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L’IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE QUALE VALORE EURISTICO DA PRESERVARE ATTRAVERSO ORTODOSSIE INTERPRETATIVE – DI FILIPPO RAFFAELE DINACCI

L’IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE QUALE VALORE EURISTICO DA PRESERVARE ATTRAVERSO ORTODOSSIE INTERPRETATIVE – DI FILIPPO RAFFAELE DINACCI

DINACCI – L’IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE QUALE VALORE EURISTICO DA PRESERVARE ATTRAVERSO ORTODOSSIE INTERPRETATIVE.PDF

L’IMMUTABILITÀ DEL GIUDICE QUALE VALORE EURISTICO DA PRESERVARE ATTRAVERSO ORTODOSSIE INTERPRETATIVE

di Filippo Raffaele Dinacci*

La relazione, rivista dall’autore, tenuta nel corso della manifestazione “In difesa del principio di immutabilità del Giudice” del 28.06.2022 durante l’astensione dei penalisti italiani, nella sessione “Le regole, la presa di posizione degli studiosi del processo”.

Sommario: 1. Il tema e i profili costituzionali; 2. L’immutabilità del giudice quale strumento per la giusta decisione; 3. Una ostilità operativa a corrente alternata: la necessità di una buona nomofilachia; 4. Le (insoddisfacenti) prospettive Cartabia; 5. Nullità assoluta e sanatorie atipiche: l’autosufficienza regolatoria dell’art. 525, comma2, c.p.p.; 6. Il presidio dell’inutilizzabilità; 7. Conclusioni.

 

  1. Il tema e i profili costituzionali

Se nel 2022 c’è chi ancora propugna un principio di immutabilità “cedevole” significa che stiamo vivendo un forte cortocircuito normativo, culturale ed operativo. Le origini sono molteplici e risultano individuabili in un non esemplare atteggiamento di “risposta giudiziaria” alla legge non condivisa, in un capovolgimento delle priorità dei valori da tutelare e, non da ultimo, nella carenza di garanzia dell’individuo a fronte dell’interesse “collettivo” di assicurare giustizia qualunque essa sia.

Ma, se ciò accade è perché occorre registrare, in più di vent’anni di vigenza, uno scarso rispetto del canone costituzionale del giusto processo. E, sul punto, deve rimarcarsi come il legislatore costituzionale, al comma 3 dell’art. 111 della Carta dei valori, abbia effettuato una scelta precisa. Si è infatti previsto che l’accusato abbia la “facoltà davanti al giudice di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa […]”.

L’utilizzo della locuzione “al giudice” in luogo di quella “di un giudice” rende ragione del fatto che il segno normativo ha inteso costituzionalizzare il principio di immutabilità. Il rilievo trova ulteriore conferma nella diversa espressione utilizzata nel comma 2 dell’art. 111 Cost. laddove, nell’affermare che il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, precisa che il medesimo si celebra “davanti a un giudice terzo e imparziale”. L’utilizzo di una differente preposizione è indicativo di un diverso “messaggio” legislativo. Basti pensare che qui l’articolazione indeterminata è usata per descrivere i requisiti minimi della giurisdizione che, evidentemente, riguardano non solo il singolo giudice del processo ma tutti coloro che esercitano le funzioni giurisdizionali. Non è un caso che il richiamato contenuto dell’art. 111, comma 3, Cost. laddove riconosce la facoltà della parte accusata di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico nonché di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa, specifica che tali attività “istruttorie” debbano essere compiute davanti “al giudice”, con ciò ratificando la pretesa normativa secondo cui la prova debba essere direttamente percepita da chi è chiamato a valutarla.

Si tratta, quindi, del recepimento in Costituzione del principio di c.d. immediatezza spaziale tra giudice e prova che costituisce elemento ineliminabile dell’oralità. Il rilievo non è scalfito dalla considerazione che l’ordinamento positivo contempla ipotesi in cui la prova è acquisita da altro giudice rispetto a quello che la deve valutare. Si pensi all’art. 392 c.p.p. ovvero all’art. 238 del medesimo codice. Tuttavia, chi volesse da tali elementi ricavare l’indifferenza costituzionale al principio di immutabilità del giudice opererebbe un’inversione di metodo interpretativo non osservante della gerarchia delle fonti. Al di là della specificità delle evenienze richiamate, non pare controvertibile che il contenuto di un precetto costituzionale non possa modularsi sulla base di una legge ordinaria. L’ordinamento rigido cui è improntato il sistema impone la prevalenza della fonte costituzionale in caso di contrasto con la norma positiva. Pertanto, se quest’ultima confligge con la Carta dei valori il rimedio non può essere quello di adeguare il comando costituzionale al diritto positivo ma, casomai, il contrario. Ne risulta così confermata l’ipotesi interpretativa secondo cui il principio di immediatezza istruttoria tra giudice e prova trova, sul piano costituzionale, uno specifico presidio nell’art. 111, comma 3, Cost.

