Enter your keyword

L’EMERGENZA CARCERARIA NON È UN INCENDIO AL DI LÀ DEL FIUME – DI GLAUCO GIOSTRA

L’EMERGENZA CARCERARIA NON È UN INCENDIO AL DI LÀ DEL FIUME – DI GLAUCO GIOSTRA

di Glauco Giostra

Non crediamo sia seriamente contestabile che l’attuale sovraffollamento costituisca un fattore esponenziale del rischio epidemia: rende estremamente difficile la prevenzione; quasi impossibile il contenimento e la cura del contagio. Se si vuole evitare che la situazione sfoci in una conclusione drammatica è anzitutto necessario, sebbene naturalmente non sufficiente, che la popolazione detenuta torni entro i limiti della recettività penitenziaria. Se non si vuole intervenire per un atto di giustizia, lo si faccia a tutela della sicurezza sociale, poiché se il virus comincia a circolare nelle vene penitenziarie sarà impossibile fermarlo entro le mura del carcere. Ancora una volta i provvedimenti che farebbero bene alla popolazione penitenziaria, farebbero bene alla società tutta. È tempo che chiunque abbia suggerimenti per cercare di disinnescare questa esplosiva situazione li proponga e che i decisori politici adottino con urgenza quelli ritenuti più efficaci e con minori controindicazioni. Coloro che sono intenti soltanto a enfatizzare queste ultime per criticare ogni proposta avanzata, hanno il dovere di indicare opzioni alternative, a meno che non siano già cinicamente rassegnati all’idea che “il cimitero dei vivi” da icastica metafora turatiana possa divenire un’inconfessabile soluzione.

È bene iniziare da ciò che purtroppo risulta ormai evidente: nell’attuale calamità socio-sanitaria l’universo carcerario è una miccia già accesa. «Verità che – per ricorrere alle parole usate da Alessandro Manzoni, guarda caso, nella sua Storia della colonna infamepuò parere sciocca per troppa evidenza, ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero essere sottintese, sono in vece dimenticate». Se questo dannato virus riesce ad entrare in un penitenziario, vi rinviene il suo ambiente ideale per una rapida e inarrestabile diffusione: tutte le raccomandazioni insistentemente ripetute per contrastare il contagio (distanziamento sociale, dispositivi protettivi, igiene personale, sanificazione ambientale) vi trovano, infatti, puntuale inosservanza.  
 
Non crediamo sia seriamente contestabile che l’attuale sovraffollamento costituisca un fattore esponenziale del rischio epidemia: rende estremamente difficile la prevenzione; quasi impossibile il contenimento e la cura del contagio. Se si vuole evitare che la situazione sfoci in una conclusione drammatica è anzitutto necessario, sebbene naturalmente non sufficiente, che la popolazione detenuta torni entro i limiti della recettività penitenziaria.
 
Prima di riflettere su quali possano essere le vie per conseguire un tale obbiettivo, è doveroso precisare che il sovraffollamento non è dovuto all’ inadeguata capienza delle strutture, che non sarebbero in grado di far fronte ad una montante criminalità, come certo sconsiderato giustizialismo vuole far credere. Anzi, l’indice dei reati, in particolare dei delitti più gravi, è da tempo declinante, ma ciononostante la nostra popolazione penitenziaria in trent’anni è praticamente raddoppiata. Agli inizi degli anni Novanta, infatti, constava di 31000 unità per seguire poi una inesorabile crescita, sino a raggiungere le 68000 unità nel 2010, rispetto ad una capienza di circa 50000 posti letto. Situazione che, come è dolorosamente noto, ci portò nel 2013 ad una umiliante condanna per trattamenti inumani e degradanti da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani). Oggi la popolazione carceraria oscilla intorno alle 60000 presenze, pericolosamente più lontana dalla sua capienza ordinaria che dal livello che ci procurò l’ustionante censura appena ricordata.  Una volta usciti dall’emergenza, dunque, non andrà inseguita una soluzione “edilizia”, poiché, come ha da tempo autorevolmente ammonito il Consiglio d’Europa, «aumentare la capacità ricettizia significa aumentare senza vantaggio alcuno la domanda di carcere». È quindi meglio ribadirlo, per così dire, a futura memoria: il sovraffollamento, che ora si è costretti dalla gravissima emergenza a curare con soluzioni appunto di emergenza, si affronta con la costruzione non di nuovi penitenziari, ma di una nuova politica criminale. Il panpenalismo, che tanto rende nell’incetta dei consensi e nulla in termini di sicurezza sociale, è il frutto di una politica che, avendo abdicato al suo alto compito di affrontare le più delicate questioni sociali, etiche, sanitarie, ambientali, economiche, ha pensato di cavarsela spingendo la sanzione penale in tutti i recessi della vita, persino in quelli della malattia, della disperazione e della povertà. L’idea che la severità della risposta punitiva sia la migliore soluzione ai problemi ha trovato anche il suo slogan: la certezza della pena. Slogan tanto giuridicamente ambiguo, quanto demagogicamente chiaro nel suo sottotesto: l’unico rassicurante rimedio è sempre il carcere, inteso come ermetico contenitore delle mele marce.
 
