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L’AUTUNNO DEL DIRITTO – DI FRANCESCO PETRELLI

L’AUTUNNO DEL DIRITTO – DI FRANCESCO PETRELLI

PETRELLI – L’AUTUNNO DEL DIRITTO.PDF

di Francesco Petrelli

  1. LA PANDEMIA E L’EMARGINAZIONE DEL DIRITTO. 2. IL VALORE DEI VALORI. 3. LE RIFORME INFORMI. 4. LA POLITICA SENZA DIRITTO.

 

La crisi pandemica ha stressato i legami istituzionali e prodotto e imposto una rete di nuove prescrizioni e di nuove regole comportamentali. Nel mondo della giustizia non riusciamo a distinguere fra i vari mutamenti. La parola del diritto si è eclissata progressivamente dalla scena. Occorre indagare, assieme all’impatto della pandemia sul processo in sé, anche quella crisi ben più profonda che sembra investire il nostro stesso rapporto con il processo. La dissolvenza incrociata fra l’immagine reale del processo e quella costruita dal mito del populismo stenta a fermarsi su di una rappresentazione definitiva. Sullo sfondo la totale mancanza di una visione della giustizia, della sua dimensione costituzionale e dei suoi ambiti ordinamentali e la rinuncia ad ogni proposito di riforma davvero radicale. La metafora dell’autunno è quella capace di cogliere l’incertezza di una crisi che mette tutto e tutti “in un punto”, i disagi del singolo e i turbamenti della collettività, il principio di autorità e quello di libertà, la mortificazione del processo e la celebrazione dei suoi miti di rapida e risolutiva palingenesi della società. Il diritto e il suo sapere devono tornare ad essere strumenti fondamentali della politica perché solo una politica forte del diritto può tornare a legittimare la legalità.

1. LA PANDEMIA E L’EMARGINAZIONE DEL DIRITTO.

La lunga onda della pandemia, che ha in pochi mesi sconvolto le nostre vite e il nostro lavoro, non accenna a ritrarsi. La crisi ha stressato i legami istituzionali e prodotto e imposto una rete di nuove prescrizioni e di nuove regole comportamentali, costringendo ciascuno di noi a misurarsi con le più disparate ed insolite compressioni della libertà individuale e collettiva, dentro e fuori il processo.

Una sequenza di modificazioni delle nostre relazioni con il mondo di tali dimensioni che avrebbe dovuto in qualche modo illuminarci sui rapporti che ordinariamente corrono in ogni moderna democrazia fra libertà e illibertà, fra esercizio dei diritti e manifestazioni dell’autorità, fra emergenza e caduta delle garanzie, e che ha invece confuso i nostri moduli di pensiero.

Se proviamo, infatti, ad interrogarci su cosa sia rimasto inalterato e su cosa sia invece mutato nel mondo della giustizia penale, proviamo un qualche disagio derivante dalla incapacità – o forse impossibilità – di distinguere fra i mutamenti che condizionano i nostri comportamenti quotidiani oramai incisi dalla consuetudine[1], e quelli che, al contrario, incidono più in profondità sul nostro modo di percepire e di intendere il processo.

È come se quelle profonde mutazioni che hanno coinvolto l’agire stesso degli operatori del diritto, modificando nelle loro cadenze pratiche i tempi, i modi e l’ambiente del processo, facessero da schermo alla visione ed alla comprensione di quel cambiamento più radicale che ha coinvolto l’immagine dell’intero universo giudiziario e la percezione del suo stesso divenire.  Come se tutto l’armamentario pandemico, con i suoi diaframmi e i suoi gadget protettivi che si frappongono alle ordinarie relazioni con il mondo esterno, ci avesse proiettati in un universo distopico dal quale è difficile guardare il mondo nel suo reale trasformarsi.

Ed è come se le categorie consuete del giusto e dell’ingiusto, del provvisorio e del duraturo, del plausibile e dell’impossibile si fossero in qualche modo dissolte e tutti noi fossimo così precipitati in un contesto ambiguo nel quale non vi è più nulla di troppo nuovo e di troppo ingiusto che non possa essere accettato o anche semplicemente sperimentato e nulla di tanto giusto ed autorevole e di così radicato nella storia delle nostre libertà che non possa essere abbandonato.