Tale conclusione fu, sia pure timidamente, recepita dalla Consulta quando ebbe a precisare che “il diritto all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere […] si raccorda, almeno per quanto attiene all’imputato, anche alla garanzia prevista dall’art. 111 comma 3 Cost. nella parte in cui riconosce alla persona accusata di un reato […] la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”[1]. In quella stessa sede, però, la Corte ebbe anche a puntualizzare che il diritto alla non audizione “non è assoluto ma modulabile” rappresentando la possibilità che il legislatore introduca “presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio” del diritto in questione. Si ribadiva, comunque, che la “rinnovazione del riesame del dichiarante in presenza di una richiesta di parte continui a rappresentare la regola”.

Difficile immaginare come un presidio costituzionale possa variare nell’estensione operativa a seconda della volontà del legislatore ordinario. Qui si discute di principii che non sono modulabili: sono o non sono. Ma, a parte lo specifico tema che meriterebbe maggiore approfondimento non consentito in questa sede, la timida apertura operata con ordinanza n. 205 del 2010 ha consentito l’introduzione di una più ampia possibilità di derogare al principio di doverosa immediatezza spaziale tra giudice e prova. Il riferimento è a quella sentenza della Corte costituzionale che prospetta la possibilità di una “previsione legislativa di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide”[2]. Questa volta, expressis verbis, si teorizza che il principio di immutabilità possa essere recessivo a fronte di esigenze di funzionalità del processo. Sul punto, al di là della non condivisione dei criteri di priorità dei valori in gioco, quella decisione era stata attenta a ritenere che la modulazione del principio di immutabilità dovesse avvenire per via legislativa. Attenzione questa che evidentemente è mancata al massimo organo nomofilattico il quale, dilatando enormemente il campo di azione del formante giurisprudenziale, è pervenuto non ad un’interpretazione della norma bensì ad una ricodificazione di sistema. Come metodo di approccio e come ideologia di fondo sembra essersi di fronte ad una sentenza gemella di quella della Corte costituzionale che ebbe a teorizzare un valido contraddittorio con un soggetto che si avvaleva della facoltà di non rispondere[3]. Anche lì non si analizzava il comando giuridico espresso dalla norma, ma si ricostruiva un intero sistema. E tale opera, ora come allora, non viene condotta attraverso una “scoperta” del significato veicolato dall’enunciato normativo; al contrario, attraverso astrazioni generalizzate ci si allontana dal dato di legge, lo si sbiadisce per poi “fletterlo” all’ideologia del momento. Questa, però, non è interpretazione, è “creazione” del comando giuridico. Si viola, così, il dovere di “osservanza” che impone una corretta fenomenologia delle norme, le quali devono essere “colte” nella loro oggettività. Se ciò è chiaro, ogni percorso logico-argomentativo che si discosti da un corretto metodo ermeneutico non costituisce esegesi, ma fisica del potere.

  1. L’immutabilità del giudice quale strumento per la giusta decisione

Bisogna, allora, prendere atto che il problema non è normativo ma culturale. Occorre la consapevolezza che qualsiasi approccio a regole o principi processual-penalistici deve comprendere che quella disciplina è metodo, è regola, è limite al potere. Pertanto, se si analizza alla luce del prospettato contesto culturale-metodologico la tematica dell’immediatezza istruttoria, si coglie come non si sia in presenza solo di una garanzia per le parti, ma di un “principio naturale” del processo se questo vuole assecondare l’obbligo di un procedimento mentale in grado di perseguire l’obiettivo di un giudizio di verosimiglianza. Infatti, anche se nessun modello processuale è tale da offrire una soluzione infallibile al problema della veridicità dell’accertamento, non pare discutibile che l’approssimazione alla verità non giustifica l’uso di qualsiasi mezzo, salvo a ritenere che i principii e le ideologie del processo non contino nulla. E, sul punto, anche alla luce del recepimento costituzionale dei valori del giusto processo non si può ritenere che il processo sia un semplice strumento tecnico di accertamento svincolato da ogni valore, quando invece è espressione di un atteggiamento culturale che trova le sue radici nel comando costituzionale.

Ed allora, occorre prestare attenzione in quanto il principio naturale dell’immediatezza istruttoria tra giudice e prova è strumentale al conseguimento di un risultato conoscitivo che poi deve essere valutato.