 Verrebbe anche da aggiungere – per capire come si possa essere giunti nell’attuale, disastrosa situazione – che questo approccio culturale ha condotto al coerente affossamento della riforma penitenziaria, partorita al tramonto della precedente legislatura; riforma che, proponendosi di non ignorare l’art. 27 comma 3 Cost., avrebbe senz’altro reso la situazione attuale meno drammatica e più gestibile. Ruotava, infatti, intorno all’idea-cardine secondo cui la funzione rieducativa della pena postula l’offerta al condannato di un progetto individualizzato di risocializzazione: il tempo della pena non dovrebbe essere un’attesa trascorsa nell’inedia in una sorda astanteria, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. In coerenza con questa visione, quella riforma proponeva di bandire le presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, riconoscendo ad ogni condannato, anche al condannato all’ergastolo, il diritto alla speranza, che rappresenta spesso una spinta motivazionale in grado di promuovere positive evoluzioni psico-comportamentali. Da ciò, la rinuncia all’opzione carcerocentrica in favore di una più coraggiosa scelta di recupero del soggetto delinquente mediante lo spostamento del baricentro dell’esecuzione penale verso sanzioni di comunità, meno onerose per lo Stato e meno desocializzanti per il condannato, chiamato anche ad adoperarsi nella e per la collettività. Un’idea certo non popolare, che ebbe accoglienza contrastata persino tra i protagonisti della giustizia penale: dalle valutazioni pilatesche e ondivaghe espresse dalla magistratura (salvo autorevoli, ma minoritarie voci) alla difesa a spada tratta condotta dalle Camere Penali, dando fondo ad ogni risorsa di argomentazione e di protesta. Come è noto, le forze politiche che l’avevano meritoriamente promossa, fin dall’istituzione degli Stati generali dell’esecuzione penale, preferirono di non portarla al traguardo legislativo per il timore di perdere consensi nelle imminenti elezioni: calcolo politico sconsolatamente miope, a giudicarlo ex ante; patetico, a valutarlo ex post. La maggioranza che uscì dalle elezioni, poi, in coerenza con l’ossessione carcerocentrica che la animava, procedette con ottuso scrupolo ad una amputazione chirurgica delle parti qualificanti del progetto di riforma.
 
Ma non è più tempo, questo, per attardarsi su ciò che si sarebbe dovuto fare e non è stato fatto; ora è tempo di decisioni urgenti e immediatamente incisive: solo quando questo tremendo tsunami socio-sanitario avrà conosciuto la sua risacca, sarà possibile, anzi ineludibile una profonda riflessione critica affinché il sistema carcerario non torni a versare mai in una situazione simile all’attuale.
 
Ora occorre intervenire, e subito: delle recentissime novità in materia contenute nel decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura-Italia), infatti, si deve apprezzare l’intendimento che le ha ispirate, ma non si può non denunciare l’assoluta inadeguatezza. C’è bisogno di ben altro per riportare la popolazione detenuta nei limiti della capienza ordinaria dei nostri penitenziari.  
 
Non si dica, come pure si dice, che in tal modo si premierebbero le violenze delle scorse settimane. Provvedimenti di significativo decongestionamento carcerario non vanno adottati perché ci sono state le proteste; semmai ci sono state proteste – da condannare senza ambiguità alcuna e giustamente represse – soprattutto perché non veniva preso alcun necessario provvedimento. E prima ancora, perché non si era stabilito nessun canale comunicativo con le persone ristrette. Sarebbe stato importante spiegare (far comprendere ai detenuti le ragioni delle restrizioni); ascoltare (le loro esigenze e le loro paure); dimostrare che si stava facendo tutto il possibile per attenuare l’isolamento imposto, agevolando ogni contatto virtuale con i loro cari; assicurare che si sarebbero presto adottati provvedimenti per   rendere praticabili anche nella vita intramuraria le cautele necessarie per contrastare il contagio.
 
