente per tutti: anche per questo la sua storia è segnata da un ampliamento progressivo. Le due ordinanze in commento chiedono due ulteriori passi nella medesima direzione: rendere l’istituto accessibile anche a ipotesi che, oggi, non possono essere gestite in quelle forme – il favoreggiamento reale e la cessione di stupefacenti di lieve entità. Prima di analizzare le domande dei giudici, ricostruiremo brevemente il perimetro dell’istituto e le sue vicende; esamineremo poi le due questioni di legittimità costituzionale nonché gli scenari che esse aprono per il rito speciale.

2. Un confine incerto: l’art. 168-bis c.p. – Con tutta probabilità, il legislatore del 2014 aveva progettato la sospensione con messa alla prova per dare alla criminalità di piccolo e medio cabotaggio una risposta alternativa tanto alle secche di un processo penale lento, che si trascina di udienza in udienza fino alla prescrizione; quanto ai rigori della eventuale sanzione detentiva. Nel pacchetto di riforme che fece seguito alla sentenza Torreggiani, assumeva probabilmente il valore di una misura di salvaguardia: offrendo un’alternativa trattamentale a monte, avrebbe dovuto contribuire a mantenere il numero dei detenuti sotto la soglia critica. A questo fine, il legislatore aveva disegnato un perimetro non troppo generoso: lo tracciava l’art. 168-bis c.p., che consentiva l’accesso al rito «per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale». Esso stabiliva inoltre che il giudizio speciale non poteva essere concesso «più di una volta» (art. 168-bis c. 4 c.p.).

La soglia fu ampiamente biasimata. Il limite parve troppo stretto per sortire un qualunque effetto sulla popolazione detenuta: la messa alla prova sembrava destinata a essere, secondo un’espressione icastica, una goccia nell’oceano del sovraffollamento[2].

Inoltre, la formula parve subito lacunosa: lasciava spazio a molte (forse troppe) domande cui ha nel tempo risposto la giurisprudenza. Un primo, decisivo chiarimento giunse a stretto giro dalla Corte di cassazione. Nel primo anno di vigenza della misura, infatti, non era chiaro se le circostanze aggravanti a effetto speciale e a quelle che prevedono una pena di specie diversa avessero dovuto essere rilevanti ai fini del computo: l’art. 168-bis c.p. non dice nulla a riguardo, ma la legge tiene spesso conto di tali accidentalia per costruire il perimetro degli istituti. Le Sezioni unite[3] affermarono che, senza una previsione espressa, non spettava loro alcun rilievo: per la sospensione con messa alla prova, il limite dei quattro anni doveva – e deve tutt’ora – essere inteso come riferito esclusivamente alla fattispecie base. Qualunque circostanza fosse stata contestata, essa non avrebbe dovuto avere rilevanza ai fini del raggiungimento della soglia. La soluzione ha avuto l’immediato effetto di potenziare il raggio d’azione della misura[4] e la Corte ne è parsa ben consapevole: in un passaggio della motivazione, affermava molto chiaramente che la lettura «amplia il perimetro di operatività del rito, spostando sul giudice e sul suo potere discrezionale la motivata valutazione in merito alla fondatezza della richiesta dell’imputato, coerentemente con le finalità specialpreventive della messa alla prova»[5].

Tale interpretazione, pur criticabile, è rimasta incontrastata anche in un suo risvolto che sfiora il paradossale. Nell’escludere dal conteggio tutti gli accidentalia delicti, la Corte di cassazione ha implicitamente negato rilevanza anche alle attenuanti a effetto speciale, cosa che crea qualche attrito: per i reati che, a causa delle aggravanti a effetto speciale, sforano la soglia dei quattro anni, la messa alla prova resta ammissibile; per le fattispecie punite meno gravemente grazie alle attenuanti a effetto speciale, invece, l’opzione resta esclusa[6]. La Corte costituzionale ha esortato il legislatore a intervenire: la disparità, pur non illegittima, è vistosa; il giudice delle leggi ne così ha auspicato il superamento[7].

