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L’INDIPENDENZA E LA RESPONSABILITÀ DEL PUBBLICO MINISTERO ITALIANO IN PROSPETTIVA COMPARATA.  PROPOSTE DI RIFORMA – DI GIUSEPPE DI FEDERICO

L’INDIPENDENZA E LA RESPONSABILITÀ DEL PUBBLICO MINISTERO ITALIANO IN PROSPETTIVA COMPARATA. PROPOSTE DI RIFORMA – DI GIUSEPPE DI FEDERICO

DI FEDERICO – L’INDIPENDENZA E LA RESPONSABILITÀ DEL PUBBLICO MINISTERO ITALIANO IN PROSPETTIVA COMPARATA. PROPOSTE DI RIFORMA.PDF

L’INDIPENDENZA E LA RESPONSABILITÀ DEL PUBBLICO MINISTERO ITALIANO IN PROSPETTIVA COMPARATA.  PROPOSTE DI RIFORMA.

di Giuseppe Di Federico* 

Un approfondito studio sull’indipendenza e sulla responsabilità del Pubblico Ministero, anche in prospettiva comparata, con alcune proposte di riforma. Questo scritto farà parte di un volume, a cura dell’autore, sulla riforma della giustizia dedicato a Marco Pannella.

Sommario: 1. Premessa; 2. Gli abnormi poteri del pubblico ministero italiano; 3. L’obbligatorietà dell’azione penale sottrae al controllo democratico le scelte di politica criminale; 4. L’obbligatorietà dell’azione penale vanifica il principio costituzionale dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge; 5. L’obbligatorietà dell’azione penale è di pregiudizio ai diritti del cittadino nell’ambito processuale; 6. L’obbligatorietà dell’azione penale è causa di lentezza ed inefficienza della giustizia penale; 7. Divisione della carriera del PM da quella del giudice; 8. Indipendenza del PM e indipendenza del giudice; 9. Obbligatorietà dell’azione penale: l’evoluzione incompiuta di un dogma difficile da eradicare; 10. Riforme.

  1. Premessa.

Ruolo e funzioni del pubblico ministero sono stati spesso oggetto di dibattito e di ricorrenti riforme in molti paesi democratici.  Numerose sono anche le raccomandazioni a riguardo emesse da organismi internazionali quali i Congressi delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine, il Consiglio d’Europa, l’Unione Europea.  Un tale interesse è certamente giustificato per almeno due ragioni:

a) il ruolo cruciale che la magistratura requirente svolge nella repressione della criminalità. I pubblici ministeri sono i “guardiani dei cancelli” della giustizia penale. Senza la loro iniziativa non può esservi un efficace intervento repressivo del giudice che è per sua natura un organo passivo.  Il ruolo del pubblico ministero ha, inoltre, acquisito un’importanza via via maggiore per effetto della crescente complessità, pericolosità e diffusione che i fenomeni criminali hanno assunto in tutti i paesi negli ultimi decenni e della dimensione che essi sono venuti assumendo anche sul piano internazionale;

b) le devastanti conseguenze che un uso indebito, improprio o partigiano, dell’iniziativa penale può avere sulla protezione dei diritti civili, sulla salvaguardia dello status sociale, economico, familiare e politico dei cittadini e sulla loro eguaglianza davanti alla legge penale (come ciascuno di noi sa bene, di per sé l’iniziativa penale spesso genera, di fatto, effetti sanzionatori cui non si rimedia con una sentenza di proscioglimento che giunge a distanza di anni).

  1. Gli abnormi poteri del pubblico ministero italiano.

I poteri del pubblico ministero italiano e l’assetto istituzionale nel quale opera hanno nel loro insieme caratteristiche uniche, senza eguali nel panorama dei paesi democratici.  Caratteristiche che sono tutte rivolte a potenziare le condizioni di indipendenza del pubblico ministero e a depotenziare quelle della sua responsabilità[1].

Si tratta nel suo complesso di un assetto operativo che genera non poche disfunzioni, sia sul piano del rendimento del “servizio giustizia” sia sul piano della protezione di valori che sono di grande rilievo in democrazia, quali: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la protezione dei diritti civili nell’ambito del processo penale, il controllo democratico delle politiche criminali.

Ricordo brevemente le principali caratteristiche strutturali e funzionali del nostro pubblico ministero che nel loro insieme lo differenziano molto da quelli degli altri paesi a consolidata democrazia.

1) Pubblici ministeri e giudici appartengono allo stesso ordine. Al pari dei giudici godono delle stesse garanzie di piena indipendenza esterna. A differenza di quanto avviene, con varie modalità, in altri paesi a consolidata democrazia, nessuna istituzione esterna può dare istruzioni al pubblico ministero su come svolgere le sue attività e quali priorità seguire nell’uso dei mezzi di indagine e nell’esercizio dell’azione penale. Nessuna istituzione esterna può supervisionare lo svolgimento delle sue attività.

2)  Tutte le decisioni relative allo status del pubblico ministero, dal reclutamento fino alla cessazione dal servizio, sono assunte in via esclusiva da un Consiglio superiore della magistratura (CSM) composto in stragrande maggioranza da rappresentanti eletti congiuntamente da giudici e pubblici ministeri.  Nessuno dei Consigli superiori in cui sono rappresentati giudici e pubblici ministeri (come Francia, Belgio, Romania) esercita poteri paragonabili a quello italiano nel decidere sullo status del pubblico ministero.  In quasi tutti i paesi dell’Unione Europea e in tutti i paesi di common law i ministri della giustizia –o altre istituzioni con ruoli funzionalmente simili, come gli “attorney general” dei paesi anglosassoni- svolgono un rilevante ruolo nelle decisioni in materia di status dei pubblici ministeri, cioè valutazioni di professionalità e/o disciplina e/o trasferimenti e/o nomine a uffici direttivi.

3)  A differenza degli altri paesi democratici non esiste una struttura gerarchica unitaria di livello nazionale che possa coordinare le indagini su tutto il territorio. Anche in Portogallo ove esiste un Consiglio superiore del pubblico ministero l’organizzazione del pubblico ministero è unitaria e opera nell’ambito di una struttura gerarchica al cui vertice è collocato un Procuratore generale che viene nominato per sei anni (ed eventualmente revocato) dal Presidente della Repubblica su indicazione del Governo[2].

In Italia, salvo casi assolutamente eccezionali previsti dalla legge, ma non utilizzati, le collaborazioni tra gli uffici del pubblico ministero possono avvenire solo su base volontaria.

4) I pubblici ministeri italiani godono di un regime di ampia indipendenza anche all’interno degli uffici cui appartengono. Certo, a livello dei singoli uffici di procura vi è formalmente una struttura gerarchica.  Di fatto però i poteri di direzione e supervisione dei capi degli uffici vengono severamente limitati da alcune leggi, e più ancora dagli orientamenti del sindacato della magistratura e dalle regole molto analitiche di ordine generale che da molti anni sono fissate dal CSM per disciplinare il funzionamento interno degli uffici del pubblico ministero: regole per la distribuzione del lavoro, per le avocazioni, per le sostituzioni nei casi di impedimento e moltissimi altri aspetti ancora. Non a caso si è sviluppato un marcato processo di personalizzazione delle funzioni del pubblico ministero quasi che anche per lui valesse il principio del giudice naturale precostituito per legge.  Di fatto, cosa che ricorrentemente avviene, ciascun sostituto procuratore può richiedere in vario modo l’intervento del CSM per ogni decisione del suo capo ufficio che, a suo avviso- sia in contrasto con i piani organizzativi prefissati o con la sua indipendenza nel gestire i casi che gli sono assegnati  Vero si è che con il d.lgs n.106/206 il legislatore aveva sottratto al CSM il potere di regolamentare l’organizzazione interna degli uffici del PM; tuttavia il CSM ha di fatto vanificato il volere del legislatore e attualmente il potere regolamentare Consiglio sugli uffici del PM è divenuto più cogente che in precedenza[3].  

5)  A differenza di quanto avviene negli altri paesi democratici che hanno un assetto della magistratura simile al nostro (Germania, Francia, Austria, Olanda e gli alti paesi democratici dell’Europa continente) da oltre 50 anni i nostri pubblici ministeri non sono più soggetti a reali, sostantive valutazioni di professionalità per la progressione in carriera, valutazioni positive che di regola sono invece cadenzate sulla base del mero decorrere della loro anzianità di servizio.  Certo anche le nostre leggi formalmente prevedevano seri vagli di professionalità e ricorrenti valutazioni nel corso dei 40/45 anni di permanenza in servizio.  L’interpretazione di quelle leggi data dal CSM è stata tuttavia tanto compiacente nei confronti delle aspettative dei propri elettori che di fatto tutti i pubblici ministeri, così come i giudici, raggiungono il più alto livello della carriera, della retribuzione, della liquidazione e della pensione (salvo “demerito”: di regola i casi di gravi violazioni disciplinari o di sanzioni penali[4]).

A differenza di quanto avviene in altri paesi dell’Europa continentale che hanno sistemi di reclutamento burocratico simili al nostro, in Italia le valutazioni di professionalità non prevedono né che il numero delle promozioni sia limitato e corrisponda al numero di vacanze che si creano ai livelli superiori della giurisdizione né che i magistrati di volta in volta valutati positivamente vengano differenziati secondo una graduatoria di merito.