Si deve dunque precisare come il sistema probatorio delineato dal codice non sia “onnivoro” e non accolga qualsiasi conoscenza giudiziale ma, come espressamente enuncia l’art. 526 c.p.p., solo quella che si fonda su prove “legittimamente acquisit(e)”. Si è al cospetto di una visione del processo che ha sostituito l’etica del risultato con quella della legalità dell’accertamento. Questo, infatti, è accettabile solo se perseguito nel rispetto di certi modi, certe forme e certe procedure; modi, forme e procedure che non sono contemplati per un gusto bizantino o per consentire abusi del diritto ma perché il legislatore, a torto o a ragione, li ha ritenuti come quelli che meglio di altri possono garantire una verosimiglianza alla realtà del contesto probatorio. In tale consapevolezza culturale, non può sfuggire come le regole preposte a garantire i modi acquisitivi sono strumento indispensabile per una “giusta decisione”. Quel che viene in gioco non è un formalismo fine a se stesso, bensì è la capacità dell’accertamento. Non sono quindi tollerabili letture riduttive che sviliscono i modi della conoscenza giudiziale. Tali letture, invero, sono incapaci di percepire il “valore contenutistico delle forme” e non sono consapevoli che al di fuori delle stesse non c’è spazio per le garanzie. In particolare il tema si arricchisce di un’ulteriore considerazione assorbente. Se le forme conoscitive, tra cui l’immediatezza istruttoria tra giudice e prova, sono preposte a garantire un risultato di maggiore verosimiglianza nella ricostruzione di un fatto, la deviazione dalle stesse espone al maggior rischio di errori giudiziari. In questo senso viene negletto il diritto ad una giusta decisione che, è bene precisarlo, non postula una verità assoluta. La verità processuale è cosa diversa ed è distante da quella verità materiale su cui era “pensato” il codice di rito del 1930. Ad ogni modo, a prescindere da ciò, non deve sfuggire come la giusta decisione consenta l’adeguato sviluppo della personalità del singolo che riceve riconoscimento all’art. 2 Cost. Può non piacere ma il metodo probatorio, nella misura in cui concorre all’adozione di una giusta decisione, è attratto nel “nocciolo duro” dei valori costituzionali.

La considerazione non dovrebbe consentire “giochi a salvezza” di sentieri probatori non ortodossi.

3.- Una ostilità operativa a corrente alternata: la necessità di una buona nomofilachia

In tale prospettiva risulta difficile comprendere l’ostilità che ha sempre caratterizzato, in sede operativa, il rapporto con il principio di immutabilità. In un primo tempo, tanti anni fa, si credeva che il tutto derivasse dalla mancata consapevolezza culturale del fatto che la mediazione istruttoria non consentisse di cogliere il valore di cui è portatore il dato probatorio. In sostanza, l’elemento sul quale si deve esprimere il giudizio attinge, contemporaneamente, la sfera emozionale e quella conoscitiva del giudicante senza alcuna possibilità di poter distinguere i due momenti.

Ne deriva l’impossibilità, in sede decisoria, di separare il giudizio di fatto da quello di valore. Ed allora, se il dato impone al decidente un giudizio sulla base delle sue strutture di valore, è facilmente comprensibile come il medesimo debba, inevitabilmente, essere espresso in forza di un rapporto percettivo diretto ed immediato tra giudice e prova. Ne deriva che ogni forma di intermediazione tra la prova e chi la deve apprezzare finisce, per definizione, con l’alterare il giudizio. E ciò tanto più in quanto quest’ultimo è comunque connotato da una componente decisoria puramente emozionale su cui inevitabilmente incidono non solo il contenuto delle dichiarazioni ma i tratti prosodici e/o paralinguistici delle stesse.

L’evolversi del tempo ha permesso di cogliere come l’ostilità operativa al principio di immutabilità traesse origine da logiche di politica giudiziaria anacronisticamente ancorate alla contrapposizione tra efficienza e garanzia[4].

Di tale logica sono ortodosse interpreti le Sezioni Unite cc.dd. Bajrami[5], che dimostrano una volontà giurisprudenziale di sostituirsi al dato normativo svincolandosi dalle regole e dai limiti che lo stesso impone.

Si perseguono, così, scorciatoie conoscitive extra legem, giustificate da un’idolatria verso un’esigenza di efficientamento del sistema.

La situazione preoccupa sul piano culturale, sul piano dei comportamenti operativi ma, soprattutto, come si è visto, sul piano del diritto dell’individuo ad una “giusta decisione”.

Con la via giurisprudenziale di neutralizzazione del principio di cui all’art. 525, comma 2, c.p.p., si sono perseguite solo finalità di ragion pratica, non preoccupandosi in alcun modo del fatto che il metodo normativo imposto risultasse carente dal punto di vista euristico.

E quando si fa riferimento ad una “carenza euristica” non si ha riguardo a profili di estetica processuale ma a metodi che garantiscono una maggiore verosimiglianza dell’accertamento probatorio.

L’opzione ideologica è chiara: si intende tutelare una maggiore efficienza organizzativa, accettandosi il rischio di una sentenza ingiusta.

E ciò appare rilevare in particolar modo ove si consideri che, in sede giurisprudenziale, vi è piena contezza che il mancato rispetto dell’immediatezza-oralità si sconta sull’affidabilità del risultato conoscitivo. La conclusione deriva dalla semplice lettura di quel filone giurisprudenziale costituito da varie pronunce delle Sezioni Unite in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello in ipotesi di overturning di una sentenza di assoluzione[6].