La formulazione dell’art. 168-bis c.p. è parsa oscura anche a un altro riguardo: che significa, esattamente, che la misura si può concedere solo una volta? Il problema interpretativo si è posto subito rispetto ai procedimenti con più contestazioni, e la Corte di cassazione ha precisato che il beneficio può essere accordato per tutti i reati per cui vi è processo, purché ciascuno di essi rispetti i limiti oggettivi stabiliti dalla legge[8]. La soluzione ha però generato una seconda difficoltà: che fare dell’imputato che ha ottenuto la messa alla prova per un determinato fatto e che, a distanza di tempo, è di nuovo indagato per un diverso reato che fa parte del medesimo disegno criminoso? Potrà chiedere nuovamente la concessione della misura? Il vincolo della continuazione impone un trattamento unitario dei singoli episodi ai fini della sanzione e, se l’azione penale fosse stata esercitata contemporaneamente per tutti, non ci sarebbero dubbi: la domanda sarebbe ammissibile. La frammentazione dei procedimenti introduce una differenza negli esiti che la Corte costituzionale ha giudicato illegittima: valorizzando la valenza sanzionatoria dei programmi di prova, la Consulta ha concluso che il limite numerico dell’art. 168-bis c.p. deve essere superato quando un frammento della condotta sia già stato gestito tramite il giudizio speciale. Lo stesso vale per il concorso formale di reati, assoggettato alle medesime regole che valgono per il reato continuato[9]. La messa alla prova, quindi, può essere concessa di nuovo qualora si innesti su una precedente vicenda, già risolta nelle stesse forme e che risulti connessa alla nuova ai sensi dell’art. 12 c. 1 lett. b c.p.p.

Non ci è voluto molto tempo perché la Corte di cassazione applicasse gli stessi strumenti a una situazione diversa: quella del reato a consumazione prolungata. Se la condotta fosse perseguita in maniera unitaria, anche qui, non si porrebbero problemi: si dovrebbe soltanto badare ai limiti di pena stabiliti per l’accesso all’istituto. Se invece l’arco temporale fosse diviso in diversi segmenti, ciascuno oggetto di un procedimento distinto, il limite dell’art. 168-bis c. 4 c.p. sembrerebbe riacquistare rilevanza. La Suprema Corte ha quindi ragionato a fortiori: se la misura può essere concessa nuovamente per gli ulteriori frammenti di un unico disegno criminoso – ha detto la Suprema Corte – a maggior ragione potrà essere ammessa nuovamente quando il reato è uno solo, benché protratto nel tempo[10].

L’art. 168-bis c.p., insomma, non ha più le parvenze draconiane che gli erano state rimproverate nel 2014: la giurisprudenza, come abbiamo visto, ne ha progressivamente esteso l’area di applicazione. Il potenziamento, certo, è giunto a un prezzo: la norma è oggi slabbrata e difficile da leggere; ricostruire il perimetro dell’istituto senza l’aiuto di un repertorio giurisprudenziale è quasi impossibile. Ad ogni modo, la misura ha retto e, nel cantiere di riforme aperto grazie al P.N.R.R., l’allargamento della messa alla prova è sembrato un passo del tutto naturale: si trattava soltanto di capire quanto allargare la misura e con quale tecnica normativa.

3. La riforma “Cartabia” e il nuovo art. 550 c. 2 c.p.p. – L’art. 1 c. 22 lett. a l. 27 settembre 2021, n. 134 delegava il Governo a estendere l’ambito d’applicazione della messa alla prova. I criteri che dettava, a questo fine, erano tre: uno di metodo, due di merito. Prima di tutto, il Parlamento ha stabilito che l’estensione del giudizio speciale non dovesse essere modificata in generale; l’ampliamento doveva avvenire tramite l’addizione di «ulteriori specifici reati» (art. 1 c. 22 lett. a l. n. 134 del 2021). La legge ha poi specificato come sceglierli: le nuove fattispecie dovevano essere selezionate tra quelle punite con «pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni» e adatte ai «percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto». La prima prescrizione era chiarissima; la seconda, invece, era più difficile da afferrare: tutti i reati, infatti, obbligano al risarcimento del danno, senza contare che la stessa legge disponeva che i programmi di giustizia riparativa avrebbero dovuto essere accessibili per tutte le fattispecie di reato.

