L’ASCESA DELLA VITTIMA, IL CREPUSCOLO DELL’IMPUTATO. IL PENDOLO ALTERATO DEL PROCESSO PENALE – DI LUCA LUPARIA DONATI
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L’ASCESA DELLA VITTIMA, IL CREPUSCOLO DELL’IMPUTATO. IL PENDOLO ALTERATO DEL PROCESSO PENALE
THE RISE OF THE VICTIM, THE TWILIGHT OF THE DEFENDANT. THE ALTERED PENDULUM OF THE CRIMINAL PROCESS
di Luca Luparia Donati*
La posizione della vittima, nel nostro sistema di giustizia penale, è passata da una condizione di marginalizzazione a uno statuto di marcato protagonismo. Lo scritto analizza l’evoluzione di tale fenomeno, rimarcando tanto i rischi di erosione dei diritti fondamentali dell’accusato, quanto i pericoli di snaturamento del nostro modello processuale.
The position of the victim, in our criminal justice system, has moved, from a marginalisation condition to a status of marked prominence. The article analyses the evolution of this phenomenon, highlighting both the risks of erosion of the fundamental rights of the accused, and the dangers of distorting our procedural model.
Sommario: 1. Da dove cominciare. La protezione dell’accusato quale pietra d’angolo dell’architettura processuale. – 2. Storia di un vizio italiano: non era un Paese per vittime… – 3. …non è più un Paese per imputati? – 4. La primazia della persona offesa e la postura di Oblomov. – 5. Scelte impopolari.
- – Da dove cominciare. La protezione dell’accusato quale pietra d’angolo dell’architettura processuale.
Il disequilibrio, nella complessa architettura del processo penale, non porta mai a nulla di buono. Nel breve periodo è in grado di ledere singoli diritti fondamentali; nell’orizzonte temporale più esteso può provocare controreazioni altrettanto funeste. Chi voglia trovare conferme alla verità di tale assunto, può volgere lo sguardo a quanto accaduto, nel giro di pochi decenni, in merito al posizionamento della vittima – e, di riflesso, dell’accusato – nel nostro rito criminale. È una storia che merita di essere raccontata dal principio, perché su questo terreno si gioca molto della giustizia penale che verrà.
Nessuno può dubitare che il processo nasca ed esista per la protezione dell’imputato. Chi viene investito da una accusa dello Stato, infatti, soffre di una triplice condizione di svantaggio. Anzitutto, le forze e le risorse in gioco sono impari, perché, pur non vivendo nell’era delle monarchie assolute, il paradigma rimane sempre quello del Leviatano, munito di arsenale, che muove contro il singolo, dotato invece di armi spuntate[1]. L’addebito crea poi da subito una dissimmetria morale tra chi punta il dito e chi, vedendoselo alzato contro, è costretto a difendersi per colmare, risalendo la china, il divario etico già creatosi[2]. La semplice dichiarazione di rimprovero, infine, provoca una sproporzione anche sul piano logico e psicologico, giacché, come recenti studi hanno confermato, tutti noi – e quindi anche i giudici – quando dobbiamo controllare la verità di una affermazione, tendiamo ad andare in cerca solo dei casi positivi: siamo inclini a confermare un assunto piuttosto che a dimostrarne la falsità[3].
In questo contesto, ben sapendo oltretutto che la verità giudiziale è vestita di colori crepuscolari e non irradiata dalla luce meridiana del sole[4], il rischio di errore giudiziario è talmente significativo[5] che ciascun sistema auto-imbriglia il proprio incedere attraverso le norme del codice di procedura penale. Che servono appunto, prima ancora che ad assicurare la tutela dei valori costituzionali, a salvaguardare, per dirla con Carrara, i galantuomini, gli innocenti, dal concreto pericolo di una condanna ingiusta. È questa la corretta prospettiva per comprendere i pilastri della cultura processuale: dalla centralità del diritto al silenzio[6] alla caratura anti-epistemica delle regole probatorie[7], sino a giungere alla formula decisoria dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
- – Storia di un vizio italiano: non era un Paese per vittime…
I codici di procedura penale italiani, lungo tutto lo scorso secolo, hanno dunque – comme il faut – messo al centro del rito criminale il prevenuto, pur con livelli d’attenzione ai diritti fondamentali assai diversi a seconda del coté culturale del momento. Alle differenti sfumature garantistiche presenti nel trattamento dell’accusato ha sempre però corrisposto una uniforme e costante disattenzione per la posizione processuale (ed extraprocessuale) del presunto offeso, della vittima.