6) Particolari strumenti sono stati predisposti anche per tutelare l’indipendenza del pubblico ministero sotto il profilo del trattamento economico.  Onde evitare che i pubblici ministeri debbano ricorrentemente instaurare trattative col potere esecutivo per la determinazione e adeguamento del loro trattamento economico, la legge prevede un vantaggioso meccanismo automatico di adeguamento triennale.  È uno strumento che non ha eguali in altri paesi. Va aggiunto che i pubblici ministeri italiani hanno il trattamento economico più elevato del pubblico impiego ed anche il più elevato tra i magistrati dell’Europa continentale.  Soprattutto perché, a differenza dei loro colleghi europei, che subiscono severi e selettivi vagli di professionalità e solo in pochi raggiungono i vertici della carriera, i nostri magistrati invece raggiungono tutti -come abbiamo già detto- il massimo livello della carriera, della retribuzione, della pensione e del trattamento di quiescenza, salvo gravissimi demeriti.

7) A differenza di altri paesi democratici ove l’inamovibilità è prevista solo per i giudici (Olanda, Inghilterra-Galles, Francia, e così via) in Italia i pubblici ministeri, al pari dei giudici, non possono essere trasferiti da un ufficio all’altro nel corso della loro lunga carriera, salvo che non siano loro stessi a farne richiesta[5].

8) Nel condurre le indagini, la polizia deve operare chiedendo istruzioni al pubblico ministero e seguendo in via esclusiva e vincolante le sue direttive (art. 347 cpp). Nella fase investigativa, cioè, il ruolo del pubblico ministero è quello di un poliziotto che non è certamente meno poliziotto solo perché si chiama pubblico ministero. La sola differenza da un ufficiale di polizia è che mentre questi ultimi rispondono del loro operato il nostro PM non può essere chiamato a rispondere delle decisioni discrezionali che assume, come poliziotto-indipendente, nella fase delle indagini.  In nessun altro paese a consolidata democrazia il PM ha tali poteri di polizia.

9) Il pubblico ministero può di sua propria sponte iniziare e condurre attività investigative di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino quando ritiene che sia stato commesso un crimine (art. 330 cpp). A differenza del giudice che ha un ben circoscritta competenza territoriale, il pubblico ministero può invece promuovere e svolgere di sua iniziativa e nella pienezza dei suoi poteri indagini su qualsiasi persona e su qualsiasi ipotesi di reato, ovunque commesso e che lui stesso ipotizza.  Ha cioè una competenza territoriale illimitata.

Buona parte delle caratteristiche del pubblico ministero sin qui considerate si collegano direttamente o comunque vengono giustificate con riferimento, più o meno diretto, alla norma costituzionale (art. 112) la quale impone ai pubblici ministeri di perseguire tutti i crimini che vengono commessi.  Un obbligo che non può essere fattualmente realizzato in nessun paese e che anche da noi è di fatto caratterizzato, come vedremo, da ampi margini di discrezionalità. Tuttavia poiché si tratta di un obbligo che formalmente è vincolante, esso porta con sé due implicazioni di grande rilievo:

a) lo Stato ha l’obbligo di finanziare tutte le spese che i pubblici ministeri considerano necessarie per condurre le attività investigative. Ciò in quanto qualsiasi limite relativo ai mezzi di indagine da utilizzare e sui criteri di spesa costituirebbe un limite all’osservanza del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale;

b) i pubblici ministeri non portano nessuna responsabilità per ogni e qualsiasi iniziativa investigativa e azione penale cui danno inizio, anche se mesi o anni dopo le loro iniziative risultano del tutto infondate e ingiustificate. In ogni caso essi possono pretendere, con immancabile successo, che il loro sospetto che un crimine fosse stato commesso imponeva comunque loro di agire. In altre parole l’obbligatorietà dell’azione penale trasforma ipso jure qualsiasi loro decisione discrezionale in materia di indagini e di azione penale in un “atto dovuto”, escludendoli da ogni forma di responsabilità (come valutazioni negative sulla loro professionalità, responsabilità per spese di indagini inutili e costose, danni di ordine sociale e/o economico, e/o familiare, e/o politico, e/o di salute causati a cittadini innocenti, e così via).

In nessun altro paese democratico, quindi, l’indipendenza del pubblico ministero è tanto ampia e la sua responsabilità tanto limitata quanto in Italia. I parziali tentativi sinora fatti di modificare alcune delle caratteristiche del pubblico ministero italiano fin qui sommariamente descritte hanno sempre incontrato la ferma opposizione del sindacato della magistratura e delle sue rappresentanze che nel CSM costituiscono la maggioranza assoluta.  Una opposizione che sinora ha avuto successo soprattutto per il rilevante potere contrattuale che da vari decenni la magistratura organizzata ha nei confronti della classe politica, un fenomeno sulle cui cause non posso qui intrattenermi[6].  Qualsiasi innovazione volta ad introdurre forme di responsabilizzazione del pubblico ministero viene considerata una minaccia per l’efficiente difesa della legalità e per il corretto funzionamento dell’assetto democratico.  Se quegli stessi criteri di assetto e funzionamento del pubblico ministero italiano dovessero essere utilizzati per valutare i livelli di protezione della legalità degli altri paesi a consolidata democrazia, nessuno di loro supererebbe l’esame di legalità (non la Francia, non l’Inghilterra, non l’Olanda, non la Germania, non l’Austria, non il Belgio, non gli Stati Uniti, e così via). 

L’indicazione sin qui fornita delle condizioni di elevata indipendenza e limitatissima responsabilità in cui opera il nostro pubblico ministero non sembri eccessiva. Che anzi non rappresenta appieno quanto avviene in realtà. A scopo illustrativo faccio riferimento solo a quattro casi emblematici per mostrare come i PM italiani possano impunemente sperperare ingenti somme di pubblico danaro in indagini prive di giustificazione, possano impunemente minacciare testimoni per ottenere le confessioni da loro desiderate, possano impunemente assumere iniziative   gravemente lesive della indipendenza dei giudici. Sono comportamenti dei PM che non solo rimangono impuniti ma che vengono addirittura premiati dal CSM con valutazioni altamente laudative della professionalità e anche con la nomina a incarichi giudiziari di prestigio.

            Primo esempio.  Il procuratore capo di una piccola pretura del Sud (Palmi) di sua iniziativa decise di svolgere indagini sul rapporto tra criminalità organizzata e massoneria.  Due anni dopo decise di estendere le indagini anche ad un partito politico ed ai suoi dirigenti. Le indagini si svolsero su tutto il territorio nazionale con appendici perfino all’estero. Il materiale raccolto assunse proporzioni enormi. Dietro pressioni dello stesso CSM il Ministro della giustizia -per non essere accusato di intralciare le indagini- fu costretto ad affittare un grande capannone che contenesse tutto quel materiale e ad assumere tecnici informatici che ne rendessero agevoli e veloci le consultazioni di volta in volta necessarie. Il procuratore in questione fu celebrato per l’indipendenza con cui perseguiva i poteri forti, ed il CSM anche e soprattutto per questo lo chiamò poi a dirigere una delle più grandi ed ambite procure della Repubblica (quella di Napoli).  Le risultanze delle indagini da lui promosse pervennero finalmente, dopo ben 9 anni dal loro inizio, al vaglio del giudice di primo grado che su parere conforme del pubblico ministero non solo archiviò l’inchiesta, non solo affermò che da quella monumentale documentazione non risultava alcun reato, ma affermò anche che non era stato neppure possibile individuare le ragioni che potessero giustificare le indagini compiute.  Nonostante gli ingentissimi, quanto ingiustificati, costi in termini di risorse umane e finanziarie effettuate nel corso dei 9 anni, nonostante risultasse da un giudicato che le iniziative investigative compiute erano prive di giustificazione, nonostante 60 persone fossero state per molti anni soggette ad indagini ed esposte alla gogna giudiziaria, nessuna conseguenza negativa ne derivò al procuratore in questione, né sul piano della valutazione della sua professionalità, né per l’ingente ed accertato spreco di pubblico danaro.  Né avrebbe potuto essere altrimenti in regime di obbligatorietà dell’azione penale e di autonoma iniziativa del pubblico ministero nel promuovere e condurre le indagini di sua sponte e senza limitazioni di spesa[7].

            Secondo esempio.  Come si sa il pubblico ministero è tenuto per legge a svolgere anche indagini a favore degli indagati (art. 358 cpp).  Nelle mie interviste ad un campione di mille avvocati penalisti, (effettuate nel 2000) non solo mi è stato segnalato che ciò avviene molto raramente, ma anche che (lo dice il 13,3% di loro) vi sono procuratori che ignorano deliberatamente le prove a discarico[8].  Ritenni che si trattasse di una informazione inattendibile fino a quando non ne trovai la prova in una sentenza disciplinare.  Un pubblico ministero aveva omesso di rivelare al giudice del riesame (cioè al c.d. tribunale della libertà) che un indagato in carcerazione preventiva era stato scagionato dall’aver partecipato ad un sequestro dalla testimonianza di uno degli autori confessi del sequestro stesso. Il tribunale del riesame all’oscuro di quella testimonianza aveva quindi confermato il provvedimento di custodia cautelare.  Il cittadino innocente rimase quindi in carcerazione preventiva per altri 8 mesi prima di essere scarcerato sulla base di quella stessa testimonianza.  Il caso fu portato all’attenzione del giudice disciplinare.  I fatti come dianzi sommariamente riferiti sono confermati dalla sentenza che tuttavia assolse comunque il procuratore in questione[9].  Dopo questi eventi le valutazioni espresse sulla professionalità di quel pubblico ministero sono state tutte altamente positive.