Il tema è noto e non occorre soffermarvisi. Quel che però interessa evidenziare è che il massimo organo nomofilattico ha reiteratamente ritenuto necessario che il giudice di appello, laddove ritenga di modificare una sentenza di assoluzione, non debba limitarsi ad essere “lettore di carte”, ma procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa. In altre parole, si impone un rapporto diretto tra giudice chiamato a decidere e prova su cui la decisione è destinata a fondarsi. Ciò che più conta, ai fini del discorso odierno, è la circostanza che le Sezioni Unite giustificano tale conclusione con il rilievo secondo cui il superamento del ragionevole dubbio necessita di un rapporto diretto tra giudice e prova[7]; rapporto che evidentemente consente momenti di verifica più profonda rispetto alla mera “lettura di carte”. Si riconosce, quindi, una maggiore efficacia euristica derivante dal metodo probatorio che fa capo all’immediatezza istruttoria. Non a caso, a fugare ogni dubbio, la Corte nomofilattica precisa come il segnalato rapporto diretto tra giudice e prova debba esplicarsi nelle forme del contraddittorio inteso come insieme di oralità ed immediatezza.

Sulla base di tali rilievi è difficile comprendere perché in primo grado occorra rinunciare ad un metodo conoscitivo in grado di garantire una maggiore affidabilità del risultato probatorio. E ciò tanto più ove si consideri che si controverte su un valore indisponibile che non può essere svenduto sull’altare dell’efficienza e, comunque, non può essere riconosciuto con logiche a corrente alternata. Tale realtà conduce a forme di giustizia del caso singolo che preludono ad un “uso alternativo del diritto”. La situazione è foriera di disuguaglianze processuali e, per evitare ciò, occorre chiarezza: se si riconosce che l’oralità-immediatezza è lo strumento acquisitivo che meglio di altri  “sprigiona verità”, costituisce una grave contraddizione non tutelare tale principio anche nei giudizi di primo grado. In tal modo quest’ultimo diverrebbe un giudizio meno garantito e maggiormente esposto ad una fallacia conoscitiva.

Il tema induce ad ulteriori considerazioni ove si consideri che l’uso alternativo del diritto in discorso non ha matrice normativa ma giurisprudenziale. L’accentuato potere nomofilattico introdotto con la c.d. riforma Orlando ha un senso se finalizzato a garantire la prevedibilità delle decisioni e, di conseguenza, l’uguaglianza processuale.

Tuttavia, quando l”“esatta ed uniforme interpretazione del diritto oggettivo nazionale” è contraddittoria, viene meno l’in sé della nomofilachia. Questa risulta incapace di veicolare la prevedibilità delle decisioni su cui i singoli possono orientare i loro comportamenti tanto nella vita reale quanto nel processo.

In tal modo, però, la nomofilachia viene spogliata del suo valore di garanzia, residuando in capo all’organo giurisdizionale solo un profilo di maggior potere.

Se questo è l’approdo, è indespensabile prendere atto che ci si dimostra non sufficientemente maturi per un ordinamento che tende ad evitare “vertici giurisdizionali ambigui”.

Torna quindi di attualità l’insegnamento di Giovanni Conso laddove ammoniva sul fatto che un’accentuazione nomofilattica fosse condivisibile purchè si trattasse di “buona nomofilachia” e cioè fosse fondata su un’interpretazione che non si allontani dal dato oggettivo della norma giuridica.

Il tema dell’immutabilità è emblematico di tale ammonimento; e, per la verità, anche al di là del caso di specie, troppo frequentemente si assiste a forme interpretative le quali, attraverso una progressiva astrazione dal dato normativo, sbiadiscono il contenuto precettivo del medesimo raggiungendosi, anche attraverso una cattiva dogmatica, conclusioni dallo stesso non consentite.

  1. Le (insoddisfacenti) prospettive Cartabia

Chi pensa che i rilievi fin qui formulati riguardino solo il passato versa in errore. Certe opzioni interpretative hanno una matrice culturale profonda, subdola, capace di condizionare anche le scelte legislative future. Si pensi alla riforma Cartabia ormai alle porte.

Non si conoscono i decreti delegati ma a leggere l’art. 1, comma 11, lett. d) della delega emerge un tentativo di razionalizzare la materia. L’obiettivo, però, non pare possa dirsi raggiunto.

Infatti, mentre la prima parte dell’indicata lett. d) prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice, si deve disporre, a “richiesta di parte, la riassunzione della prova dichiarativa già assunta”, con la seconda parte si introducono elementi succedanei alla immutabilità del giudice costituiti dalla verbalizzazione della prova assunta davanti al giudice sostituito tramite videoregistrazione. In questa evenienza, il giudice dispone la “riassunzione della prova solo quando necessario sulla base di specifiche esigenze”.

A prima vista le scelte legislative sembrerebbero un passo avanti rispetto alla codificazione giurisprudenziale Bajrami ma, a ben vedere, il risultato non è appagante.

Nella brevità imposta in questa sede occorre rilevare come l’esistenza di un filmato non sia in grado di rappresentare un atto equipollente a tutela dell’immediatezza.

A prescindere dalle problematiche organizzative della burocrazia giudiziaria[8], deve comunque pretendersi che la riproduzione videofilmata di quella prova venga “proiettata” durante l’udienza. Occorrerebbe introdurre nell’ordinamento i necessari anticorpi perché tale attività venga obbligatoriamente eseguita evitando di accedere a semplificazioni acquisitive attraverso il consenso ovvero mediante un futuribile “dar per visto”.