È una traiettoria storica ben conosciuta e sulla quale non vale quasi la pena di soffermarsi. Basterebbe sfogliare la letteratura del ‘900 per rinvenire continue denunce di arretratezza sul versante della tutela della persona che ha subìto l’illecito. “La vittima del reato: questa dimenticata”, proclamava ancora, sul finire del millennio, un noto convegno dell’Accademia dei Lincei celebrato dopo il passaggio tra vecchio e nuovo codice di rito[8].
Le ragioni di tale minorata attenzione erano molteplici ed eterogenee. In particolare, troppo urgente era stato, per lungo periodo, lo sforzo di conquistare spazi di garanzia per l’imputato, soprattutto nel contesto di fasi congiunturali autoritarie o di modelli giudiziari non prettamente liberali. Rispetto a tale esigenza, l’irrobustimento dei poteri e degli strumenti di protezione della vittima appariva spesso come un punto programmatico con basso grado di priorità nell’agire del Parlamento. Un sicuro contributo alla marginalizzazione, anche nelle dinamiche forensi, è stato altresì fornito da alcune matrici genetiche della nostra giustizia penale. Ne ricorderò qui solo due.
In primis, la tradizionale centralità, di ascendenza francese, della costituzione di parte civile[9], fattore spesso distorsivo ai nostri lidi, in quanto capace di mettere l’accento più sugli interessi economici che sulla domanda di giustizia reclamata dalla vittima e sui suoi diritti fondamentali “esterni” alla condizione di danneggiata. E ancora. La burocratizzazione del ruolo del pubblico ministero, forgiato sulla figura del Procuratore del Re, e, dunque, per statuto e animus, più interessato allo ius puniendi e alle esigenze dello Stato che alla tutela del privato colpito dal delitto, in una prospettiva assai differente da quella che connota il prosecutor di common law che, pur agendo in un sistema privo dell’azione civile in sede penale e ove l’offeso gioca un ruolo minimale, prende seriamente in carico le esigenze di quest’ultimo[10] sentendosi erede della antica stagione della private prosecution[11] in cui i panni di accusatore erano assegnati alla vittima stessa[12].
Un fotogramma centrale in questa rapida ricostruzione, quasi documentaristica, è rappresentato poi dalla epocale riforma dell’art. 111 Cost. Per riaffermare i capisaldi del modello accusatorio, di fronte al tentativo di una rabbiosa controriforma e di un progressivo depotenziamento pretorio del codice Vassalli, il legislatore tratteggiò il ritratto ideale del “giusto processo” come un “passo a due” tra accusa e difesa[13], senza prendere in considerazione, quale possibile soggetto compartecipe della liturgia processuale, la persona offesa. La scelta si spiega benissimo con il momento peculiare che stava vivendo la nazione. Dovevano venire riaffermati con fermezza, nel cuore della Carta costituzionale, i principi cardine dell’archetipo di giurisdizione penale da poco prescelto. Questione di sopravvivenza, si potrebbe dire. Benché se ne trovi traccia nei lavori parlamentari, non ci fu il tempo per attuare un disegno più ampio, come quello portato avanti da altri Paesi che, nello scolpire sulla pietra i diritti dell’accusato, hanno al contempo fissato anche le prerogative di altri attori del rito, come accaduto con il (quasi coevo) articolo preliminare al codice di procedura penale francese[14].
A un forte disequilibrio, già sedimentato nelle radici, tra la posizione dell’imputato e quella, subalterna ma non emarginabile, della vittima, si aggiungeva così un nuovo elemento che, per molti osservatori, avrebbe segnato la messa alla porta del soggetto passivo dall’edificio risagomato del nostro processo penale.