            Terzo esempio.  Due procuratori della procura della Repubblica di Roma erano convinti che una testimone avesse visto chi aveva sparato e aveva ucciso una studentessa dell’Università “La Sapienza” di Roma.  In sede di interrogatorio la signora in questione era accompagnata da un suo cognato poliziotto.  Rispondendo al pubblico ministero, negò in preda a forte emozione di aver visto alcunché.  Il pubblico ministero uscì dal suo ufficio lasciando la teste in compagnia del parente-poliziotto e ordinò che i loro colloqui fossero registrati.  Anche di fronte alle insistenze del cognato poliziotto la signora negò tra le lacrime di aver visto chi aveva sparato.  Il pubblico ministero tornò quindi nell’ufficio dimenticando di far disattivare la telecamera. Il filmato, quindi, ritrasse un pesante sequela di intimidazioni rivolte dal pubblico ministero alla teste che sempre più disperata e piangente seguitava a negare di sapere alcunché.  Il pubblico ministero le disse che sarebbe finita in prigione come complice del delitto se non avesse detto quanto aveva visto e la invitò a riflettere su quali sarebbero state le conseguenze per i suoi figli se fosse finita in prigione.  Alcuni giorni dopo la teste “confessò”. Il filmato venne accidentalmente alla luce e fu anche trasmesso dalla televisione pubblica. Persino il Primo ministro di allora, Romano Prodi, espresse il suo sgomento a riguardo.  Valutazioni negative sull’episodio furono espresse nell’immediato anche in sede CSM[10].  I pubblici ministeri in questione, tuttavia, non subirono conseguenze né sul piano disciplinare, né sul piano della valutazione della loro professionalità.

            Quarto esempio.  Casualmente tra le carte di un processo un avvocato rinviene una lettera scritta da un presidente del tribunale del riesame al presidente del tribunale di Milano.  Da quella lettera si evince:

a) che a seguito di una delibera del tribunale del riesame (c.d. “tribunale della libertà”) che rimetteva in libertà un imputato in detenzione preventiva, un PM, invece di attendere le motivazioni della decisione ed eventualmente impugnarla, ritenne più efficace esprimere subito, come si dice nella lettera, le sue “aspre critiche” con una “violenta aggressione verbale” nei confronti del presidente del collegio giudicante che non aveva obbedito alle sue richieste di mantenere in carcere l’imputato (una riflessione: mi sembra non dovrebbero esservi dubbi che si tratti di un grave atto di intimidazione nei confronti di un giudice ed un plateale attentato alla sua indipendenza. Nei paesi ove vige l’istituto del contempt of court per molto meno si finisce in galera);

b) il PM non è però soddisfatto delle “aspre critiche” e della “violenta aggressione verbale” nei confronti del giudice, si rivolge quindi al Presidente del tribunale perché intervenga. E che fa il presidente del tribunale? Invece di denunziare ai titolari dell’azione disciplinare l’aggressione verbale subita dal giudice e l’attentato alla sua indipendenza, pensa bene di convocare il giudice per avere spiegazioni (dopotutto perché litigare tra colleghi? Si tratta solo della libertà di un cittadino);

c) a seguito di questi eventi la presidente del tribunale della libertà, nella lettera scritta al Presidente del tribunale dichiara di trovarsi in “uno stato di grave disagio” perché a giorni avrebbe dovuto presiedere di nuovo il tribunale della libertà per giudicare un imputato con identiche imputazioni di quello per la cui liberazione era stata aggredita e avendo in udienza, ancora lo stesso PM. Chiede quindi al presidente del tribunale di essere sostituita perché, come lei stessa scrive, la prospettiva che si potesse “riproporre la sgradevole situazione già verificatasi” la privava “della serenità necessaria per decidere”. Che fa il presidente del tribunale?  Invece di chiedere la sostituzione del PM di udienza accoglie la richiesta del giudice e la sostituisce con altro magistrato.  Cambiato così il giudice cambiò anche la giurisprudenza, e questa volta l’imputato rimase in carcere.  L’intimidazione del PM, con la collaborazione del presidente del tribunale, aveva quindi prodotto i suoi effetti.

Venuti a conoscenza dei fatti dianzi descritti subito dopo il loro verificarsi, né il CSM né i titolari dell’azione disciplinare ritennero che sussistessero gli estremi per una iniziativa disciplinare né nei confronti del PM né nei confronti del presidente del tribunale. Nella sostanza hanno ritenuto che i loro comportamenti fossero pienamente legittimi e del tutto conformi all’etica giudiziaria (in versione nostrana).  Successivamente il CSM non ha neppure ritenuto che quell’episodio fosse rilevante ai fini della valutazione della professionalità per la promozione di quel PM a magistrato di cassazione, nel 1995. L’Avvocato Agostino Viviani, allora consigliere al CSM, propose che se ne tenesse conto, ma venne tacitato. Né ebbi più fortuna io nel dicembre 2002 in occasione della nomina di quello stesso magistrato a procuratore aggiunto della procura di Milano. Per aver richiesto che di quell’episodio si tenesse conto nella valutazione della professionalità di quel magistrato, così come era già capitato ad Agostino Viviani nel 1995, fui “verbalmente aggredito” dai consiglieri magistrati e trattato come chi abbia commesso un reato di lesa maestà. Mi fu persino impedito di distribuire ai consiglieri la fotocopia della lettera del Presidente del tribunale del riesame che descriveva di suo pugno gli eventi dianzi riferiti[11].  Anche il mio tentativo servì solo a sottolineare come quei comportamenti siano del tutto legittimi nel nostro processo penale, e come vengano addirittura premiati.  Il Pm di quell’episodio ha più volte sostenuto, anche di recente, che non bisogna separare la carriera dei giudici da quella dei PM perché questi ultimi perderebbero la cultura della giurisdizione[12]. Non oso immaginare che cosa avrebbe fatto quel PM al presidente del tribunale della libertà se non fosse stato trattenuto dalla sua “cultura della giurisdizione”.

Si potrebbero fornire molti altri esempi sui comportamenti simili a quelli diazi riferiti, a partire dal caso giudiziario di Enzo Tortora.  Il numero degli episodi che si possono ricordare e la loro collocazione temporale è però poco rilevante per ciò che qui più importa, e cioè che tali episodi siano potuti avvenire senza conseguenze per i pubblici ministeri che ne sono stati gli autori.  Il fatto che quei comportamenti pur essendo pienamente documentati e noti al CSM non siano stati sanzionati, e che le successive valutazioni di professionalità dei loro autori siano rimaste altamente laudative vuol infatti dire che di fatto quei comportamenti rientrano tra le opzioni comportamentali consentite al pubblico ministero dal nostro ordinamento, sono cioè pienamente legittime.

Passo ora a segnalare alcune delle principali conseguenze disfunzionali di ordine sistemico che sono generate dalle principali caratteristiche di assetto del pubblico ministero che ho dianzi descritto.

  1. L’obbligatorietà dell’azione penale sottrae al controllo democratico le scelte di politica criminale.

L’impossibilità materiale di perseguire tutti i reati lascia di fatto alla discrezionalità di un corpo burocratico reclutato per concorso, e quindi senza una diretta legittimazione democratica, la definizione di quali reati perseguire prioritariamente e con efficacia. In altre parole il potere di definire di fatto gran parte delle politiche pubbliche nel settore criminale.  Ciò non avviene in nessun paese a consolidata tradizione democratica. Di questo era ben cosciente anche Giovanni Falcone che dopo aver ricordato ed esemplificato la “disorganicità degli interventi repressivi da parte dei diversi organismi del pubblico ministero si domanda come sia possibile che “in un regime liberal democratico, quale è indubbiamente quello del nostro paese, non vi sia ancora una politica giudiziaria, e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti …mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale”,  e aggiunge che in mancanza di queste innovazioni (a tutt’oggi non ancora avvenute) “non sarà possibile disporre nel nostro Paese di un’amministrazione della giustizia realmente efficace e democratica”[13].

A riguardo è illuminante ricordare quanto lapidariamente affermato dalla Commissione presidenziale francese a cui, nel 1997, il Presidente Chirac aveva, tra l’altro, demandato il compito di esplorare la possibilità di sottrarre il pubblico ministero al controllo gerarchico del Ministro della giustizia e quella di adottare il principio di obbligatorietà.  La Commissione liquidò la questione in poche parole ricordando che nessun paese era mai riuscito, né sarebbe mai potuto riuscire a perseguire, tutti i reati. Che quindi un pubblico ministero pienamente indipendente chiamato ad applicare quell’inapplicabile principio avrebbe comunque dovuto compiere scelte di priorità.  Cioè scelte di politica criminale.  Concludeva ricordando che in un paese democratico le politiche pubbliche in tutti i settori, e quindi anche nel settore criminale, devono essere definite da organi che ne rispondano politicamente[14]. Questo principio è stato poi riaffermato di recente, nel 2017, anche dalla Corte Costituzionale francese[15].