In ogni caso, non può sfuggire come il filmato, dal punto di vista morfologico, non sia in grado di risultare osservante, sul piano funzionale, del principio di immediatezza istruttoria. Basti pensare che mentre si vede il filmato potrebbe venire in mente una domanda da fare che non è stata fatta, potrebbe ritenersi necessario un provvedimento ordinatorio che non è stato adottato o non si sarebbe emesso un provvedimento che, viceversa, è stato emanato dal giudice sostituito. In altre parole, anche la disciplina e la regolamentazione del dibattimento potrebbero essere immaginate in diverso modo rispetto a quelle che sono state. E chi opera nelle aule di giustizia sa che la casistica è infinita e nella casistica rientra l’esplicazione di tutti i provvedimenti di direzione del dibattimento, da ritenersi anch’essi attratti nella sfera dell’immutabilità.

Ma, a parte tali non irrilevanti problematiche, la riforma si mette in evidenza in quanto subordina, nell’ipotesi di videoregistrazione della prova assunta innanzi al giudice sostituito, il diritto alla riassunzione alla condizione che la si ritenga “necessaria sulla base di specifiche esigenze”.

Si evoca, così, un parametro assonante a quello contemplato nel binario parallelo di cui all’art. 190 bis c.p.p. di cui sono ben note le limitazioni che ne derivano in termini di diritto alla prova e di difesa. Gli spazi del presente intervento non consentono di approfondire ulteriormente il punto; tuttavia basti pensare che se il metro di giudizio della riassunzione della prova si parametra alla nozione di “specifiche esigenze” si costringe la parte che formula la richiesta ad anticipare temi di merito su cui deve vertere l’esame, esponendosi così al rischio processuale di vedere vanificata la stessa strategia. In sostanza, il diritto all’immediatezza passa attraverso il dovere di “esporre il fianco” alla controparte ed allo stesso dichiarante.

Dispiace, infine, notare come la soluzione adottata risulti allineata al contenuto delle Sezioni Unite Bajrami laddove si è affermato che la disciplina della riassunzione della prova assunta innanzi al diverso giudice implicasse l’esigenza di “indicare specificamente le ragioni che impongono tale rinnovazione”. La circostanza rende ragione di come certe matrici culturali risultino talmente pervasive da condizionare anche le scelte legislative tendenti ad allontanarsene.

  1. Nullità assoluta e sanatorie atipiche: l’autosufficienza regolatoria dell’art. 525, comma 2, c.p.p.

Sarebbe quindi auspicabile una scelta di campo più decisa; in particolare l’interprete, a fronte della delineata situazione, deve fornire una risposta. E tale non può essere che quella di dare fondo alle risorse esegetiche recependo le funzioni di garanzia dell’ordinamento e, nel caso di specie, quelle regole in grado di produrre un risultato probatorio maggiormente affidabile.

In tale prospettiva di metodo la prima risposta è quella di affidarsi al precetto costituzionale scaturente dall’art. 111, comma 3, della Carta dei valori.

Tuttavia, al di là dei profili costituzionali, il problema può essere risolto sulla base del mero testo normativo.

L’art. 525, comma 2, c.p.p. prevede una nullità assoluta; e, sul punto, la delega non assegna poteri di riforma.

Fermiamoci a ragionare uscendo dalle sovrastrutture che sul tema ha introdotto la giurisprudenza, anche di matrice costituzionale. Singolare che la pratica giudiziaria abbia ritenuto di poter superare il problema dell’immutabilità violata acquisendo il consenso della difesa alla rinnovazione degli atti realizzatisi innanzi al giudice sostituito. Si è in presenza di un comportamento incapace di sortire gli effetti sperati. In tal modo, infatti, si introduce una sanatoria di una nullità non sanabile e, come se non bastasse, una sanatoria preventiva di una nullità ancora non verificatasi. Tutto ciò non è consentito dalle regole elementari che presidiano la materia.

La rinnovazione o il consenso alla rinnovazione non può essere vista come una sanatoria preventiva che consente al nuovo giudice di valutare le prove fornite davanti al giudice sostituito.

Tale approccio, seguito costantemente dalla giurisprudenza, dimostra di non aver colto il vero valore dell’immutabilità del giudice[9].