- -… non è più un Paese per imputati?
Mai previsione fu più errata. Se, infatti, l’orizzonte interno presentava i tratti appena delineati, occorreva fare i conti con la vigorosa spinta proveniente dalla giurisprudenza della Corte Edu e, soprattutto, dalla produzione normativa dell’Unione[15]. Sull’onda di un movimento teorico che era transitato dall’esperienza del processo Eichmann a quella delle Corti penali internazionali[16], dagli studi vittimologici[17] all’analisi del crescente fenomeno della violenza di genere, l’Europa iniziava a premere i Paesi membri verso un profondo cambio di paradigma, attraverso una lunga stagione di riforme che probabilmente verrà ricordata come la nuova età d’oro della vittima[18]. La decisione quadro n. 220 del 2001[19] e la Direttiva n. 29 del 2012[20] costituiscono solo le punte di diamante di un ventaglio di interventi che muovevano, anche a parere di chi scrive[21], verso un positivo rinnovamento, di matrice umanistica, della giustizia penale[22].
Quasi investiti da un elettroshock, molti Paesi, compreso il nostro, apprendevano – per rammentare solo alcuni punti focali – l’importanza di fissare nel codice i diritti delle vittime e di prevederne una chiara informativa all’inizio del procedimento; la centralità della traduzione e della interpretazione linguistica per l’offeso alloglotta; la necessità di prendere in carico la vulnerabilità delle persone che entrano nel circuito giudiziale[23] e di supportare, anche fuori dal processo, chi ha vissuto una esperienza drammatica; l’esigenza di mitigare rischi di vittimizzazione secondaria o pericoli di incolumità fisica esplorando nuovi congegni anticipatori delle audizioni, irrobustendo la formazione degli operatori e ridisegnando gli spazi delle aule giudiziali; l’opportunità di dar vita a ipotesi di giustizia riparativa nell’interesse dell’offeso slegate dalla mera prospettiva, per troppo tempo perseguita, di sfoltimento del carico giudiziale[24]. Più in generale, il partenariato europeo richiedeva di non frammentare lo statuto della vittima, quanto piuttosto di fornire alla stessa una precisa e chiara posizione – quale che fosse, secondo la tradizione di ciascun ordinamento – all’interno di ciascun modello processuale.
Una ventata, come detto, di doverosa modernità che, tuttavia, si innestava, per quel che concerne il nostro Paese, nella pregressa condizione di disequilibrio già descritta. Come affermato nell’incipit di queste pagine, emergevano dunque le condizioni per una controreazione non ponderata e irrazionale, cosa che, puntualmente, è accaduta. Dalla lezione europea di un processo che può dirsi équitable solo se capace di dosare sapientemente differenti interessi in gioco, l’Italia, come una cattiva allieva, ha imboccato invece il percorso di un’improvvisa, accentuata esaltazione di una figura prima marginalizzata, con conseguente recepimento dei suggerimenti sovranazionali (compresi quelli discendenti dai Trattati di Lanzarote e Istambul) in chiave acritica, talora meccanica, e, soprattutto, senza ricordare la pietra angolare del sistema, la protezione dell’imputato.
Eppure, anche gli studiosi che avevano visto con favore – e, come detto, chi scrive può essere annoverato tra questi – l’inizio del nuovo corso, non avevano mancato di segnalare i possibili rischi di un approccio irrazionale che non facesse tesoro di quanto già sperimentato in altri meridiani. L’esperienza sudamericana, ad esempio, aveva già mostrato come, nel venire incontro, senza filtri, alle richieste di tutela delle vittime, si determinasse uno snaturamento dell’intero impianto sostanziale e processuale.
Quello che è passato alla storia come il “neo-punitivismo”[25] era derivato appunto da una eccessiva polarizzazione verso la soddisfazione delle vittime, in nome ora delle famiglie dei desaparecidos, ora delle comunità colpite dal terrorismo senderista, ora delle popolazioni uscite da regimi dittatoriali, solo per richiamare alcune delle vicende più conosciute di quel continente. Una mutazione della stessa finalità del giudizio, piegato alle ragioni del dolore delle vittime e sommariamente rivolto ad estrarre verità appaganti per la pace sociale. L’accento posto sulla persona colpita dal delitto si era trasformato in sete di giustizia sommaria. La ricostruzione storica reclamata a gran voce da una massa di soggetti aveva indotto a potare i diritti dell’imputato.