Solo una volta il Governo italiano ha tentato di intervenire su questa materia, quando il Consiglio dei ministri, nella sua riunione del 25 ottobre 1991, approvò un decreto legislativo in cui si stabiliva che, limitatamente ai reati di criminalità organizzata, il Governo ed il Parlamento potessero dare indicazioni al Procuratore nazionale antimafia.  Tra l’altro prevedeva che al Procuratore nazionale antimafia si attribuissero poteri di tipo gerarchico su tutto il territorio nazionale in materia di indagini sulla criminalità organizzata, e che delle attività della Direzione nazionale antimafia si desse un rendiconto al Governo ed al Parlamento[16].  Il testo di quel provvedimento era stato proposto dal Ministro della giustizia Claudio Martelli, ma di fatto predisposto -anche con la mia collaborazione- da Giovanni Falcone. L’Associazione nazionale magistrati reagì duramente accusando il Governo di violare il principio costituzionale dell’indipendenza del pubblico ministero[17].  Come è capitato in numerose occasioni, precedenti e successive, anche in questo caso l’opposizione del potente sindacato della magistratura indusse il Governo a modificare subito il testo già approvato eliminando, in questo caso, sia le parti riguardanti i rapporti tra Procura Nazionale antimafia e altri organi dello Stato sia i suoi poteri di indagine e di avocazione.  Falcone divenne a dir poco impopolare tra i suoi colleghi, ed il CSM gli fece pagare a caro prezzo la sua iniziativa[18], una iniziativa che -come ho scritto altrove- era stata la principale ragione che lo aveva spinto ad accettare la nomina a Direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia[19]. 

  1. L’obbligatorietà dell’azione penale vanifica il principio costituzionale dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge.

Dagli anni 1960 e fino 20 anni fa, quando parlavo o scrivevo del pubblico ministero e del principio di obbligatorietà dell’azione penale ero sempre costretto a fornire documenti ed esempi per mostrare l’inapplicabilità di quel principio costituzionale.  Ora ne posso farne a meno perché il fenomeno è ampiamente riconosciuto anche dallo stesso CSM che, in varie occasioni ha anche approvato, le priorità fissate da alcune procure, pur non ponendosi il problema delle difformità nell’esercizio dell’azione penale tra le varie procure della Repubblica, né il problema di quali dovrebbero essere le responsabilità del pubblico ministero nel caso disapplicasse le priorità prefissate (che altrimenti la loro applicazione diviene solamente volontaria).   Di particolare interesse, il caso in cui il CSM ha approvato, seppur solo a stretta maggioranza e dopo un forte conflitto interno, i criteri con cui il procuratore capo di Torino non solo aveva fissato analitici criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale ma aveva formalmente sollecitato i suoi sostituti a “privilegiare la strada della richiesta di archiviazione -anche generosa- ogni qual volta essa appaia praticabile o anche possibile” e indicando anche quali casi “accantonare” temporaneamente, ciò al fine di regolare la discrezionalità dei singoli procuratori ed economizzare le risorse del suo ufficio[20].   Sulla discrezionalità con cui i singoli PM possono decidere sulle priorità da utilizzare nel trattare i casi loro assegnati è illuminante quanto affermato dal CSM in una sentenza disciplinare con cui ha assolto un sostituto procuratore che, trasferito ad altro ufficio, aveva lasciato un elevato numero di casi inevaso e tra essi quelli di natura più complessa che richiedevano maggiore impegno lavorativo. La Sezione disciplinare del CSM lo ha assolto perché, come ci dice la sentenza: “in assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica è inevitabile che tali criteri di priorità siano individuati dai singoli sostituti[21].  In altre parole, poiché solo in pochi casi i capi delle procure fissano quei criteri in modo molto articolato (non sono tenuti a farlo[22]), il CSM riconosce che di regola sia legittimo che ogni sostituto fissi le sue priorità.  Peraltro, che le singole procure e i singoli sostituti procuratori in casi del tutto simili tra loro seguano spesso criteri e priorità diversi l’uno dall’altro nell’uso dei mezzi di indagine e nell’esercizio dell’azione penale è ampiamente confermato dalla stragrande maggioranza dei 4265 avvocati penalisti da noi intervistati tra il 1992 ed il 2012 (circa il 90% di essi denunzia questo fenomeno[23]) e avvalorato con accenti molto preoccupati negli scritti di Giovanni Falcone[24].

I diversi orientamenti e le diverse modalità di lavoro delle singole Procure della Repubblica e dei singoli PM possono quindi generare e di fatto generano gravi diseguaglianze tra i cittadini nel processo penale.  Disuguaglianze che possono essere sanate, per quanto umanamente possibile, solo con una regolamentazione dell’uso dei mezzi di indagine e delle priorità nell’azione penale nell’ambito di una struttura unitaria del pubblico ministero simile a quella degli altri paesi democratici, responsabilizzando i pubblici ministeri perché le rispettino ed effettuando verifiche sulla loro osservanza sia a livello locale che nazionale.  Paradossalmente, quindi, il principio di obbligatorietà dell’azione penale voluto dal costituente per tutelare l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge costituisce il principale impedimento alla sua regolamentazione, mentre è solo con la sua regolamentazione a livello anche nazionale che quella eguaglianza si può di fatto promuovere e perseguire.

  1. L’obbligatorietà dell’azione penale è di pregiudizio ai diritti del cittadino nell’ambito processuale.

Un uso avventato o indebito dell’iniziativa penale può produrre, e spesso produce, devastanti conseguenze sullo status sociale, economico, familiare, politico e della stessa salute dell’indagato o imputato.  Conseguenze cui non si rimedia con una assoluzione che giunge spesso a distanza di anni. In vari paesi democratici le regole relative all’esercizio dell’azione penale sono specificamente mirate anche ad evitare che pervengano in giudizio processi che non siano basati su solide basi probatorie e che i cittadini possano da ciò risultare gravemente danneggiati (ad esempio in Inghilterra e Galles o in Olanda).  In un discorso tenuto ai Procuratori federali degli Stati Uniti nel 1940 l’allora U.S. Attorney General Robert Jackson, poi divenuto notissimo giudice della Corte Suprema, ricordava che se si lascia al pubblico ministero la possibilità di scegliere i casi da perseguire si lascia a lui anche la possibilità di scegliere le persone da perseguire e di dirigere quindi le indagini alla ricerca di prove per i possibili reati da lui/lei commessi.  Affermava che -per il cittadino e la democrazia- questo è il maggiore pericolo insito nel ruolo del pubblico ministero[25].  I poteri concessi al nostro pubblico ministero -tutti in vario modo collegati al principio di obbligatorietà- sono tali da rendere quel pericolo molto più grave ed incombente che in qualsiasi altro paese a consolidata democrazia. E’, infatti, pienamente legittimo che, se lo vogliono, i nostri pubblici ministeri conducano, di loro iniziativa ed in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo su ciascuno di noi, dirigendo le varie forze di polizia ed utilizzando tutti i mezzi di indagine disponibili, senza limitazioni di spesa, per accertare reati che loro stessi (più o meno fondatamente) ritengono essere stati commessi.  Per queste decisioni non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili, neanche quando producono devastanti effetti su cittadini ingiustamente indagati o imputati e sulle loro famiglie. Come già detto, il principio di obbligatorietà dell’azione penale trasforma tutte le loro iniziative, per discrezionali che siano, in “atti dovuti”.  Per comprendere quando un tale assetto del nostro Pm sia pregiudizievole per i cittadini occorre ricordare tra il 1992 ed il 2019 le ingiuste carcerazioni di cittadini innocenti risarciti dallo Stato sono state 28.702, 2019, in media 1025 innocenti in custodia cautelare ogni anno[26]. Questi dati, per quanto drammatici, sono ben lungi dal fornire, una piena rappresentazione del danno che l’anomalo assetto del nostro PM genera ai cittadini perché non tengono conto dei danni irreparabili (sociali, politici, economici, familiari e della stessa salute) loro arrecati anche dalle iniziative penali, molto più numerose, che non danno luogo a carcerazione preventiva né a risarcimenti, e che poi, spesso dopo moltissimi anni di “gogna giudiziaria”, si rivelano ingiustificate. A riguardo occorre anche ricordare che l’elevatissimo numero di assoluzioni, di cui forniremo i dati nel prossimo paragrafo, determinano, anch’esse, danni e sofferenze a migliaia di cittadini innocenti.

  1. L’obbligatorietà dell’azione penale è causa di lentezza ed inefficienza della giustizia penale.

In altri paesi democratici le regole che impegnano e responsabilizzano il pubblico ministero a non portare a giudizio cause per cui non esistono solidi elementi di prova servono anche ad evitare di sovraccaricare il lavoro dei giudici. Inoltre consentono loro di celebrare i processi in tempi più rapidi e di evitare che vadano in prescrizione processi per cui quelle prove sono inconfutabili.  Secondo le lapidarie parole usate nei lavori preparatori della riforma del pubblico ministero inglese del 1985, un diverso orientamento è “al contempo ingiusto per chi viene accusato e un inutile spreco delle limitate risorse del sistema di giustizia penale”. Una ricerca sulla relazione tra procedimenti definiti e numero di assoluzioni (ex art. 530 cpp) ci mostra come in anni recenti in Italia la percentuale delle assoluzioni sul totale dei casi definiti sia di regola ben superiore al 30% dei casi giudicati annualmente, con punte che arrivano al 44%, un fenomeno causato dal fatto che giungono a giudizio “una quantità di casi sostanzialmente non istruiti o istruiti male”[27]. E’ un fenomeno segnalato con preoccupazione anche dal Primo Presidente della Corte di cassazione nella sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, quando segnala che: “il 50% dei processi di primo grado introdotti dalla citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero (54,8% nell’anno giudiziario 2020/2021; 50,5% nell’anno giudiziario 2019/2020) si conclude con l’assoluzione sicché tenuto conto che la citazione diretta rappresenta, a sua volta, oltre i due terzi del carico di lavoro del tribunale monocratico (262.085 nell’anno giudiziario 2020/2021; 297.650 nell’anno giudiziario 2019/2020), deve concludersi per la necessità di un rinnovato impegno dell’ufficio del pubblico ministero nello svolgimento di indagini complete e di un serio ed effettivo filtro giurisdizionale per evitare un inutile dispendio di energie e di costi, oltre che, in primis, la pena derivante dal semplice fatto di essere sottoposti a processo”[28].