Questo profondo e progressivo slittamento di senso ha fatto sì che quelle compressioni e limitazioni delle libertà personali e delle garanzie processuali non siano state percepite come altrettante compromissioni dei diritti, ma come semplici accidenti, tanto sgradevoli quanto provvisori, comunque giustificati dall’emergenza. Non come intrusioni dell’autorità, ma come semplici eventi collettivi. Come se le categorie stesse del diritto fossero state emarginate dal discorso, e sostituite da quelle proprie della cronaca e della politica, da tutto ciò che quindi sta prima o dopo il diritto.

2.IL VALORE DEI VALORI.

Ciò non significa che si sia precipitati inavvertitamente all’interno di una esperienza di perdita delle libertà, ma che la percezione del valore delle nostre libertà si sia offuscata e che la parola del diritto, piuttosto che porsi al centro delle nostre riflessioni sui delicati bilanciamenti valoriali che la pandemia ci impone, si è eclissata progressivamente dalla scena.

Ciò che ci si prospetta è dunque l’opportunità di indagare, assieme all’impatto della pandemia sul processo in sé, anche quella crisi ben più profonda che sembra investire il nostro stesso rapporto con il processo, con i suoi valori di riferimento e con i suoi principi fondanti, ovvero con il “valore dei suoi valori”, e dunque con la stabilità del suo intero contesto ideologico, interrogandoci sulla natura e sul senso di questa nuova condizione e sugli strumenti che possano aiutarci a decifrarla e a superarla.

Una indagine per comprendere in che misura questa crisi sia da porre in relazione con mutamenti di lungo termine, se cioè si tratti di un semplice passaggio o del manifestarsi di una vera e propria frattura di cui la pandemia rappresenta solo l’evento scatenante, il punto di rottura di una tensione accumulata lungo una faglia che attraversa trasversalmente, da tempo, le nostre società democratiche, mettendo in discussione le categorie paradigmatiche dei nostri stessi sistemi di pensiero, giuridici, sociologici e politici[2].

Per comprendere, infine, se sia la crisi “comunicativa” indotta dalla pandemia a impedirci di parlare nella società la lingua del diritto o se questa lingua si sia per altre ragioni del tutto inaridita e non sia più moneta corrente per una politica che ha da tempo disinvestito dal confronto con la più profonda realtà del processo penale, e per una collettività oramai adusa a cogliere dell’esperienza processuale solo il ghigno dell’afflizione punitiva.

Questa crisi cade, peraltro, in un momento di grave incertezza nel quale sono giunte ad emersione ideologie che non solo intendono mettere in dubbio la legittimità del nostro modello processuale, ma che sono volte a dimostrare come i tempi siano oramai maturi per una inversione di rotta, per una presa di coscienza della obsolescenza dei valori e degli “abiti mentali”[3] stessi sui quali poggia la nostra cultura della legalità sostanziale e processuale[4].

3.LE RIFORME INFORMI.

La dissolvenza incrociata fra l’immagine reale del processo e quella costruita dal mito del populismo, stenta – a causa di questa crisi perdurante – a fermarsi su di una rappresentazione definitiva.

Riformata la prescrizione, resta infatti sul tappeto la riforma del processo: dopo il suo roboante lancio mediatico risalente a più di un anno fa, se ne conoscono solo le poche aree di intervento e le modestissime idee che la sostengono, all’interno di uno spazio di elaborazione del tutto privo di orientamento.

Sembra trattarsi di quella che i sociologi chiamano “fase zapping” tipica delle età di passaggio dove si tentano esperienze a caso al di fuori di ogni visione programmatica[5].

Quel che è certo è che si tratterà di una riforma che sarà inevitabilmente condizionata dalla nuova prescrizione il cui decorso si interrompe con la sentenza di primo grado (anche nel caso di sentenza assolutoria sottoposta ad impugnazione del pubblico ministero): ovvio che in un sistema così sbilanciato l’asse del giudizio sarà portato a gravare solo su quella decisione sulla quale tuttavia peserà interamente l’onere di evitare l’esito estintivo (al quale restano sostanzialmente estranei il pubblico ministero e giudice per indagini preliminari e giudici delle impugnazioni). Facile immaginare quali siano le conseguenze di una simile impostazioni in termini di compressione delle garanzie difensive e della stessa estensione cognitiva da parte del giudice.

L’efficientizzazione che aveva ispirato le precedenti riforme si è evoluta in pura velocizzazione che, fingendosi ingenua, attacca frontalmente alcuni principi dell’accusatorio: la effettiva conoscenza del processo (già debolmente sostenuta dalle presunzioni) trasferita sul difensore; i riti alternativi tanto striminziti dal doppio binario da finire su di un binario morto; l’oralità e immediatezza spazzati via dalla riutilizzazione dell’atto scritto; il giudizio di appello disarticolato e depresso dalla massiva introduzione del giudice monocratico; le fasi procedimentali e processuali prive di ogni reale sorveglianza.