Allo stesso tempo, la l. n. 134 del 2021 imponeva la modifica dell’art. 550 c.p.p. così da estendere la citazione diretta anche a «delitti da individuare tra quelli puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni […] che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento» (art. 1 comma 9 lett. l l. n. 134 del 2021).

Anziché stilare due elenchi separati – uno per la messa alla prova, uno per la citazione diretta a giudizio – il legislatore ha sfruttato il rinvio che l’art. 168-bis c.p. già operava: come abbiamo visto, i reati previsti dall’art. 550 c. 2 c.p.p. erano già inclusi nell’ambito d’applicazione del giudizio speciale, a prescindere dal limite di pena. Si è quindi scelto di intervenire sul solo art. 550 c. 2 c.p.p.: prima del 2022, prevedeva otto fattispecie; dopo le modifiche operate dal decreto delegato[11], esso ne comprende una cinquantina attinenti agli ambiti più svariati: dalle infrazioni penali in materia doganale alle lesioni stradali; dalla contraffazione del visto d’ingresso nel territorio italiano all’omessa dichiarazione finalizzata all’evasione dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto.

La tecnica presenta almeno due pregi e due difetti. Da un lato, ha permesso di realizzare una certa economia legislativa: con un solo ritocco, si sono esaudite due direttive della delega. Inoltre, ha consentito di mantenere una certa convergenza tra la sospensione con messa alla prova e la citazione diretta a giudizio, cosa che dovrebbe aiutare tutti gli operatori a orientarsi. D’altro canto, però, ha dimenticato le specificità del giudizio speciale, che non sembrano trovare alcun riscontro nella selezione delle nuove fattispecie: il pur vago riferimento alla compatibilità dei reati con i percorsi di risocializzazione previsti dall’istituto ha del tutto ceduto di fronte alle più pressanti (e misurabili) ragioni della relativa facilità d’accertamento. Oltre a ciò, l’elenco dell’art. 550 c. 2 c.p.p. sembra decisamente eterogeneo. L’aspetto non reca troppi danni alla disciplina della citazione diretta a giudizio: per le ipotesi non comprese, in fondo, sono previste più garanzie – per loro si dovrà celebrare l’udienza preliminare. Alla messa alla prova, invece, la varietà non giova. Dall’accesso al rito speciale dipende infatti la possibilità di un trattamento decisamente ricalibrato, che comporta l’estinzione del reato in tempi e forme assai diversi da quelli che possono essere raggiunti con qualunque altra modalità di giudizio. Il campo applicativo di una simile opzione dovrebbe essere frutto di una scelta di politica criminale consapevole, strutturata in modo tale da trattare situazioni simili in modo simile; la lista del 550 c. 2 c.p.p., però, è oggi troppo ampia e variegata per essere perfettamente coerente.

Il catalogo è così diventato il terreno di coltura perfetto per questioni di legittimità costituzionale che intendano contestare la ragionevolezza delle scelte del legislatore secondo la classica scansione dello schema triadico, volto a censurare una norma nella misura in cui prevede un trattamento ingiustificatamente più severo di quello riservato a un’altra fattispecie simile[12]. La Corte costituzionale non può certo sostituirsi al Parlamento nelle scelte sanzionatorie: esse costituiscono il risultato di valutazioni discrezionali e squisitamente politiche. Ciò non significa però che la legge penale, e il trattamento riservato al reo in particolare, costituiscano un’area immune al sindacato del giudice delle leggi, anzi: la stessa Consulta ha osservato che il suo controllo è tanto più necessario quanto più l’attività legislativa ha impatto sui diritti fondamentali. L’uniformità della «logica perseguita dal legislatore», quindi, deve essere assicurata soprattutto là dove è in gioco la libertà personale degli individui[13]: sarebbe dovere della Corte eliminare le incongruenze «ingiustificabili»[14] e «ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico»[15].