Per entrambi gli autori di quelle elaborazioni statistiche, il fenomeno dipende quindi in buona misura dalla inadeguatezza del lavoro istruttorio dei PM.  Non segnalano tuttavia un’altra componente del fenomeno che non poteva emergere dalle loro statistiche ma che è invece molto rilevante, anche se non quantificabile, e che emerge, invece, con chiarezza dalle miei interviste a PM, giudici dell’udienza preliminare, e dirigenti degli uffici requirenti i quali segnalano come in vigenza dell’obbligatorietà dell’azione i pubblici ministeri possono essere valutati negativamente per non aver esercitato l’azione penale mentre non corrono nessun rischio o valutazione negativa se promuovono un’azione penale non istruita o istruita male. È un problema che investe anche i capi degli uffici di procura che in teoria potrebbero esercitare un controllo sulla qualità del lavoro dei sostituti ma che corrono pesanti rischi nel farlo: sono ben consapevoli che interferire sul lavoro dei sostituti può farli accusare di interferire sul pieno dispiegarsi di quell’obbligo costituzionale e, al contempo, di conculcare l’indipendenza interna dei sostituti che formalmente da loro dipendono.

Sul perverso effetto che l’adozione del principio di obbligatorietà dell’azione penale ha sulla inefficienza della giustizia penale si è, peraltro, pronunziato anni fa il Comitato dei ministri della giustizia del Consiglio d’Europa quando ha analizzato il problema della dell’inefficienza della giustizia penale e dei ritardi che la caratterizzano.  In una sua raccomandazione agli Stati membri del 1987, il Comitato dei ministri della giustizia del Consiglio d’Europa ha, infatti, raccomandato l’adozione di un sistema di discrezionalità dell’azione penale che sia regolata nell’ambito del processo democratico.  Dopo aver aggiunto una serie di indicazioni su come regolamentare la discrezionalità del pubblico ministero, ha raccomandato agli stati membri che hanno costituzionalizzato il principio di obbligatorietà di adottare misure che consentano di raggiungere gli stessi obiettivi deflativi che si raggiungono col principio di opportunità[29].

  1. Divisione della carriera del PM da quella del giudice.

 La necessità di dividere le carriere dei giudici e pubblici ministeri è da molti anni argomento di discussione e contrasto sopra tutto tra avvocati che la vorrebbero e magistrati che si oppongono, con immancabile successo.  Per quanto io sia pienamente favorevole a tale divisione, ritengo, tuttavia, che l’efficacia di questa riforma rispetto agli obiettivi che si propone di conseguire non possa essere ottenuta senza la responsabilizzazione delle attività del pubblico ministero nell’ambito del processo democratico e di una struttura organizzativa unitaria e gerarchica del PM. La divisione delle carriere viene, infatti, chiesta con l’obiettivo di rendere il giudice effettivamente terzo ed imparziale tra le parti del processo, cioè difensore e pubblico ministero. Un giudice terzo anche perché non più collega del pubblico ministero, cioè di una delle parti.

Attualmente i magistrati ordinari in carriera sono all’incirca 10.000 e circa un quarto di essi svolgono le funzioni requirenti[30]. Con la sola divisione delle carriere questi giudici e pubblici ministeri già in servizio si considereranno, dall’oggi al domani meno colleghi a livello processuale? E’ quantomeno improbabile che ciò avvenga anche in una prospettiva di medio-lungo termine (quando saremo tutti morti), anche perché in molte sedi giudiziarie i giudici e i pubblici ministeri non solo seguiterebbero a lavorare negli stessi palazzi ed ad avere frequentazioni quotidiane, ma manterranno anche la stessa associazione professional-sindacale (né lo si può certo vietare), continueranno ad avere gli stessi interessi corporativi da difendere congiuntamente. In un tale contesto potranno veramente cambiare i processi di socializzazione professionale, di interiorizzazione dei consolidati valori del loro associazionismo che ispirano e governano i loro comportamenti?  Realisticamente parlando, a me sembra difficile da immaginare. Per riflettere sul rilievo istituzionale ed operativo che assumono da un canto la divisione delle carriere e dall’altro l’assetto del pubblico ministero in un sistema politico democratico, è certamente importante ricordare che mentre esistono in Europa altri casi in cui giudici e pubblici ministeri appartengono alla stessa carriera ed hanno un comune Consiglio superiore ( come Francia, Belgio), in nessuno di essi esiste un pubblico ministero che non sia inquadrato al contempo in una struttura gerarchica unitaria con al vertice un responsabile che risponda politicamente del suo operato.

  1. Indipendenza del PM e indipendenza del giudice.

Credo, quindi che sia necessaria una riflessione sull’uso del concetto stesso di indipendenza, perché se lo si usa indifferentemente sia con riferimento al giudice che al pubblico ministero si generano non poche confusioni e fraintendimenti che, seppur particolarmente evidenti nel caso italiano, non sono assenti neppure nel dibattito sugli assetti giudiziari di altri paesi di civil law.  Sotto il profilo funzionale il termine “indipendenza” ha, e non può non avere, un significato diverso quando viene riferito allo status del giudice o a quello del pubblico ministero. Gli obiettivi, e quindi anche le garanzie, dell’indipendenza nei paesi democratici di regola sono cioè diversi a seconda che si tratti del giudice o del pubblico ministero. Discutere approfonditamente sul piano comparato di tali differenze, e delle disfunzioni che si verificano quando di quelle differenze non si tiene conto, travalica gli obiettivi di questa presentazione. Mi limito qui a ricordare che l’indipendenza del giudice è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per garantire alcune delle caratteristiche fondamentali del suo specifico ruolo, vale a dire quello di organo passivo che giudica in modo imparziale controversie da altri a lui sottoposte dopo aver ascoltato, su un piano di piena parità, le parti in conflitto. È quindi necessario creare le migliori condizioni perché egli venga sottratto ad influenze sia esterne che interne al giudiziario. In democrazia, la stessa legittimazione del suo ruolo dipende non solo dal suo essere ma anche dal suo apparire come indipendente ed imparziale.

Molto diverse le caratteristiche funzionali del ruolo del pubblico ministero. Lungi dall’essere passivo e super partes il suo ruolo è per sua natura essenzialmente attivo (spetta a lui l’iniziativa penale, ed in molti paesi, Italia inclusa, anche la esclusiva direzione delle indagini di polizia).  Non è quindi un organo sostanzialmente imparziale, né la sua legittimazione dipende dall’apparire tale. Visibile la differenza tra i ruoli del giudice e del pubblico mistero sotto il profilo dell’indipendenza interna: per essere efficace l’attività del pubblico ministero richiede spesso un coordinamento delle sue iniziative con altri componenti del suo ufficio o con quello di altri uffici di procura, mentre per il giudice un tale coordinamento nel merito del suo agire e decidere rappresenterebbe una violazione della sua indipendenza.  Rilevanti anche le differenze per quanto riguarda l’indipendenza esterna.  La natura intrinsecamente discrezionale dell’azione penale rende la definizione delle priorità da seguire nel suo esercizio parte integrante e rilevante delle scelte da effettuare per un’efficace repressione dei fenomeni criminali.  Proprio per il loro grande rilievo politico, tali scelte vengono di regola in vario modo fissate in via generale nell’ambito del processo democratico, e sono vincolanti per i pubblici ministeri. Sotto questo profilo l’indipendenza esterna del pubblico ministero consiste non tanto, come è invece per il giudice, nel non ricevere direttive di ordine generale dall’esterno, ma piuttosto nel non riceverle con modalità prive di trasparenza o con disposizioni riferite a casi specifici.  Mi sembra che la differenza tra indipendenza del giudice e quella del PM fosse peraltro avvertita anche dal nostro Costituente che all’art 107 stabilisce solo per il PM che le garanzie della sua indipendenza sono fissate dalla legge sull’ordinamento giudiziario, cioè con legge ordinaria.

Soprattutto negli ultimi decenni il ruolo del pubblico ministero è stato spesso oggetto di accesi dibattiti e/o di riforme anche e soprattutto nei paesi a più consolidata tradizione democratica, come Italia, Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Olanda e così via[31].  In realtà, nell’affrontare o nel rivedere la posizione istituzionale del pubblico ministero, i paesi democratici devono cercare di bilanciare a livello operativo due valori confliggenti ma entrambi di grande rilievo. Da un lato la consapevolezza che il pubblico ministero partecipa alla formulazione e attuazione delle politiche criminali, impone l’adozione di meccanismi atti ad assicurare che il ruolo svolto in questo cruciale settore sia in qualche modo disciplinato e controllato nell’ambito del processo democratico. Dall’altro, l’esigenza di garantire che l’azione collegamento troppo stretto col potere politico, che potrebbe essere usato dalle maggioranze del momento allo scopo di influenzare la condotta (attiva od omissiva) del pubblico ministero per obiettivi di parte; più in generale tale esigenza risponde anche all’obiettivo di assicurare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale[32].