Sotto altro angolo visuale, il rischio concreto era di spostarsi verso una dinamica di “privatizzazione” del sistema penale, con una sanzione che poteva assumere la finalità preminente di un ristoro rispetto alla brama di vendetta. Del resto, da quando la vittima ha fatto ingresso nella fase del sentencing nordamericano, ossia da quando è stato possibile, ad esempio, ascoltare la “voce” della famiglia delle persone uccise, si è registrato un aumento esponenziale dei casi di irrogazione della pena di morte. E i victim impact statements (le dichiarazioni fornite dalla vittima riguardanti l’impatto del crimine sulla sua sfera individuale e sociale) sono divenuti uno degli elementi essenziali per decidere entità della pena o concedibilità di un eventuale rilascio anticipato da parte del parole board. Nel mondo di common law, l’esecuzione della pena vede spesso protagonista l’offeso, non come ponte per il recupero del condannato o come testimone del suo percorso rieducativo, ma quale guardiano della severità della pena inflitta e di una sua applicazione che tenga grandemente in conto le aspettative di chi ha subito gli effetti, diretti o mediati, del reato.
Non vi è dubbio che un modello eccessivamente victim-oriented[26] porta con sé, inevitabilmente, il pericolo di una messa in discussione delle garanzie storicamente apprestate in favore dell’imputato. Se dunque la cultura contemporanea del rito criminale impone che, nel novero degli attori del rito, venga ricompresa anche la vittima, questo percorso non deve comportare il sacrificio dei diritti della persona accusata, peraltro assistita dalla presunzione iscritta nell’art. 27 della Costituzione[27].
Come moderne Cassandre, tuttavia, sono rimaste inascoltate le voci di chi predicava prudenza nella concessione, a larghe mani, di appannaggi processuali in favore dell’offeso[28]. Per passare dal digiuno alla grande bouffe, nell’indole italiana, è questione di pochi istanti. E così si è imboccata la strada che porta, se non a un precipizio, verso una dimensione alterata della nostra giustizia penale, priva oramai di un pendolo equilibrato, come il titolo di questo breve scritto già faceva intendere.
- – La primazia della persona offesa e la postura di Oblomov.
Non è questa la sede per catalogare tutti gli innesti nel tessuto codicistico che hanno saputo, nel corso degli ultimi anni, cambiare il volto del nostro rito e renderlo quasi arcigno nei riguardi della persona chiamata a difendersi dall’accusa sollevata dallo Stato. Le dinamiche più insidiose meritano, però, di essere richiamate.
Va esaminato, in prima battuta, il contesto extraprocessuale, quello che si situa appunto fuori dalle aule di giustizia ma che sarebbe ingenuo pensare che non sia in grado di influenzarle. Se, come afferma Vittorio Manes, la vittima è l’eroe contemporaneo, il chiavistello per schiudere la via a istanze punitive di matrice emozionale, l’accusato non può non subire, fin dalle prime fasi dell’inchiesta, il peso di esserne l’avversario. Un fardello amplificato dall’eco mediatica che spesso già preconizza il risultato di una partita, quella probatoria, ancora da giocare[29]. Una condizione che plasma le scelte difensive che, da libere che dovrebbero essere, divengono fatalmente e fortemente condizionate.
Veniamo al posizionamento dell’imputato sulla scacchiera processuale. La parte civile, quella figura processuale che Gian Domenico Pisapia voleva addirittura estromettere dal codice di stampo accusatorio, risulta da anni beneficiaria di un intollerabile lassismo che consente a “quasi danneggiati”, “danneggiati indiretti”, “enti forse rappresentativi”, e via dicendo, di vedersi riconosciute le stigmate di parte giudiziale, legittimata a sedere al banco delle vittime. Neppure la riforma Cartabia è riuscita a stemperare questo mal costume che rimpicciolisce la statura del prevenuto e lo conduce, in molti casi, a dover fronteggiare stuoli di accusatori privati che sbilanciano le geometrie sistematiche e ingolfano il motore processuale. Basterebbe rileggere la ratio del divieto di “due contro uno” nel giudizio criminale, così come magistralmente ricostruita da Daniel Pastor[30], per concludere che la misura appare davvero colma.