Adesso bisogna assolutamente evitare che la situazione, già inaccettabile prima di questo dannato virus, divenga drammatica. Non vi è un’unica soluzione, come pure in tempo di banalizzazioni e di visioni manichee molti sarebbero portati a pensare. Vi sono provvedimenti che, agendo sinergicamente, potrebbero ridimensionare significativamente il rischio. Di ciascuno di essi il decisore politico deve ponderare rapidamente e bene la reale capacità di ridurre la popolazione penitenziaria e le eventuali controindicazioni.   
 
Si potrebbe innanzitutto intervenire sul flusso in entrata differendo (ad esempio, di sei mesi) l’emissione dell’ordine di esecuzione, nei confronti di soggetti liberi, delle condanne a pena non superiore ai quattro anni: non solo di quelle rispetto alle quali i condannati già ora hanno diritto di attendere in libertà – previa sospensione dell’ordine  di esecuzione – l’esito della loro richiesta  di fruire di una misura alternativa al carcere (art. 656 comma 5 c.p.p.), ma anche di quelle per reati che attualmente non ammettono la sospensione dell’ordine di esecuzione (art. 656 comma 9, lett. a), escludendo soltanto i reati di criminalità di stampo mafioso e di terrorismo. Si tratterebbe di una soluzione a basso indice di controindicazioni sul piano della sicurezza sociale: infatti, l’entità della pena da eseguire depone per fatti di reato non particolarmente gravi e lo stato di libertà del condannato dimostra come sia stata esclusa la necessità di adottare una misura cautelare. Si alleggerirebbe nell’immediato il carico della magistratura di sorveglianza e si ridurrebbe il rischio che i c.d. nuovi giunti introducano il contagio negli istituti.
 
Per agevolare il flusso in uscita, invece, si potrebbero prendere in considerazione tre tipologie di intervento, anche se – a nostro avviso – una soltanto sembra particolarmente adatta alla situazione data.
 
      Si possono immaginare soluzioni normative che anticipano indiscriminatamente la dimissione dei ristretti che hanno un ridotto residuo pena. Si tratterebbe di ricorrere a strumenti giuridici volti a conseguire – per esprimerci con ruvida franchezza – i risultati che deriverebbero da un indulto, per il quale non ci sono né i tempi necessari, né i presupposti politici. Facendo leva sulla gravissima emergenza sanitaria, si potrebbero rimettere in libertà, ad esempio, i detenuti con particolari patologie o sopra una certa soglia anagrafica, che non abbiano ancora da scontare più di due o tre anni.  Questa tipologia di rimedi ha il vantaggio di produrre un effetto immediato, ma la controindicazione di non selezionare sulla base della meritevolezza e soprattutto della affidabilità del singolo detenuto rimesso in libertà. 
 
Una dimissione selettiva dei condannati si può ottenere con la seconda tipologia di intervento, cioè mediante l’ampliamento della possibilità di accesso alle misure alternative al carcere, affidando alla magistratura di sorveglianza l’accertamento della sussistenza dei presupposti. Ove si scegliesse una simile linea di intervento, fruirebbero delle nuove opportunità soltanto i soggetti protagonisti di un credibile percorso rieducativo, ma si andrebbe incontro ad un sicuro intasamento dei ruoli della sorveglianza, con dilatazione dei tempi decisionali difficilmente compatibili con l’urgenza imposta dall’attuale situazione.
 
Per fare in modo che i provvedimenti diano risultati compatibili in termini di efficacia con la gravità della situazione (cioè: automatismo e tempestività) e non abbiano carattere indiscriminato (selettività) si potrebbe far ricorso a una terza – e a nostro avviso preferibile – tipologia di rimedi, basata sulle valutazioni che la magistratura di sorveglianza ha già espresso prima che l’attuale catastrofe socio-sanitaria. Si potrebbe riconoscere, ad esempio, una sostanziosa, ulteriore riduzione di pena per chi nell’ultimo significativo periodo (ad esempio, tre anni) è già stato riconosciuto meritevole di liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 ord. penit. Oppure immaginare di consentire a coloro che versano in tale condizione e che sono relativamente prossimi alla dimissione di “monetizzare” subito parte dello sconto di pena già ottenuto: pensiamo alla possibilità, ad esempio, di “commutare” l’anticipazione di tre mesi del fine-pena conseguita nell’ultimo anno in una sorta di immediata parentesi di libertà di pari durata.
 