Se si considerano le modifiche introdotte nell’assetto istituzionale del pubblico ministero in vari paesi ed il perdurante dibattito sul suo ruolo si può certamente dire che i tentativi sinora fatti per bilanciare i due valori dell’indipendenza e della responsabilità assumono le caratteristiche di un “equilibrio instabile” piuttosto che quelle di soluzioni definitive e pienamente soddisfacenti. In particolare, in vari paesi democratici si può notare la ricorrente tendenza a modificare tale equilibrio con misure volte a rendere il pubblico ministero meno dipendente dalle maggioranze governative. Una tendenza che, tuttavia, mai viene spinta fino al punto di ignorare il “valore democratico della responsabilità” per le scelte di politica criminale e la necessità di regolamentare e responsabilizzare le attività del pubblico ministero nell’ambito di una struttura gerarchica di ambito nazionale.  Come abbiamo visto, All’interno di questo quadro l’Italia si profila come un caso deviante. Priorità assoluta è qui data al valore dell’indipendenza. Nessun rilievo viene dato al valore democratico della responsabilità per le scelte che i pubblici ministeri sono comunque chiamati a prendere nel cruciale settore delle politiche penali (indagini ed iniziativa penale).  In buona sostanza il valore dell’indipendenza ha perso la connotazione strumentale che gli aveva voluto dare il nostro costituente, cioè strumento che in regime di effettiva obbligatorietà dell’azione penale avrebbe garantito l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge penale, ed è di fatto diventato un valore di natura assoluta, non soggetto ad alcuna verifica.

  1. Obbligatorietà dell’azione penale: l’evoluzione incompiuta di un dogma difficile da eradicare.

Il principale ostacolo ad una razionale e realistica riforma dell’anomalo assetto del nostro PM è costituito dalle molteplici resistenze a modificare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (art.112) e quello ad esso strettamente collegato dell’assoluta indipendenza del PM.  Il costituente erroneamente credeva che tutti i reati potessero esse perseguiti e quindi inserì il principio di obbligatorietà in Costituzione.  Poiché a suo giudizio tutti i reati potevano e dovevano essere perseguiti e non vi erano quindi decisioni politiche/discrezionali da assumere in materia, il Costituente ritenne che l’iniziativa penale potesse e dovesse essere assegnata ad un organo tecnico del tutto indipendente da oggi altro potere, cioè un PM non più gerarchicamente subordinato al ministro della giustizia, onde evitare, per il futuro, le ingiustizie compiute nel periodo fascista. Indipendenza e obbligatorietà furono cioè concepite dal costituente come due facce della stessa medaglia.

L’impossibilità di perseguire tutti i reati ha reso anche impossibile che venissero conseguiti gli effetti benefici che il Costituente aveva collegato all’adozione di quel principio.  Dovendo di necessità scegliere quali reati perseguire il PM, compie, infatti, scelte di politica criminale ed assume quindi un ruolo di rilevo politico. Poiché queste scelte, in assenza di cogenti forme di coordinamento vengono spesso di fatto effettuate, come abbiamo già visto, in maniera differenziata da procura a procura ed anche a seconda del sostituto procuratore viene meno anche la garanzia dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge.

Se può sorprendere l’errore compiuto dal costituente nel ritenere che tutti i reati potessero essere perseguiti ancor più sorprende che nulla si sia fatto per rimediare a quell’errore ed alle conseguenze negative che produce.  Tuttavia, con rarissime quanto inascoltate eccezioni, per vari decenni sia la magistratura sia l’avvocatura, sia il mondo accademico trascurarono l’evidenza del fenomeno.  Nei casi in cui la discrezionalità appariva evidente si sosteneva che essa potesse essere sanata da una adeguata depenalizzazione dei reati esistenti.  Le ripetute, circostanziate, segnalazioni da me fatte in convegni nel corso 1970 e nei miei scritti degli anni successivi venivano considerate alla stregua di blasfemie non solo dai magistrati ma anche e ancora di più dal mondo accademico.  Il formalismo che li ispirava nella sostanza sembrava suggerire che fosse la realtà fattuale a doversi adeguare alle norme, soprattutto se norme costituzionali, e non le norme ad evitare di prevedere che si dovessero realizzare obiettivi fattualmente impossibili. A volte la difesa del principio di obbligatorietà assumeva parvenze ridicole o assurde.  Certamente ridicole come quando, nel corso degli anni 1980, chiesi di poter utilizzare i fondi di ricerca del Ministero della Giustizia per una ricerca empirica sull’applicazione del principio di obbligatorietà: mi venne detto che i fondi non potevano essere concessi perché si trattava di una “ricerca incostituzionale” e mi concessero i fondi per un’altra ricerca.  Certamente assurda come quando, a seguito dell’assassinio del giudice Livatino, i magistrati dell’ANM riuniti a Palermo, vollero costituire una commissione di studio per le riforme della giustizia, ponendo poi alla commissione il divieto di mettere in discussione il principio di obbligatorietà dell’azione penale, cosa che portò immediatamente alle dimissioni dalla commissione di Giovanni Falcone che giustamente non riteneva conciliabile tale divieto con i lavori di una commissione di studio. L’assurdità della vicenda fu accentuata anche dal fatto che, a seguito delle dimissioni, Falcone venne duramente accusato di non essere un democratico per non aver accettato le assurde pretese della maggioranza dei colleghi[33].

Ormai i sostenitori dell’idea che l’obbligatorietà l’azione penale sia fattualmente realizzabile sono pochi ma sono ancora di meno coloro che propongono di cancellare dalla Costituzione quel principio.  Seppure con lentezza e distanziate tra loro sono state avanzate proposte riformatrici in materia.  A mia conoscenza sono solo due proposte di natura legislativa che prevedono l’abolizione del principio di obbligatorietà, le altre prevedono invece di mantenere quel principio in Costituzione accompagnandolo con accorgimenti che consentono di regolarne la discrezionalità.  Prevedono, inter alia, l’abolizione di quel principio sia la proposta di riforma proposta da Forza Italia nella bicamerale del 1997 – proposta che sul punto recepisce quasi verbatim quanto da me proposto in un precedente scritto-, sia quella presentata alla Camera dai deputati radicali nel 2010[34].

Le proposte di legge che, a mia conoscenza, prevedono forme di regolamentazione dell’iniziativa penale pur mantenendo il principio di obbligatorietà sono state finora quattro.

Ricordo, in primo luogo, quella presentata in Senato da Cossiga nel 2002 (e ripresentata nel 2006 e nel 2008). Non era un disegno di legge costituzionale e, quindi non prevedeva l’abolizione del principio di obbligatorietà. Prevedeva, invece la fissazione di priorità nell’esercizio dell’azione penale e le modalità con cui tali priorità devono essere decise.  Modalità che in buona parte si ispiravano a quelle adottate in Olanda ed a quelle proposte (ma non attuate) da una Commissione presidenziale francese del 1997[35].

La seconda proposta di legge è quella del senatore Luigi Vitale presentata alla Cannerà dei deputati per la rima volta nel 2002 e ripresentata più volte fino al 2018[36].  Ha un contenuto quasi identico a quella di Cossiga.

La terza è una proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare predisposta dall’UCP nel 2017.  Si prevede che le priorità per l’azione penale siano fissate dal Parlamento, ma non si specifica come devono essere elaborate[37].

La quarta proposta, presentata nel 2018, è dei deputati Molteni, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi[38].

Aggiungo a una informazione di irrituale autocompiacimento: tutte e quattro le iniziative legislative dianzi indicate utilizzano ampiamente i miei scritti sul pubblico ministero per motivare le loro proposte di riforma, e tre di esse (tranne quella delle Camere penali) utilizzano in vario modo le modalità per la fissazione delle priorità contenute nella proposta di riforma da me predisposta su richiesta del Senatore Cossiga e da lui presentata nel 2002[39].

Nessuna delle quattro proposte prevede, tuttavia l’abolizione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale nonostante sia fattualmente inapplicabile.  Quando nel 2002 predisposi per Cossiga il disegno di legge sulle priorità dell’azione penale Lui mi disse che non voleva che si prevedesse l’abolizione del principio di obbligatorietà “perché i tempi non erano ancora maturi”.  Ovviamente non lo sono ancora visto che la riforma del processo penale proposta dalla Ministra Cartabia e già approvata dal Parlamento si limita a prevedere che le priorità vengano fissate dagli uffici del pubblico ministero “nell’ambito dei criteri indicati con legge dal Parlamento”[40].

10.Riforme.

Le analisi sin qui presentate sull’assetto del PM e le disfunzioni che genera sono empiricamente fondate e, quindi, chiunque voglia proporre riforme efficaci in materia non può ignorarle se non per ragioni di opportunità.  Ovviamente, può certamente proporre soluzioni diverse da quelle che indicherò qui di seguito.

A mio avviso occorre che le riforme strutturali e funzionali del PM:

1) prevedano in primo luogo l’abolizione dell’arte 12 della Costituzione nella parte in cui prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, non solo perché quel principio è fattualmente inapplicabile ma anche perché è contrario all’immagine di autorevolezza della stessa Costituzione. A me sembra addirittura poco dignitoso mantenere al suo interno una norma che non può essere applicata. Ritengo pertanto sconsigliabile ricorrere al trucco di mantenere formalmente in Costituzione quel principio per poi contestualmente vanificarlo stabilendo che esso verrà applicato secondo le modalità previste dalla legge.