Se il giudice di merito si trovasse davanti a un reato di gravità medio-bassa escluso dall’ambito di applicazione della messa alla prova, potrebbe scorrere l’art. 550 c. 2 c.p.p. in cerca della figura più vicina. Troverebbe probabilmente un tertium comparationis plausibile, capace di far emergere una disparità di trattamento tra la cornice edittale “tradizionale” da una parte, e il più malleabile programma di prova dall’altra. Su questa china, come vedremo, si sono incamminate entrambe le ordinanze in commento.

4. La prima questione: il favoreggiamento reale (art. 379 c.p.) – La domanda posta alla Consulta dal giudice dell’udienza preliminare di Taranto riguarda la fattispecie prevista e punita dall’art. 379 c.p., il favoreggiamento reale. Al magistrato è stata infatti sottoposta un’istanza di ammissione alla messa alla prova dall’imputato di tale delitto, regolarmente corredata dall’indagine socio-famigliare dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna. Dagli accertamenti svolti, è emerso che il richiedente presenta tutte le caratteristiche personali del “messo alla prova” ideale: è incensurato, studia, ha espresso contrizione per l’accaduto; insomma: pone un basso rischio alla comunità. Il programma di trattamento proposto parrebbe idoneo, ma il reato esula dal campo delimitato dall’art. 168-bis c.p.; è infatti punito con la reclusione fino a cinque anni e non compare nell’elenco dell’art. 550 c. 2 c.p.p.

Ad avviso del rimettente, l’esclusione sarebbe irragionevole: la riforma del 2022, infatti, ha aperto le porte del giudizio speciale anche a reati che offendono più gravemente il medesimo bene giuridico. In particolare, il tertium comparationis su cui poggia l’argomento è l’art. 372 c.p. che punisce la falsa testimonianza. Chi depone il falso, nega il vero o tace fatti che gli sono noti è punito con la reclusione fino a sei anni, quindi: più gravemente di colui che aiuta altri ad assicurarsi il prezzo, il prodotto o il profitto di un reato; anche perché – chiosa il giudice di Taranto – la prima condotta è ben più pericolosa. A causa delle dichiarazioni di un testimone mendace, la libertà personale altrui potrebbe essere messa indebitamente a repentaglio; il favoreggiamento reale, invece, dovrebbe avere conseguenze sul solo patrimonio. Se la sospensione con messa alla prova può essere tollerata per la prima situazione, conclude il giudicante, a maggior ragione dovrebbe poter essere ammessa per la seconda.

L’argomentazione è lineare, ma sarebbe apparsa ancora più solida se si fosse aggiunto un altro tassello. La lista dell’art. 550 c. 2 c.p.p. comprende infatti anche la ricettazione (art. 648 c.p.p.) e, sebbene mirino a tutelare beni giuridici diversi, le due norme incriminatrici appaiono molto vicine sotto il profilo della condotta. Il favoreggiamento reale punisce chi «aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato» (art. 379 c. 1 c.p.); l’altra figura si rivolge a chi, «al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare» (art. 648 c. 1 c.p.). Il diverso «atteggiamento psicologico»[16] dell’attore marca la distanza tra le due norme: se la prima prevede che si agisca per aiutare l’autore del reato presupposto, la seconda è caratterizzata dalla volontà di trarre profitto per sé o per altri. Il confine, in pratica, non è sempre nitido, anzi: ad avviso di alcuni, questo distinguo non costituirebbe che un «diaframma evanescente»[17]. Inoltre, la ricettazione esibisce una cornice edittale sensibilmente più rigorosa, poiché prevede la reclusione fino a otto anni.

Alla luce di questi dati, i dubbi sull’esclusione dell’art. 379 c.p. dall’ambito di applicazione della messa alla prova sembrano prendere corpo: il rito speciale è già ammesso per reati puniti più severamente, che offendono il medesimo bene giuridico o che si realizzano con condotte praticamente identiche.