Il tema risente delle prese di posizione tralaticiamente tramandate da una costante impostazione giurisprudenziale. Si è infatti rilevato come le prove assunte innanzi al giudice sostituito “fanno già parte del fascicolo del dibattimento a disposizione del nuovo giudice” e che la precedente istruzione dibattimentale “pur se soggetta a rinnovazione conserva il carattere di attività legittimamente compiuta, dovendosi ritenere conforme ai principi dell’oralità e dell’immediatezza la lettura dei suddetti verbali davanti al nuovo giudice”[10]. Sia pure con qualche differenziazione, in tale linea argomentativa si ponevano le stesse Sezioni Unite le quali ribadivano che “non è irragionevole né lesivo dei principi di oralità ed immediatezza che [la prova acquisita innanzi al giudice sostituito, n.d.r.] entri nel contraddittorio delle parti e venga recuperata ai fini della decisione”[11]. Percorso, come noto, ribadito e forse ancor più estremizzato dal recente intervento dell’organo nomofilattico il quale, dopo aver consegnato al giudice una discrezionalità (recte, facoltatività) massima sull’ammissione della rinnovazione, ha precisato che il consenso alla lettura, ex art. 511 c.p.p., degli atti assunti dal giudice in diversa composizione “non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile”. La presa di posizione assume ulteriori connotati a fronte di quella precisazione secondo cui se il soggetto esaminato dal giudice sostituito è stato integralmente verbalizzato tramite la stenotipia con contestuale registrazione fonografica “il problema della mediazione del primo giudice tra le effettive dichiarazioni e la relativa verbalizzazione si sdrammatizza, risultando le stesse invece completamente e genuinamente riportate, e come tali conoscibili dal nuovo giudicante”[12]. Si ribadisce una visione meccanicistica della valutazione, deprivata di quel connotato euristico costituito dal contatto diretto della prova con il giudice che è chiamato a valutarla.

Al di là delle preoccupanti prese di posizione sul piano dell’ideologia del processo non compatibili con i valori introdotti nel novellato art. 111 Cost., quel che qui preme rilevare è che la soluzione adottata svela un errore tecnico-giuridico. Il richiamo “sanante” all’art. 511, comma 2, c.p.p. non coglie nel segno. In quella sede si prescrive che “la lettura dei verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo”.

L’impostazione giurisprudenziale sminuisce la portata della locuzione “a meno che l’esame non abbia luogo” la quale nella struttura della fattispecie diviene l’elemento che consente la lettura. Emerge quindi una palese volontà legislativa di preservare l’acquisizione dibattimentale. E ciò in linea con la consapevolezza che la lettura dibattimentale si pone come eccezione alla regola del contraddittorio. Peraltro l’interprete non può dimenticare che il regime delle letture dibattimentali è regolato dal principio di tassatività fissato dall’art. 514, comma 1, c.p.p. attraverso cui non si persegue solo l’obiettivo di indicare atti suscettibili di lettura, ma anche quello di predeterminare i casi e i modi in cui la lettura diventa una forma acquisitiva legittima. Ne deriva, sul piano ermeneutico, l’impossibilità di attribuire all’art. 511, comma 2, c.p.p. un perimetro operativo diverso da quello strettamente tracciato dalla fattispecie. Né, al riguardo, aiutano prassi operative di consenso, peraltro alle volte prestato in forma preventiva, dalla difesa. Sul punto, a prescindere dall’impossibilità tecnica di immaginare una sanatoria preventiva, occorre rilevare come il consenso non schermi dalla nullità di cui all’art. 525, comma 2, c.p.p. Basti pensare che il problema non è solo il diritto a riassumere la prova, ma il fatto che si decida su prove assunte dal giudice sostituito. Con questa consapevolezza si percepisce quanto non sia casuale che le Sezioni Unite, anziché ancorare la loro decisione al contenuto dell’art. 525 c.p.p. abbiano “sviato” il discorso sul regime delle letture. Se non ci si fosse allontanati dall’unica norma di riferimento, si sarebbe addivenuti ad una corretta interpretazione del dato di legge che, non a caso, conduce viceversa ad una conclusione sintonica al dettato costituzionale. Ed infatti dal momento in cui si prevede la sanzione della nullità assoluta per l’ipotesi in cui alla deliberazione non concorrano gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento, il vizio non è riferibile solo alla deliberazione. Al contrario esso attingerà, nel caso di mutamento del giudice, tutte le attività da quello compiute e, tra queste, non sono da escludersi proprio quelle di istruttoria dibattimentale.

Pertanto anche i verbali acquisitivi di prove se assunte da un giudice diverso da quello chiamato a concorrere alla decisione risultano colpiti dalla nullità: la conclusione deriva dalla semplice analisi grammaticale del comma 2 dell’art. 525 c.p.p. In quella sede il vizio non è riferito alla pronuncia ex se, ma anche all’attività dibattimentale dei giudici che risultano essere diversi da quelli che concorrono ad emetterla. La tesi trova conforto anche nel comma 1 dell’art. 525 c.p.p. laddove prevede che la “sentenza è deliberata subito dopo la chiusura del dibattimento”. Si contempla una soluzione di immediatezza temporale tra l’attività dibattimentale e quella decisoria che rafforza la teoria secondo cui la nullità di cui al comma 2 dell’art. 525 c.p.p. non sia riferibile alla sola deliberazione, ma a tutti quegli atti del dibattimento compiuti da un giudice diverso da quello della decisione. Non a caso quando si procede alla rinnovazione degli atti si è costantemente affermato che essa dovrà “ripartire” dalla formale dichiarazione di apertura del dibattimento di cui all’art. 492, comma 1, c.p.p.

A ben vedere la conclusione non è altro che una specifica applicazione della regressione conseguente alla necessità di rinnovare l’atto nullo; e qui poco importa la differenza tra atti probatori e propulsivi in quanto, da un lato, la rinnovazione afferisce anche ad atti propulsivi come ad esempio l’ammissione prove, e dall’altro, perché si è in presenza di una regola speciale quale quella di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p. che sanziona con la nullità tutte le attività compiute dal giudice diverso da quello chiamato ad emettere la decisione.