2) prevedano la divisione delle carriere tra giudici e PM con concorsi di accesso alla professione differenziati anche per quanto riguarda le discipline d’esame che per i Pm dovrebbero includere, tra l’altro, anche conoscenze in materia di indagini, medicina legale, deontologia professionale riferita specificamente al ruolo del PM.

3) prevedano una struttura gerarchica e unitaria del PM come negli altri paesi a consolidata democrazia, una struttura cioè al cui vertice vi sia un soggetto cui attribuire la responsabilità di fronte al Parlamento delle politiche pubbliche nel settore della criminalità nonché sulla correttezza ed efficienza degli organi del PM. Di regola negli altri paesi democratici tale compito viene in vario modo assegnato ad un membro del governo (ministro della giustizia o attorney general). In alcuni paesi usciti come il nostro da un regime fascista, come Spagna e Portogallo si è voluto evitare, come avvenuto da noi, di assegnare quei compiti al Ministro della giustizia attribuendoli ad un procuratore generale pro-tempore proposto dal governo e nominato dal capo dello Stato.  Personalmente ritengo preferibile la soluzione che vede il Ministro della giustizia al vertice di una struttura gerarchica e unitaria del PM.  Non solo per uniformare le strutture del PM a quelle più funzionali degli altri paesi a consolidata tradizione democratica, ma anche e soprattutto perché in democrazia il ruolo del Ministro della giustizia è ben diverso da quello di un regime dittatoriale che temevano il nostro costituente e quelli di Spagna e Portogallo. Lo è sia in termini di trasparenza delle sue decisioni che in termine di reale responsabilità politica a livello operativo.  Aggiungo tuttavia che la mia preferenza per il Ministro della giustizia è condizionata ad una profonda riforma dell’assetto del Ministero che emancipi il Ministro dai condizionamenti della attuale struttura ministeriale in cui i magistrati occupano tutte le posizioni direttive del dicastero ed operano in regime di ampia autonomia[41].  Senza questa modifica del Ministero sarebbe opportuno optare per le se soluzioni adottate in Spagna e Portogallo che ho dianzi indicato[42]. 

4) Prevedere severe norme e accorgimenti di ordine normativo ed organizzativo per garantire che il Pm non possa subire indebite pressioni nella trattazione dei singoli casi e regolare i casi e le circostanze in cui si possa sottrarre la trattazione di un caso ad un PM cui quel caso sia stato già stato assegnato.

5) prevedere le procedure con cui debbono essere decise (ed eventualmente riviste o aggiornate) le priorità nell’uso dei mezzi di indagine e nell’esercizio dell’azione penale.  Per svolgere questo compito è necessaria la partecipazione di tutti i soggetti istituzionali che hanno esperienza dei fenomeni criminali a livello operativo, una partecipazione che può essere configurata traendo spunto dal modello vigente in Olanda e ampliando le indicazioni di riforma formulate a riguardo nei progetti di legge presentati dal Senatore Cossiga e dagli Onorevoli, Vitale e Molteni di cui abbiamo detto dianzi. Occorrerebbe cioè:

a) prevedere che ciascun procuratore generale di corte d’appello, sentiti i procuratori del suo distretto, formuli delle proposte motivate di priorità che tengano specificamente conto dei fenomeni criminogeni del proprio distretto.

b) prevedere che nel formulare le loro proposte i procuratori generali individuino anche le possibili connessioni tra i tipi di crimini da perseguire ed i mezzi d’indagine da utilizzare.

c) prevedere che i procuratori generali inviino le loro motivate proposte al procuratore generale presso la corte di cassazione, che le trasmetterà al Ministro della Giustizia con le sue osservazioni e le sue proposte;

d) prevedere che gli altri ministri che hanno maggiore conoscenza dei fenomeni criminali, e cioè il Ministro dell’Interno ed il Ministro delle finanze (cui fanno capo i corpi dei Carabinieri della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza), facciano pervenire al Ministro della Giustizia le loro proposte,

e) Prevedere una apposita struttura che consenta anche agli enti locali di indicare al Ministro le particolari esigenze di sicurezza che riguardano le loro comunità

f) prevedere che il Ministro della Giustizia, sulla base delle informazioni ricevute, proponga al Parlamento una coerente e motivata proposta sulle priorità da seguire e le sottoponga all’approvazione del Parlamento.

g) prevedere che i soggetti che partecipano alla definizione delle priorità effettuino un monitoraggio sulla efficacia operativa delle priorità effettuata dal Parlamento e sulle sue eventuali carenze e ne comunichino ogni anno i risultati al Ministro della Giustizia.

h) prevedere che nell’ambito delle loro attività di monitoraggio i procuratori generali verifichino anche l’efficacia dell’iniziativa penale promossa dai singoli sostituti del distretto, o di quelle promosse da pool di sostituti che si occupano congiuntamente di singoli casi, tenendo analiticamente conto degli esiti giudiziari di tali iniziative.

i) prevedere che con scadenza annuale i procuratori generali forniscano al Ministro i risultati della loro attività di monitoraggio sull’esercizio dell’azione penale, sull’uso e costo dei mezzi di indagine riguardanti il loro distretto e sull’uso delle misure restrittive delle libertà personali.

l) prevedere che il Ministro della Giustizia riferisca annualmente al Parlamento sullo stato della giustizia, ivi incluse le risultanze del monitoraggio relativo all’azione penale ed alle sue risultanze giudiziarie, all’uso dei mezzi d’indagine, all’uso delle misure restrittive della libertà personale.

m) prevedere che il Ministro della Giustizia, anche sulla base delle segnalazioni che riceve dai procuratori generali e dagli altri ministri, ed eventualmente delle scelte che in materia vengano indicate dall’Unione Europea, possa proporre al Parlamento modifiche alle priorità precedentemente fissate o in occasione della sua relazione annuale sullo stato della giustizia oppure in qualsiasi altra occasione ritenga necessario.

6) prevedere forme di responsabilizzazione dei PM non solo con i controlli connaturati alla struttura gerarchica e unitaria del PM di cui supra al punto 7.3 ma anche tenendo conto della correttezza delle iniziative assunte e dei risultati processuali complessivi raggiunti dai singoli PM nelle valutazioni della loro professionalità.  Che cioè siano nel loro insieme adeguate all’esigenza di tutelare il cittadino da iniziative ingiustificate e, al contempo, tali da evitale lo sperpero delle limitate risorse a disposizione del sistema penale.

7) prevedere forme di indennizzo per i cittadini che vengono giudicati innocenti dopo un periodo di procedimento penale a loro carico superiore ad un anno, anche se non soggetti a forme di detenzione preventiva.

8) Prevedere che il PM eserciti l’azione penale solo quando gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari siano tali poter determinare la condanna dell’imputato.

9) Prevedere che nei casi in cui il Pm non esercita l’azione penale, la vittima possa ricorrere al giudice per imporre al PM di agire.

10). Prevedere che allorquando un cittadino viene assolto nel giudizio di primo grado il Pm non possa ricorrere in appello. È una misura volta ad evitare che il pubblico ministero possa utilizzare i suoi superiori poteri e le sue maggiori risorse per perseguitare il cittadino per lo stesso reato con iniziative penali ripetitive.  È una misura presente in varie forme in molti ordinamenti dei paesi democratici e applicato con maggior rigore in alcuni paesi a tradizione giuridica di Common law, come gli USA ove è previsto nella stessa Costituzione tra i principi volti a garantire il giusto processo[43].

11) prevedere che tutte le decisioni relative allo status dei pubblici ministeri (le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari) vengano assunte dal Consiglio superiore del pubblico ministero su proposta del Ministro della giustizia.

12) prevedere che il Consiglio superiore del pubblico ministero sia presieduto dal Procuratore generale della Cassazione e composto in egual misura da pubblici ministeri eletti dai colleghi e da componenti eletti dal Parlamento con maggioranza qualificata. 

*Professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna

[1] Viene qui sinteticamente utilizzato un materiale molto ampio di ricerche e seminari condotti dall’autore in Italia ed in altri Paesi con finanziamenti sia del CNR che di organismi internazionali (come UNDP, World Bank, UNODC, USAID, COLPI, Open Society, ed altri ancora).  Per una recente ricerca sugli assetti del pubblico ministero attenta al momento applicativo e relativa sia a sei paesi dell’Unione Europea (Bulgaria, Francia, Germania, Inghilterra-Galles, Italia, Ungheria) sia a tre paesi extraeuropei (Stati Uniti, Cile e Sud Africa), vedi Open Society Institute, Promoting Prosecutorial Accountability, Independence and Effectiveness, Sofia 2008.  Numerosi sono gli scritti dell’autore di questo scritto dedicati alla analisi e descrizione del ruolo del pubblico ministero italiano in chiave comparata.  Tra essi: “Prosecutorial Accountability, Independence and Effectivenes in Italy” pubblicato nel libro dell’Open Society Institute appena citato, pp. 301-338;  “Indipendenza e responsabilità del PM alla ricerca di un difficile equilibrio: i casi di Inghilterra, Francia e Italia”, Il giusto processo, n. 1, maggio 2002, pp. 216-246 (con versioni pubblicate anche in inglese, russo e spagnolo);  “L’indipendenza del pubblico ministero e il principio democratico della responsabilità in Italia: l’analisi di un caso deviante in prospettiva comparata”, Rivista italiana di diritto e procedura penale, Anno XLI, Fasc. 1, 1998, pp. 230-252 (con versioni pubblicate anche in inglese, francese, spagnolo);  “Il pubblico ministero: indipendenza, responsabilità, carriera separata”, L’Indice penale, XXIX, n. 2, 1995, pp. 399-437;  “Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità”, in A. Gaito (a cura di), Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Jovene, Napoli 1991,  pp. 170-208. G. Di Federico M. Sapignoli, I diritti della diesa nel processo penale e la riforma della giustizia, Cedam, Padova 2014.  Per una presentazione degli assetti del pubblico ministero nei 25 paesi dell’Unione Europea vedi P. Tak (ed.), Tasks and Powers of the Prosecution Services in the EU Member States, opera in due volumi, Wolf Legal Publishers, Nijmegen, Olanda, 2004 e 2005.