Non resta che affrontare, succintamente, le storture interne al procedimento determinate dagli esiti della stagione legislativa diretta a fornire protezione e poteri di impulso alla persona offesa. Premettendo che i diritti della vittima si possono suddividere in quelli a “costo zero” per l’accusato (si pensi alla più parte delle informative recentemente introdotte) e in quelli per loro natura erosivi delle prerogative di colui cum quo res agitur, non credo sia difficile individuare le direttrici perniciose verso cui il sistema sta muovendo.
Viene subito in rilievo lo slittamento della fase di ascolto della vittima, e di cristallizzazione probatoria del suo sapere, a uno stadio di gran lunga antecedente il momento dibattimentale. È in particolare l’incidente probatorio ad aver assunto dimensioni applicative del tutto dissonanti con i canoni del nostro modello processuale. Ampliamento dei casi di ammissibilità dell’istituto, sbarramenti al riascolto successivo della fonte testimoniale e, soprattutto, vaghezza di un concetto di vulnerabilità (legittimante la precostituzione probatoria) lasciato nelle mani del giudice con larghissimi spazi di discrezionalità, costituiscono fattori che, da un lato, mettono in evidente difficoltà l’attività difensiva dell’imputato, costretto a contribuire alla formazione di una prova – spesso decisiva – in uno stadio di non piena consapevolezza del dossier investigativo, e, dall’altro, sviliscono il ruolo del giudizio di primo grado e del canone di immediatezza. Proprio lo statuto di vulnerabilità, in assenza di una dettagliata disciplina, sta diventando un fattore destabilizzante per gli equilibri del rito, come emerso anche con riferimento al recente obbligo di documentazione fonografica o audiovisiva delle audizioni investigative delle persone “in condizioni di particolare vulnerabilità”[31].
Ancor più pernicioso, se possibile, appare il fenomeno di sottrazione al fuoco della cross-examination di molte persone offese chiamate a testimoniare (dai minori alle c.d. super-vittime, dai soggetti passivi della violenza di genere ai soggetti genericamente vulnerabili)[32]. Il metodo dell’esame incrociato, la possibilità di affrontare a viso aperto e senza schermi il proprio accusatore, la marginalizzazione del potere di domanda del giudice rappresentano forse le perle più preziose della cultura processuale racchiusa nel codice del 1988. L’assetto normativo e l’applicazione giurisprudenziale le stanno purtroppo relegando alla condizione di piccole “perle di fiume” di importanza minore rispetto all’idolum della protezione della fragilità della presunta vittima. Si tratta, in realtà, di pilastri non negoziabili, se non in minima parte, della maniera che abbiamo prescelto per raggiungere la verità giudiziaria. Bisognerebbe forse riprendere un dibattito antico, oramai sopito, circa la possibilità, in taluni casi, di rinunciare alla verifica giudiziale del fatto quando la debolezza psichica del dichiarante, che certamente va tutelata, risulti incompatibile con le regole auree di formazione della prova. Di fronte a due fragilità, quella della vittima (che non potrebbe reggere un esame rispettoso dei canoni del due process) e quella dell’imputato (che non sarebbe in grado di difendersi adeguatamente con forme impoverite di contradittorio), non pare un’eresia pensare che la macchina del processo possa decidere di non procedere ulteriormente e a ogni costo.