Quella che doveva essere una riforma “compensatrice” finisce invece con lo scardinare quel che del modello accusatorio era rimasto, creando un processo asfittico dove non solo e non tanto i diritti e le garanzie di difesa vengono compressi, ma dove è sottratto lo spazio stesso all’interno nel quale esercitarli.

E, sullo sfondo, la totale mancanza di una visione della giustizia, della sua dimensione costituzionale e dei suoi ambiti ordinamentali e la rinuncia ad ogni proposito di riforma davvero radicale: della crisi del Consiglio Superiore della Magistratura si colgono solo gli aspetti marginali, ci si accanisce con l’epifenomeno lasciando del tutto inalterato l’abisso di incoerenza istituzionale e ordinamentale che lo condiziona.

4.LA POLITICA SENZA DIRITTO.

La metafora dell’autunno è quella capace di cogliere l’incertezza di una crisi che mette tutto e tutti “in un punto”, i disagi del singolo e i turbamenti della collettività, il principio di autorità e quello di libertà, la mortificazione del processo e la celebrazione dei suoi miti di rapida e risolutiva palingenesi della società.

Occorre, dunque, non solo sottrarsi alle suggestioni retoriche, ma anche tornare al “diritto” con forza e con convinzione, recuperarne la dimensione reale, rispettandone l’autonomia e la coerenza. Recuperandone la naturale capacità di essere uno strumento di conoscenza e di trasformazione sottraendolo a quella emarginazione ideologica alla quale anche la pandemia – in questa dissolvenza incrociata delle categorie – lo sta condannando.

La politica si è da tempo liberata del diritto, rinnegandolo e disconoscendolo come l’ultimo odioso residuo della intermediazione. Non un valore in sé, consustanziale all’essenza stessa della politica, ma un misero arnese della declamazione e della narrazione populista, semplice strumento tecnico per veicolare il messaggio di turno al pubblico plaudente.

Le distanze scavate nel tempo fra politica e diritto si sono manifestate inaspettatamente nel drammatico – spesso irriducibile – conflitto, acuito dalla crisi globale in atto, fra valori e diritti di rango costituzionale (economia contro salute; salute contro lavoro; libertà individuali e giusto processo contro salute collettiva) nell’ambito del quale il diritto è rimasto silente.

Il diritto e il suo sapere devono tornare ad essere, dunque, strumenti fondamentali della politica perché solo una politica forte del diritto può tornare a legittimare la legalità. Ed è la legalità – come alleanza di politica e diritto – che può restituire valore a quella rappresentanza democratica finita anch’essa all’interno di un conflitto (numero dei rappresentanti contro qualità della rappresentanza) che rischia di travolgere la base politica dello stesso potere legislativo, senza la quale anche la legge ed i princìpi della legalità sono destinati ad indebolirsi ulteriormente.

Il nostro incedere consiste in un continuo perdere l’equilibrio per riconquistarne solo provvisoriamente un altro, ma in questo incerto sviluppo la politica giudiziaria ha da tempo smarrito la sua bussola, mentre in questo mare tempestoso si dovrebbe quantomeno decidere la direzione da prendere perché purtroppo “nessun vento è favorevole quando non si conosce la rotta”.

[1] M. de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano 2016, p. 99: dove si osserva che “… la consuetudine è in verità una maestra di scuola prepotente e traditrice”.

[2] Z. Bauman, La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna 1999, p. 27 ss.

[3] Ch. S. Peirce, Le leggi dell’ipotesi. Antologia dei Collected Papers, Bompiani, Milano 2002, p. 69 ss.

[4] P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Bari 2006, p. 254; il quale osserva: «Ci stiamo allontanando sempre più dal paesaggio chiaro e semplice di ieri, troppo chiaro e semplice per poter rispecchiare fedelmente il sottostante assetto sociale in tutta la sua reale complessità. Gli idoli venerati della vecchia mitologia giuridica della modernità appaiono in buona parte infranti: statualità del diritto, legge, principio di rigidissima legalità, principio di rigidissima separazione dei poteri».

[5] W. Eilenberger, Il tempo degli stregoni, Feltrinelli, Milano 2018, p. 103.