Ne discende come la corretta interpretazione dell’art. 525, comma 2, c.p.p. risulti in grado di tutelare con criteri di autosufficienza il principio di immutabilità, preservando il giudice da quelle mediazioni istruttorie che non gli consentono di percepire il valore di cui il dato è portatore.

  1. Il presidio dell’inutilizzabilità

I rilievi sin qui formulati consentono di individuare nel comando giuridico dell’art. 525, comma 2, c.p.p. un divieto di legge che non è azzardato ipotizzare assuma rilevanza ai sensi dell’art. 191 c.p.p.

Sul punto, pur in presenza della genericità della formula lessicale non pare dubitabile che, ancorchè non vi sia la previsione espressa di un divieto di legge, attraverso le formule “è vietato”, “non può”, “non sono ammesse”, “non sono consentite”, lo stesso possa ricavarsi dalla previsione legislativa che autorizza l’acquisizione e, quindi, la valutazione della prova solo in presenza di quei requisiti che consentono l’operatività della fattispecie[13]; del resto quest’ultima produrrà i suoi effetti nella misura in cui risulti integrato il relativo schema legale. Peraltro sarebbe del tutto irragionevole, laddove la volontà legislativa si risolva in una proibizione, escludere la sanzione dell’inutilizzabilità solo per le modalità espressive impiegate di volta in volta. Occorre quindi prescindere da queste ultime potendo le stesse risultare anche casuali come sembra emergere da quelle disposizioni le quali dopo un elenco di atti consentiti qualificano i residui come non ammessi ovvero ammessi con limitazioni[14]. Né quanto qui affermato può trovare ostacolo nella considerazione secondo cui il legislatore si è premurato di prevedere espressamente l’inutilizzabilità in alcune disposizioni di legge[15]; infatti se da tale circostanza se ne volesse inferire l’esistenza di un “sistema chiuso” non si comprenderebbe perché, oltre alle disposizioni speciali in cui il legislatore ha comminato espressamente l’inutilizzabilità, si sia avvertita l’esigenza di una previsione che regolamentasse in via generale la materia; ancor meno si comprenderebbe il perché una serie di disposizioni, pur prevedendo espressamente il divieto, non contemplino la sanzione e gli effetti che viceversa vanno desunti dalla previsione generale dell’art. 191 c.p.p.[16].

La circostanza rende ragione del fatto che la previsione della norma generale è dimostrativa della volontà di non limitare le ipotesi di inutilizzabilità solo a quelle evenienze che la comminano espressamente. A ben vedere, sul punto, la scelta di tecnica legislativa ripercorre quella utilizzata per le nullità di ordine generale: a fianco delle disposizioni speciali si prevede la norma generale con il chiaro intento di coprire i vuoti che la disposizione speciale potrebbe avere lasciato. Si perviene, quindi, ad un inquadramento della sanzione dell’inutilizzabilità proiettata in un ampio spettro operativo. La conclusione non riguarda solo il profilo dell’individuazione del “divieto di legge” rilevante ai sensi dell’art. 191 c.p.p., ma anche quello della riferibilità di tale divieto alla sola prova ex se ovvero anche al momento formativo della stessa. Ed infatti se è vero che secondo l’originaria opinione dei compilatori l’inutilizzabilità era stata concepita con riguardo al solo momento dell’ammissione della prova, mentre “la nullità (sarebbe stata) riservata alla violazione delle forme degli atti”, è altrettanto vero che tale simmetria non fu confermata nel testo definitivo dove, non a caso, si rinvengono fattispecie normative in cui la sanzione dell’inutilizzabilità, od il correlativo precetto costruito come divieto, risultano dettati anche per le modalità di acquisizione-formazione della prova[17]. Ed è in questo contesto che va apprezzato l’emendamento apportato all’art. 191 c.p.p. che ha sostituito all’originaria locuzione “prove ammesse” quella di “prove acquisite”. Il riferimento all’acquisizione impone di considerare la formula come volutamente non restrittiva. Per convincersene è sufficiente por mente alle caratteristiche del procedimento probatorio; questo, com’è noto, si compone di tre distinti momenti della progressione procedimentale costituiti dall’ammissione, dall’acquisizione-formazione ed infine dalla valutazione. Ed allora, a fronte di una disciplina che prevede il divieto di utilizzo di un risultato conoscitivo, l’avere riferito tale divieto anche al momento acquisitivo non può che significare la volontà di coprire con l’inutilizzabilità ogni violazione dell’intero procedimento probatorio.

La conclusione assume particolare consistenza alla luce della disciplina della prova innominata. In tali casi l’atipicità del mezzo di prova e la mancata codificazione dei criteri di acquisizione non consentirebbe di individuare i divieti di legge, tanto se riferiti alla prova ex se quanto alla sua fase acquisitiva. Si genererebbe, così, una sorta di “terra di nessuno” proprio in un settore in cui è maggiormente avvertita un’esigenza di garanzia.