Qualche breve annotazione merita anche il tema del procedimento cautelare, quello che un tempo era il giardino proibito per la vittima, in quanto espressione di un rapporto esclusivo, puramente pubblicistico, tra potere statuale e persona attenzionata dall’inchiesta giudiziale. Anche secondo tale angolo visuale, la metamorfosi del nostro processo risulta manifesta, non soltanto per il proliferare di misure restrittive della libertà dell’indagato pensate già ab origine nell’interesse del soggetto passivo, quanto per la possibilità lasciata all’offeso di interloquire direttamente, ad esempio in fase di richiesta di revoca del provvedimento, su un oggetto storicamente precluso. Oltre al dato codicistico, peraltro, non possono essere sottaciute le prassi forensi, costellate di atti di denuncia-querela contenenti dirette “richieste” di misure cautelari o di consultazioni atipiche del difensore della vittima da parte di inquirenti e giudici per le indagini preliminari.
La direttrice verso cui stiamo dirigendo i nostri passi sembra tracciata, se solo si pone mente alle recenti riforme[33] e alle proposte normative pendenti, atte ad accerchiare cautelarmente il prevenuto sul piano processuale, amministrativo e preventivo. Programmi di profilassi della violenza richiamati inopinatamente nel codice di procedura penale, inedite ipotesi di vigilanza dinamica, misure di prevenzione personali applicabili ai soggetti indiziati dei delitti di atti persecutori, violenza di genere o domestica, priorità (con effetti di impulso implicito) alle richieste cautelari da presentarsi entro trenta giorni dall’iscrizione della persona nel registro ex art. 335 c.p.p., arresti in flagranza differita per violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, nuove misure precautelari (come nel caso degli allontanamenti urgenti dall’abitazione) sono indici di una sempre maggiore automaticità cautelare in presenza di vittime vulnerabili e di una situazione, nei fatti, insostenibile per un indagato spesso costretto a deporre le armi defensionali al cospetto di una offensiva preventiva multilivello che non lascia scampo.
Alla luce di uno scenario così allarmante, quale appare la postura della classe politica e di chi può incidere in favore di un rapido cambio di rotta? Assomiglia molto all’atteggiamento tipico di Oblomov[34], il magnifico personaggio ideato da Gončarov che, di fronte alla possibilità di attivarsi, «si muove, cambia posizione, si gira su un fianco, poi sull’altro, incredibilmente si solleva, tende un braccia e si guarda intorno, ispirato, ma poi (…) propositi e sforzi si sgonfiano, svaniscono nel nulla».
- – Scelte impopolari.
“Ognuno ha i difetti dei propri pregi”. È uno degli adagi che, prima facie, sembrava meglio calzare alle riflessioni che stiamo conducendo. La ricerca di una adeguata posizione della vittima nel nostro sistema processuale, in linea con nuove sensibilità e obblighi sovranazionali, aveva sì prospettato, fin da subito, elementi di negatività, ma i “difetti” potevano sembrare, in principio, lievi ombre, presenti in fondo anche in un paesaggio soleggiato. Come abbiamo visto, tuttavia, la logica dei “minimi effetti collaterali” risulta alquanto fuorviante, specie quando i risvolti negativi, come sta accadendo oggi, finiscono con il sovrastare la pregevolezza dell’iniziale intento. Non credo ci sia altro da aggiungere dopo la rassegna, appena illustrata, degli attuali effetti destabilizzanti dell’architettura processuale e delle pesanti ripercussioni sulla tenuta dei diritti fondamentali dell’accusato.
Se ci si vuole interrogare, per così dire, sulle prossime mosse, non resta allora che rispondere suggerendo di tenere fermo il timone, ponendosi in una condizione, direbbero gli anglosassoni, di stand still. La storia della procedura criminale ci insegna, infatti, che bisogna trovare la forza di scelte impopolari e drastiche quando il congegno procedurale rischia il tilt. Occorre dunque bloccare qualsivoglia iniziativa potenzialmente capace di sbilanciare ulteriormente i piatti della bilancia che ospitano, su due fronti opposti, l’imputato e la vittima.
Per questa ragione, la ipotizzata riforma dell’art. 111 Cost., atta ad inserire la persona offesa nel sancta sanctorum del giusto processo («La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato»)[35], appare inopportuna. Per i tempi, per la fase storica che stiamo attraversando, per la ubicazione prescelta, non certo per un dato contenutistico che potrebbe, in astratto, essere condivisibile. Operare questo intervento, solo apparentemente di microchirurgia costituzionale, vorrebbe infatti dire ratificare, offrire una copertura a una parabola evolutiva che merita invece un rapido rallentamento.