5. La seconda questione: la cessione di stupefacenti di lieve entità (art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990) – Più complessa è l’ordinanza del Tribunale di Padova, che chiede alla Consulta se l’esclusione dal perimetro della messa alla prova della detenzione e cessione di stupefacenti, nella sua forma di manifestazione più tenue (art. 73 c. 5 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309[18]), sia compatibile con il principio di eguaglianza-ragionevolezza (art. 3 Cost.) e con la «finalità rieducativa della pena» (art. 27 c. 3 Cost.).

Anche in questo caso, il Tribunale si è trovato innanzi a un soggetto privo di precedenti penali e di polizia, appena maggiorenne e che – narra l’ordinanza – è scoppiato in lacrime durante la convalida dell’arresto; interrogato, ha confessato gli addebiti e ha espresso il suo rimorso. La probabilità che una persona simile commetta altri reati, stando al giudice del giudizio direttissimo, è molto bassa; la messa alla prova chiesta dalla difesa parrebbe quindi un’opzione non solo percorribile, ma preferibile: un percorso mirato agevolerebbe il reinserimento sociale del giovane, permettendogli di mettersi al servizio della comunità. Il reato per cui si procede, però, è punito con la reclusione fino a cinque anni e non compare nell’elenco dell’art. 550 c. 2 c.p.p.[19]: è escluso, quindi, dall’ambito di applicazione del giudizio speciale.

A questo punto, l’ordinanza si articola esattamente come quella del giudice di Taranto: essa lamenta l’irragionevolezza dell’esclusione e dubita quindi della compatibilità del combinato disposto degli artt. 168-bis c.p. e 550 c. 2 c.p.p. con l’art. 3 Cost. Per completare la triade manca un tertium comparationis, individuato prontamente in un reato sanzionato più gravemente, che tutela il medesimo bene giuridico protetto dalla norma per cui vi è processo, ma che consente l’accesso alla sospensione con messa alla prova. Si tratta della fattispecie descritta dall’art. 82 c. 1 d.P.R. n. 309 del 1990: essa punisce l’istigazione, il proselitismo o induzione all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope con la reclusione da uno a sei anni[20], quindi: più severamente di quanto faccia l’art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990 per la cessione di stupefacenti «di lieve entità». Eppure, la prima compare nell’elenco dell’art. 550 c. 2 lett. c c.p.p.: per tale reato, dunque, il giudizio speciale può essere ammesso; per il piccolo spaccio no.

L’argomento, pur ben strutturato, non appare del tutto persuasivo: l’art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990 e l’art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990 si rivolgono a situazioni non del tutto omogenee; la prima è punita più gravemente, ma ciò non sembra abbastanza per ritenere il legislatore costituzionalmente vincolato a includere anche la seconda nel raggio della messa alla prova. Il secondo reato, infatti, può essere – e di fatto è – oggetto di politiche sanzionatorie differenti. Il massimo edittale dell’art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990 è stato portato da quattro a cinque anni nel 2023 – e, quindi, la figura è stata sottratta dall’ambito di applicazione della messa alla prova – in ragione dell’allarme e dell’insicurezza provocati dal fenomeno: non è detto che la scelta sia solida sul piano criminologico, né è certo che aumentare le pene abbia risvolti apprezzabili rispetto alla prevenzione generale (mentre potrebbe avere effetti negativi sul piano del sovraffollamento carcerario). La diversità di trattamento, però, non sembra evidentemente priva di qualunque giustificazione logica: può esprimere un orientamento di politica criminale legata alla diversa diffusione del reato e, quindi, all’impatto sociale della fattispecie. Sarebbe un ordine di cose certamente criticabile, ma non automaticamente illegittimo.

Ma il disallineamento, ad avviso del giudice rimettente, non sarebbe in attrito con il solo art. 3 Cost. Sarebbe anche contrario all’art. 27 c. 3 Cost. perché entrerebbe in conflitto con lo scopo tendenziale che la Costituzione assegna alla pena: la messa alla prova, con il pacchetto trattamentale che comporta, sarebbe infatti un’occasione preziosa per la rieducazione dell’imputato; non lo escluderebbe per un certo periodo di tempo dal consesso sociale, anzi: gli chiederebbe una prestazione attiva, controllata, che lo collocherebbe al centro di una rete di supporto e sorveglianza.