Ed ancora, per fare un’ultima ipotesi: si potrebbe consentire ai semiliberi e agli ammessi al lavoro all’esterno, che da congruo tempo non hanno mai dato problemi nel loro andirivieni penitenziario, di non rientrare in carcere la sera, ma di trascorrere la notte, con obbligo penalmente sanzionato, nel proprio domicilio o in una struttura adeguata. Altre soluzioni sarebbe possibile studiare sulla base dello stesso criterio: automatismo decisorio per già accertata e consolidata affidabilità “sociale” del beneficiario. Si potrebbe anche, ammesso che sia possibile far ricorso alla disponibilità dei c.d. braccialetti elettronici – sbandierata dalla politica, ma smentita dalla realtà – ampliare ulteriormente la platea dei beneficiari, riservando forme di controllo a distanza nei confronti di soggetti che non hanno ancora potuto dare prove di riabilitazione compiutamente rassicuranti.
 
Per quanto concerne poi gli imputati, che pure costituiscono quasi un terzo della popolazione detenuta, si potrebbe anche pensare ad una disciplina temporanea che consenta al giudice di tener conto del minor periculum libertatis conseguente alle restrizioni di circolazione e ai maggiori controlli imposti dall’emergenza sanitaria – che infatti hanno determinato una caduta verticale (meno 64%) della commissione dei reati – per revocare o non disporre la custodia cautelare in carcere a favore degli arresti domiciliari con o senza braccialetto elettronico, a seconda delle peculiarità del caso.
 
L’importante è agire subito, come del resto ci invitano pressantemente a provvedere le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, istituito nell’ambito del Consiglio d’Europa. Nella raccomandazione n. 5, del recentissimo documento del 20 marzo 2020, si sollecitano gli Stati membri, in considerazione della gravissima emergenza sanitaria, a fare ricorso alle misure alternative alla pena detentiva e alla custodia cautelare in carcere. Una sollecitazione che assume toni imperativi con riguardo alle situazioni di sovraffollamento penitenziario («Such an approach is imperative, in particular, in situations of overcrowding»).
 
            Da questo autorevole monito il nostro legislatore dovrebbe trarre una ragione in più per non distogliere lo sguardo dalla drammatica situazione penitenziaria. Accalcate in quella sorta di stabulario che è divenuto il nostro carcere, decine di migliaia di persone sono soffocate dalla paura di non poter mettere in atto nessuna di quelle cautele che, come sentono ossessivamente ripetere, costituiscono le uniche vere contromisure per arginare il contagio: si tratta di un’ingiusta afflittività aggiuntiva. Ma se non si vuole intervenire per un atto di giustizia, lo si faccia a tutela della sicurezza sociale, poiché se il virus comincia a circolare nelle vene penitenziarie sarà impossibile fermarlo entro le mura del carcere. Ancora una volta i provvedimenti che farebbero bene alla popolazione penitenziaria, farebbero bene alla società tutta. A cominciare da chi con la realtà carceraria deve avere continuo contatto. Pensiamo soprattutto alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria, che nella stragrande maggioranza svolgono la loro indispensabile funzione con abnegazione e consapevolezza della delicatezza del loro compito; spesso in condizioni quasi impossibili per il degrado e l’affollamento dei nostri penitenziari; sempre nell’ombra fisica del carcere e nell’ombra sociale del disinteresse collettivo.
 
È tempo che chiunque abbia suggerimenti per cercare di disinnescare questa esplosiva situazione li proponga e che i decisori politici adottino con urgenza quelli ritenuti più efficaci e con minori controindicazioni. Coloro che sono intenti soltanto a enfatizzare queste ultime per criticare ogni proposta avanzata, hanno il dovere di indicare opzioni alternative, a meno che non siano già cinicamente rassegnati all’idea che “il cimitero dei vivi” da icastica metafora turatiana possa divenire un’inconfessabile soluzione.