L’urgenza è piuttosto quella di riaprire la “stagione dell’imputato”, per troppo tempo rimasta congelata. Solo dopo avere riequilibrato il pendolo del processo penale si potrà ripensare a quell’intervento sulla Carta, al momento non così urgente. Come affermava Kafka, di cui ricorrono in questi giorni i cento anni dalla morte, «tutti gli errori umani sono frutto dell’impazienza». Meglio fare tesoro dell’insegnamento.
Non per questo il legislatore deve restare inerte nel rafforzamento della generale tutela delle vittime. C’è un terreno che da troppo tempo attende di essere calcato e che non concerne direttamente la dinamica processuale: quello dei servizi pubblici sul territorio per tutte le categorie di persone offese e della rete di assistenza extraprocessuale che coordini le associazioni private già esistenti. Si registrano precise indicazioni europee con riferimento a tale esigenza e l’Italia è ferma da anni, nonostante le esperienze virtuose presenti in nazioni a noi vicine[36].
Strumentalizzare la vittima per finalità di politica criminale, a spese dell’imputato, non costa nulla e porta consensi; supportare effettivamente le persone colpite dal reato significa dover aprire il portafoglio erariale e ottenere risultati a distanza di anni. La civiltà giuridica di un popolo, però, si misura sulla capacità dei suoi rappresentanti di assumere scelte anche impopolari, accompagnate da uno sguardo lungo e da una robusta dose di equilibrio.
*Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi Roma Tre
[1] O. Sidhu, The Concept of Equality of Arms in Criminal Proceedings under Article 6 of the European Convention on Human Rights, Cambridge, 2011.
[2] F. Tricaud, L’accusation. Recherche sur les figures de l’agression étique, Paris, 1977.
[3] L. Macchi, La psicoretorica: dall’arte del dire alla forma del pensiero, Milano, 2024.
[4] G. Capograssi, Giudizio, processo, scienza, verità (1950), in Id., Opere, vol. V, Milano, 1959, p. 6; R. Eggleston, Prova, conclusione probatoria e probabilità, Milano, 2004.
[5] L. Lupária Donati (a cura di), L’errore giudiziario, Milano, 2021.
[6] L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000; D. Negri, Diritto al silenzio e verità estorte. Regressioni della storia, reticenze dell’Europa, ipocrisie domestiche, in L. Stortoni – D. Castronuovo (a cura di), Nulla è cambiato? Riflessioni sulla tortura, Bologna, 2019, p. 161.
[7] A. Stein, Foundations of Evidence Law, Oxford, 2005; B. Cavallone, Le prove nel nuovo millennio. Programmi per il passato, in Riv. dir. proc., 2022, p. 525 ss.
[8] AA.VV., La vittima del reato, questa dimenticata, Roma, 2001.
[9] L. Lupária Donati, L’original et la copie. La constitution de partie civile en Italie entre modèle français et débat national, in M. Boudot – M. Faure-Abbad – D. Veillon (a cura di), Responsabilité contractuelle et responsabilité extracontractuelle, Poitiers, 2019, p. 259.
[10] A. Martini, La victime en Angleterre: “une formidable absence, partout présente”, in G. Giudicelli-Delage – C. Lazerges, La victime sur la scène pénale en Europe, Parigi, 2008, p. 68.
[11] Juan Cardenas, The Crime Victim in the Prosecutorial Process, in Harv. J.L. & Pub. Pol’y, vol. 9, 1986, p. 357.
[12] E. Dezza, Breve storia del processo penale inglese, Torino, 2009, p. 123.
[13] E. Grande, Dances of Justice: Tango and Rumba in Comparative Criminal Procedure, in Global Jurist, vol. 9, 2009, p. 4.
[14] C. Lazerges, Le renforcement des droits des victimes par la loi n. 2000-516 du 15 juin 2000, in Arch. pol. crim., n. 24, 2002, p. 15.