Quest’ultimo argomento appare tecnicamente scivoloso. È vero che il giudizio speciale è stato sempre esteso in nome della sua apprezzata natura special-preventiva[21], ed è anche vero che la Corte costituzionale ne riconosce ormai da tempo il carattere apertamente sanzionatorio[22]. Tuttavia, non si può dimenticare che si tratta comunque di un segmento del processo di cognizione: la messa alla prova arriva sempre prima di una condanna definitiva, anzi: vorrebbe proprio evitarla. La presunzione d’innocenza, nella sua accezione di regola di trattamento, dovrebbe essere ancora efficace: il fatto che la richiesta di procedere con quel rito speciale possa giungere dal solo imputato previene uno scontro frontale con l’art. 27 c. 2 Cost.; chiedere alla Consulta di applicare l’art. 27 c. 3 Cost. perché quelle forme di processo sarebbero più rieducative di una vera e propria pena – per di più, ancora ignota nell’ammontare e nella qualità[23] – sembra costituire quantomeno una sgrammaticatura[24].

Infine, è bene rammentare che l’efficacia rieducativa della messa alla prova è spesso affermata, ma non è suffragata da studi. Non esistono, allo stato, delle valutazioni empiriche sul tasso di recidiva dei soggetti, né delle comparazioni tra istituti simili, che si rivolgono a un’utenza paragonabile. Sicuramente la messa alla prova desocializza meno del carcere, ma siamo certi che, dal punto di vista special-preventivo, sia meglio del lavoro di pubblica utilità previsto dall’art. 186 c. 9-bis CdS, o della stessa prestazione ottenuta come pena sostitutiva? O che giovi al reinserimento più di una sospensione condizionale della pena ben mirata? Per rispondere, servirebbero dati che al momento non abbiamo.

6. Il dito e la luna – Le ordinanze, saggiamente, sottopongono al giudice delle leggi due domande puntuali e ben delimitate negli scopi; chiedono alla Consulta di vagliare la coerenza logica delle scelte del legislatore nella tutela penale di due determinati beni giuridici: per alcune fattispecie, è concesso il trattamento meno gravoso della messa alla prova; per altre, pur valutate dal legislatore in astratto come meno offensive, lo stesso beneficio risulta inammissibile.

L’impostazione presenta due pregi: si pone in continuità con la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di controllo di proporzionalità delle scelte sanzionatorie[25]; in più, consente ai giudici a quo di argomentare con relativa economia. Sottoporre alla Corte un fondato dubbio sulla cornice edittale delle fattispecie o sui requisiti d’accesso della messa alla prova per come stabiliti in generale dall’art. 168-bis c.p. avrebbe richiesto uno sforzo dimostrativo molto maggiore, probabilmente destinato all’insuccesso. Le questioni che abbiamo esaminato, invece, riducono la critica a un punto specifico; non contengono la dimostrazione matematica dell’arbitrarietà delle scelte legislative censurate, ma di certo forniscono abbastanza elementi per evidenziare incongruenze più o meno forti.

A questo riguardo, però, occorre intendersi: le questioni sono un sintomo; equivalgono al dito che, nel famoso proverbio, indica la luna. Il loro eventuale accoglimento limerebbe qualche asperità, ma non risolverebbe il problema di fondo. L’art. 168-bis c.p. continuerebbe a tracciare un confine malcerto e frastagliato, e continuerebbe quindi a prestare il fianco a un’infinità di censure come quelle che abbiamo esaminato: la Corte costituzionale, nel tempo, finirebbe per fare quel che il legislatore ha evitato – compilare un catalogo autonomo di reati che consentono l’accesso alla sospensione con messa alla prova – e l’art. 168-bis c.p. perderebbe ulteriormente mordente.