Se così è l’utilizzo di dichiarazioni acquisite innanzi al giudice sostituito si pone in contrasto con un precetto normativo e tale contrasto deve essere apprezzato in termini di divieto d’uso del risultato conoscitivo. Soluzione, questa, che permette di tutelare l’efficacia euristica che promana dall’osservanza dell’immediatezza spazio-temporale tra giudice e prova.

  1. Conclusioni

In conclusione, sul piano culturale-operativo l’immutabilità è sempre stata trattata con insofferenza. Negli anni si sono constatate forme applicative tendenti a sminuirne la portata; eppure, nonostante tutto ciò, nessuno ha provato a modificare la comminatoria della nullità assoluta che garantisce l’effettività del principio. Si è preferito agire per “erosioni” progressive in cui, attraverso metodi ormai collaudati, ci si è allontanati sempre più dal dato di legge arrivando a scolorirlo del tutto fino a portarlo a fargli dire ciò che non dice. Tutto ciò è reso possibile da una forma di “cloroformizzazione” dell’interprete, avvenuta mediante il perseguimento di un processo efficiente. Allora qui occorre intendersi: o si ritiene l’immutabilità priva di ogni valore conoscitivo oppure, se così non è, l’efficienza del processo non può essere conseguita mediante la rinuncia a forme euristiche, viceversa affermate con forza nelle ipotesi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello nelle evenienze di overturning della sentenza di assoluzione.

La circostanza sorprende per la disuguaglianza di trattamento che in tal modo si viene a generare; meraviglia per la scarsa considerazione della presa di posizione operata sul punto dall’art. 111, comma 3, Cost. e pone un tema di fondo: quello della corretta interpretazione.

Infatti, anche a prescindere dalle sacche di resistenza che tendono a depotenziare il valore precettivo delle regole del giusto processo, quel che preme ribadire è che l’ordinamento, a livello di legge positiva, ha in sé gli strumenti per pretendere il rispetto del principio di immutabilità del giudice. Vi è una nullità assoluta, vi è un divieto di legge; bisogna allora riscoprire la funzione di garanzia delle invalidità e pretenderne la puntuale rilevazione in osservanza del valore cogente dell’oggettività della norma giuridica la quale, nella misura in cui tutela valori dell’ordinamento e, in particolare, valori euristici non può essere declinata secondo le esigenze del momento.

Di qui il compito dell’accademia ma anche e soprattutto dell’operatore del diritto di sentinella della legalità a garanzia di una giusta decisione e, tramite la stessa, dei diritti dell’individuo.

*Ordinario di diritto processuale penale nell’Università Luiss Guido Carli

[1] Corte cost., 10 giugno 2010, n. 205.

[2] Corte cost., 29 maggio 2019, n. 132.

[3] Corte cost., n. 361 del 1998.

[4] Occorre rilevare come non sia più possibile vivere il momento interpretativo come contrapposizione tra efficienza e garanzia. Se il perseguimento di un’efficienza viene realizzato attraverso la lesione dei principi del giusto processo si vanifica il risultato che si intendeva raggiungere. Per convincersene basti pensare alla c.d. revisione processuale introdotta per via europea con sentenza n. 113 del 2011.

[5] Cass., Sez. Un., 30 maggio 2019, Bajrami.

[6] Cfr., Cass., Sez. Un., 28 aprile 2016, n. 27620; Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2017, n. 18620; Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 14800; Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2019, n. 14426; Cass., Sez. Un., 30 marzo 2022, n. 11586, Sadik.

[7] Né varrebbe qui l’obiezione che le Sezioni Unite hanno riguardo ad un ragionevole dubbio rinforzato dalla sentenza di assoluzione, in quanto quel che conta è che comunque ritengono l’immediata percezione della prova maggiormente affidabile per un verosimile risultato conoscitivo.

[8] Si pensi ai macchinari, ai fondi necessari, ecc.

[9] Cfr. Corte cost., n. 17 del 1994; Cass., Sez. Un., 15 gennaio 1999, Iannasso; Cass., Sez. Un., 30 maggio 2019, Bajrami.

[10] Corte cost., n. 17 del 1994.

[11] Cass., Sez. Un., 15 gennaio 1999, Iannasso.

[12] Cass., Sez. Un., 30 maggio 2019, Bajrami.

[13] Si pensi alle ipotesi di cui agli artt. 266, commi 1 e 2; 103, comma 1; 360, commi 1 e 5; 325 comma 1; 352 comma 4; 355, commi 2 e 3, c.p.p.

[14] È l’ipotesi, ad esempio, degli artt. 238 comma 4 e 254, comma 3, c.p.p.

[15] Cfr. artt. 271 comma 1; 195 commi 3 e 7; 203; 63 commi 1 e 2; 240, 35,0 commi 6 e 7, c.p.p.

[16] Fra le tante evenienze cfr. gli artt. 62, 197, 220 comma 2, 391 bis, comma 6, c.p.p.

[17] V. ad esempio gli artt. 271 comma 1; 350 comma 6; 251 comma 1 c.p.p.