[15] M. Pisani, Per uno “statuto” europeo delle vittime dei reati, in Istituto Lombardo (Rend. Lett.), n. 136, 2002, p. 421.
[16] C. Meloni, Le vittime nel procedimento davanti alla Corte penale internazionale, in AA. VV., Studi in onore di Mario Pisani, vol. II, Piacenza, 2010, p. 387.
[17] H. von Hentig, The Criminal & His Victim: Studies in the Sociobiology of Crime, New Haven, 1948; L. J. Moriarty – R. A. Jerin, The Victims of Crime, Chicago, 1998; M. Del Tufo, voce Vittima del reato, in Enc. Dir., vol. XLVI, Milano, 1993, p. 996.; De Farro, Il soggetto passivo del reato nell’aspetto criminologico: la così detta “vittimologia”, in Sc. Pos., 1970, p. 228.
[18] D. Soulez-Larivière – C. Eliacheff, Le temps des victimes, Paris, 2007.
[19] T. Armenta Deu – L. Lupária Donati (a cura di), Linee guida per la tutela processuale delle vittime vulnerabili. Working paper sull’attuazione della decisione quadro 2001/220/GAI in Italia e Spagna, Milano, 2011.
[20] L. Lupária Donati (a cura di), Victims and criminal justice, Kluwer, 2015.
[21] L. Lupária Donati, L’Europa e una certa idea di vittima (ovvero come una direttiva può mettere in discussione il nostro modello processuale), in R. Mastroianni – D. Savy, L’integrazione europea attraverso il diritto processuale penale, Napoli, 2013, p. 91.
[22] L. Lupária Donati – J. Della Torre, Victims of crime in the Area of Freedom, Security and Justice, in S. Iglesias Sanchez – M. Gonzalez Pascual (a cura di), Fundamental Rights in the EU Area of Freedom, Security and Justice, Cambridge, 2021, p. 312.
[23] B. Romanelli, La persona offesa vulnerabile nel procedimento penale, Milano, 2023; H. Belluta, Un personaggio in cerca d’autore: la vittima vulnerabile nel processo penale italiano, in S. Allegrezza-H. Belluta-M. Gialuz-L. Luparia Donati, Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, Torino, 2012, p. 95.
[24] M. Bouchard – F. Fiorentin, La giustizia riparativa, Milano, 2024; G. Mannozzi, La giustizia senza spada: uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003.
[25] D. Pastor, Neopunitivismo y neoinquisición : un análisis de políticas y prácticas penales violatorias de los derechos fundamentales del imputado, Buenos Aires, 2008.
[26] A. Crawford – J. Goodey, Integrating a Victim Perspective within Criminal Justice, Dartmouth, 2000.
[27] L. Marafioti, Presunzione di innocenza e diritto di informazione: una difficile convivenza, in Ind. pen., 2022, p. 79.
[28] L. Lupária Donati, Reflexiones sobre el estatuto de la victima en el proceso penal italiano, in Rev. Der. Fund., vol. 8, 2012, p. 99.
[29] V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022.
[30] D. Pastor, La víctima y los delicados equilibrios del proceso penal: una reflexion comparada, in Dir. pen. cont., 1 dicembre 2014.
[31] Art. 357, comma 3-ter, art. 373, comma 2-quater e art. 391 ter, comma 3-ter, c.p.p.
[32] O. Mazza, Il contraddittorio attutito di fronte ai testimoni vulnerabili, in D. Negri – R. Orlandi (a cura di), Le erosioni silenziose del contraddittorio, Torino, 2017, p. 83.
[33] Legge 24 novembre 2023, n. 168, Contrasto alla violenza sulle donne e domestica.
[34] Ivan Aleksandrovič Gončarov, Oblomov [1859], Torino, 1933.
[35] Oggetto di ben quattro disegni di legge costituzionale: A.S. n. 427 (Iannone e altri); A.S. n. 731 (Marton e altri); A.S. n. 888 (Parrini e altri); A.S. n. 891 (De Cristofaro), unificati poi in un unico testo nella Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica.
[36] L. Luparia Donati – R. Parizot, Quali buone prassi in materia di protezione delle vittime?, in Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, Padova, 2015, p. 337.