Un tale stillicidio si potrebbe evitare con una ordinanza di incostituzionalità differita: sollecitando il legislatore, la Consulta inviterebbe il Parlamento a tracciare un confine chiaro; a ridisegnare l’istituto in modo tale che emerga una scelta leggibile di politica criminale, ben ponderata e coerente. L’incessante lavorìo della dottrina e della giurisprudenza, del resto, ha prodotto almeno due alternative: alcuni hanno auspicato l’eliminazione di qualunque limite edittale, in modo da affidare sempre al magistrato una valutazione di opportunità[26]; altri, più convincentemente, hanno suggerito di ristrutturare il limite di ammissibilità della messa alla prova ancorandolo al minimo edittale, non al massimo[27]: in fondo, il giudizio speciale non mira a trattare la forma di manifestazione più grave possibile dei reati cui si rivolge; vuole anzi a gestire i fatti che appaiono di gravità medio-bassa, laddove commessi da persone che appaiono sostanzialmente stabili, o comunque non pericolose[28]. Se ci s’incamminasse per questa strada, il raggio d’azione della messa alla prova potrebbe essere decisamente rimodulato – probabilmente esteso – senza sacrificare l’uniformità di trattamento tra fattispecie simili. A quel punto, si leverebbe il giogo che ha fin qui appaiato l’art. 168-bis c.p. e l’art. 550 c. 2 c.p.p.: ciascuna delle due norme sarebbe libera di ritagliarsi una sfera applicativa indipendente, che risponde naturalmente a esigenze e principi diversi.

In una generale ristrutturazione dei presupposti oggettivi d’accesso, infine, si potrebbe trarre insegnamento dall’esperienza chiarendo una volta per tutte il valore delle circostanze – aggravanti e attenuanti – a effetto speciale e che prevedono una pena di specie diversa. Le disuguaglianze lamentate finora invano dalla Corte costituzionale, insomma, potrebbero essere ripianate.

*Ricercatrice senior in procedura penale presso l’Università di Bologna

 [1] Per una rapida rassegna statistica v., volendo, L. Bartoli, La sospensione con messa alla prova: l’ambiguità come paradigma, in D. Castronuovo-D. Negri (a cura di), Forme, riforme e valori per la giustizia penale futura, Jovene, Napoli, p. 432 ss.

[2] R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento, in Dir. pen. proc., 2014, p. 661 ss. Sulle proposte di riforma avanzate dalla dottrina di quella stagione torneremo infra, § 6.

[3] Cass., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 36272, in C.e.d., n. 267238-01.

[4] Secondo alcuni, anche troppo: A. Cisterna, Un istituto più esteso rispetto ai “confini” dettati dal codice, in Guida dir., 2016, f. 39, p. 60 ss.

[5] Cass., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 36272, cit., p. 11. Descrive la decisione come un «allargamento» anche Corte cost., 17 luglio 2023, n. 146.

[6] La giurisprudenza di merito non è sempre disciplinata a questo riguardo: v. Tribunale di Trento, Sez. g.u.p., ord. 31 ottobre 2018, inedita. Ne dà notizia E. Pividori, Messa alla prova dell’imputato, presupposti applicativi e rilievo delle circostanze attenuanti ad effetto speciale: l’orientamento favorevole della giurisprudenza di merito, in Cass. pen., 2020, p. 389 ss.

[7] Corte cost., sent. n. 147 del 2023, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis c.p. nella parte in cui non prevede l’accesso alla sospensione con messa alla prova per la fattispecie di omicidio stradale o nautico (art. 589-bis c.p.) che non sia «esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole» (art. 589-bis c. 7 c.p.): in tal caso, la pena base (reclusione da due a sette anni) può scendere fino alla metà.

[8] Cass., Sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, in C.e.d., n. 263125-01.

[9] Corte cost., 12 luglio 2022, n. 174, che ha dichiarato illegittimo l’art. 168-bis c. 4 c.p. «nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso».

[10] Cass., Sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 9064, in C.e.d., n. 284272-01.

[11] D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

[12] Per un chiaro e sintetico schema delle diverse movenze che il giudizio di ragionevolezza delle leggi penali può presentare v. N. Recchia, Le declinazioni della ragionevolezza penale nelle recenti decisioni della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2015, f. 2, p. 61 ss. Per una più ampia, sistematica e recente trattazione v. V. Manes, La proposizione della questione di legittimità costituzionale, in V. Manes-V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino, 2019, in particolare p. 344 ss.

[13] Corte cost., 8 marzo 2019, n. 40.

[14] Corte cost., 7 dicembre 2018, n. 233.

[15] Corte cost., 10 novembre 2016, n. 236.

[16] Cass., Sez. II, 22 gennaio 2018, n. 10980, in C.e.d., n. 272370-01.

[17] S. Seminara, Per un inquadramento sistematico dei delitti in materia di riciclaggio e di autoriciclaggio, in DisCrimen, 15 giugno 2023, p. 15. Al contributo si rinvia anche per una ricostruzione della «faticosa elaborazione» storica (p. 2 ss.) delle due fattispecie.

[18] Per comodità espositiva, parleremo di detenzione e cessione di stupefacenti: il caso sottoposto alla Consulta, del resto, si occupa di questa specifica situazione. È bene però ricordare che l’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 incrimina numerose condotte, descritte dai commi 1, 1-bis, 2, 3. Il comma 5 le abbraccia tutte, prevedendo un trattamento sanzionatorio decisamente ridotto per le condotte tipiche che «per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze» si mostrino «di lieve entità».

[19] Al momento della redazione del d.lgs. n. 150 del 2022, la fattispecie era punita con la detenzione fino al massimo di quattro anni: non poteva quindi figurare nel catalogo dell’art. 555 c. 2 c.p.p. perché rientrava già tanto nel perimetro della citazione diretta a giudizio in virtù dell’art. 550 c. 1 c.p.p., quanto nell’area di operatività della messa alla prova grazie alla soglia generale stabilita dall’art. 168-bis c.p. Il trattamento sanzionatorio è stato però modificato dal d.l. 15 settembre 2023, n. 123, convertito con modificazioni dalla l. 13 novembre 2023, n. 159, che ha portato il massimo edittale da quattro a cinque anni di reclusione, e ha quindi sottratto la fattispecie dall’ambito di applicazione di entrambi gli istituti.

[20] Per un esame della norma, v. Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2012, n. 47604, in Cass. pen., 2013, p. 3212 ss. con osservazioni di C. Renoldi, Le sezioni unite sulla messa in vendita, via Internet, di semi di canapa. Al contributo si rinvia tanto per un’accurata analisi della disciplina, quanto per la distinzione tra art. 82 e art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.

[21] Per tutti: Cass., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 36272, cit.

[22] Oltre alla già citata Corte cost., sent. n. 174 del 2022, v. anche: Corte cost., 14 giugno 2022, n. 146; Corte cost., 30 luglio 2020, n. 179; Corte cost., 6 luglio 2020, n. 139; Corte cost., 24 aprile 2020, n. 75; Corte cost., 29 marzo 2019, n. 68.

[23] L’art. 73 c. 5 d.P.R. n. 309 del 1990 presenta un minimo edittale pari a sei mesi di reclusione: da quella soglia sono accessibili istituti non dissimili dalla messa alla prova come le sanzioni sostitutive, o misure addirittura meno afflittive del giudizio speciale, come la sospensione condizionale della pena.

[24] Sulla natura anche processuale dell’istituto v. Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240.

[25] V. sopra, § 3.

[26] G. Tabasco, La sospensione della messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. pen. (web), f. 1, 2015, p. 7 s.; Id., La sospensione della messa alla prova: un istituto da riformare, IUS Pisa University Press, Pisa, 2019, p. 110 s.

[27] D. Pulitanò, Sulle attuali politiche del diritto penale, in Sist. pen. (web), 1 giugno 2023, p. 6, in particolare nota n. 22.

[28] Secondo l’ultima relazione disponibile, «l’imputato ammesso all’istituto, nella maggior parte dei casi, non è ancora avviato al processo deviante»; si tratta prevalentemente di «persone italiane di giovane età, con un’occupazione stabile e imputate per un reato di lieve entità, frequentemente legato alla violazione del codice della strada»: Relazione sullo stato di attuazione delle disposizioni in materia di messa alla prova dell’imputato (anno 2023), 10 maggio 2024, in senato.it.