[2] Si vedano gli art. 133 (lettera m), 219 e 220 della Costituzione portoghese. Un assetto simile esiste anche in Belgio ove vi è un Consiglio superiore della magistratura unitario per giudici e pubblici ministeri e ove il procuratore generale viene nominato dal Re ed è a capo di una struttura gerarchica ed unitaria.

[3] Il d.lgs n. 106/2006 ha abolito l’articolo l’art. 7-ter che dal 1988 che conferiva al CSM il potere di regolamentare anche l’organizzazione interna degli uffici del pubblico ministero. Con circolari del 12 luglio 2007, del 21 luglio 2009 e del 16 novembre 2017 il CSM ha, tuttavia, progressivamente riaffermato la sua piena competenza a fornire una propria normativa anche in materia di organizzazione delle procure della Repubblica richiamando esplicitamente a riguardo il suo ruolo di “vertice organizzativo della magistratura”. In quelle delibere ha anche ricordato che la nuova legge impone comunque ai capi delle procure di comunicare i piani organizzativi dei propri uffici al CSM e che il CSM stesso nell’esaminarli potrà effettuare le sue valutazioni e, se negative, includerle nei fascicoli personali dei procuratori per essere poi tenute presenti in sede di valutazione della loro professionalità. Si tratta di giudizi negativi che avranno molto più rilievo che in passato quando, prima del d.lgs del 2006, l’attribuzione di un incarico direttivo era effettuata dal CSM a tempo indeterminato e le valutazioni negative, o non pienamente positive, potevano solo frustrare le aspirazioni future dei dirigenti a sedi più gradite o ad altri e più importanti incarichi direttivi. Non potevano però, in sede di valutazione della professionalità privarli dell’incarico direttivo che già ricoprivano. La legge del 2006 che introduce la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi -quattro anni con un solo rinnovo dello stesso incarico nello stesso ufficio- aumenta di molto il rilievo delle valutazioni del CSM in materia e la cogenza della normativa delle sue circolari per i magistrati che esercitano quegli incarichi e che aspirano a ottenerne il rinnovo per un secondo quadriennio o altri incarichi direttivi nel prosieguo della propria carriera.

[4] V. G. Di Federico (cura di), Ordinamento giudiziario, Bononia University Press 2019, pp. 343-347.

[5] La legge prevede alcune limitate eccezioni sia per i giudici che per i pubblici ministeri, come nel caso di soppressione dell’ufficio di appartenenza.  Le norme volte a garantire, con trasferimenti di ufficio, la copertura delle vacanze di personale togato negli uffici giudiziari sono definite dallo stesso CSM “inefficaci” e anche “controproducenti”.  Vedi a riguardo G. Di Federico (a cura di), Ordinamento giudiziario: uffici giudiziari, CSM e governo della magistratura, op.cit., pagg. 350-352.

[6] A riguardo, vedi G. Di Federico, La riforma della giustizia: un percorso ad ostacoli, in G. Di Federico, M. Sapignoli. I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia, op. cit, pp. 147-195.

[7] Per una presentazione di questo caso e degli sviluppi successivi, vedi il mio intervento nel Plenum del CSM del 18 settembre 2003. Vedi anche Delfo Del Bino, Il caso massoneria, un decennio di politica, giustizia e democrazia, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 2001, in particolare i capitoli 2 e 3.

[8] V. G. Di Federico, M. Sapignoli, I diritti della difesa op. cit., p. 7,  e le tabelle 1 e 1bis a p.23.

[9] Si vedano: la sentenza della sezione disciplinare del CSM del 23 gennaio 1998. n. 9/98, e la sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione del 4 maggio 1999, n. 282.

[10] La trascrizione degli interrogatori e le valutazioni negative espresse per l’accaduto da parte del presidente del Consiglio, di parlamentari e dello stesso CSM possono essere lette in A. Beretta Anguissola e A. Figà Talamanca, La prenderemo per omicida. Caso Marta Russo: il dramma di Gabriella Alletto, KOINè, Roma 2001.

[11] Il testo della lettera del presidente del tribunale della libertà ed i commenti sugli avvenimenti ad essa collegati sono presentati, con i nomi dei protagonisti, nel libro di Agostino Viviani, La degenerazione del processo penale in Italia, SugarCo, 1988, p.178-79 e 78-80.  Conservo personalmente una fotocopia di quella lettera.

[12] Vedi A. Spataro, “Giudice e pubblico ministero: la forza del nostro sistema”. Il Corriere della Sera del 24/2/2022.

[13] Il brano è tratto da un discorso pronunziato al Convegno “L’azione per la repressione dell’illecito tra obbligatorietà e discrezionalità (XV Congresso di Senigallia, 2-3 febbraio 1990), cfr. Giustizia e Costituzione, XXII, 1-2, 1991, pp. 53-56. Il testo di questo intervento è stato poi ripubblicato anche in G. Falcone, Interventi e proposte (1982-1992), Milano, Sansoni, 1994, pp. 173-174. Il corsivo “assolutamente irresponsabili” appare nella versione scritta da G. Falcone.

[14] Il Presidente francese istituì la “Commission de réflexion sur la justice” il 21 gennaio 1997 e la commissione presieduta dal Presidente della Corte di cassazione consegnò il suo rapporto conclusivo nel luglio 1997.  Solo 6 dei 20 componenti della commissione erano magistrati ordinari e 4 non erano neppure giuristi (giornalisti specializzati e professori di materie non giuridiche).  All’inizio della relazione si afferma che la commissione si impegna a svolgere i lavori prendendo le distanze dal “corporativismo giudiziario anche se ammantato dall’ideale dell’indipendenza della magistratura”. Il rapporto può essere consultato sul sito https://www.vie-publique.fr/sites/default/files/rapport/pdf/974072100.pdf.

[15] La sentenza del Conseil Constitutionnelle francese è dell’8 dicembre 2017 (n. 680).  L’azione era stata promossa dal sindacato dei magistrati francese il quale chiedeva che fossero dichiarate incostituzionali, perché a suo avviso incompatibili con l’indipendenza della magistratura, le norme che ponevano il Ministro della giustizia al vertice di una struttura gerarchica ed unitaria del pubblico ministero.

[16] Si vedano gli artt. 8 e 9 del testo originale del d.l. 20/11/1991, n. 367 proposto dal Ministro Martelli, e successivamente modificato, con cui si creava la Direzione nazionale antimafia.  In quel testo, tra l’altro, si assegnavano al Procuratore nazionale antimafia poteri di tipo gerarchico su tutto il territorio nazionale in materia di indagini sulla criminalità organizzata. Era un testo normativo predisposto da Giovanni Falcone ed al quale io stesso avevo collaborato. L’opposizione della magistratura organizzata e del CSM fu durissima e, di conseguenza, il testo del decreto fu cambiato escludendo poteri gerarchici del Procuratore nazionale antimafia e la sua stessa possibilità di condurre direttamente indagini in materia di criminalità organizzata.  La prima versione di quel decreto legislativo sulla Direzione nazionale antimafia prevedeva anche forme di collegamento del Procuratore antimafia col Parlamento e col Governo.

[17] Le dichiarazioni dei principali esponenti dell’Associazione nazionale magistrati -come Giacomo Caliendo, Mario Cicala, Giovanni Palombarini, Raffaele Bertone e altri ancora- sono riportate dai giornali sotto titoli catastrofici. Ne ricordiamo solo alcuni: “Giudici di Governo: oramai è cosa fatta” (l’Unità del 27 ottobre 1991); “Magistrati schiavi dell’esecutivo: celebreremo solo i processi che vorranno i politici” (Il Tempo, 28 ottobre 1991); “Le toghe insorgono: è fuori legge” (Gazzetta del Mezzogiorno, 26 ottobre 1991).

[18] Proprio per aver predisposto il testo che prevedeva da un canto connessioni tra le attività della Direzione distrettuale antimafia il Governo ed il Parlamento e dall’altro assegnava al Procuratore nazionale antimafia poteri di natura gerarchica in ambito nazionale per le indagini sulla criminalità organizzata, la Commissione per gli incarichi direttivi del CSM bocciò la sua domanda per il posto di Procuratore nazionale antimafia (ottenne due soli voti favorevoli su sei). In quell’occasione vennero addirittura avanzati sospetti sulla sua indipendenza qua magistrato. Di questo orientamento, presente nel CSM e non solo nella Commissione per gli incarichi direttivi, si fece puntuale cronista un componente del CSM, il Prof. Alessandro Pizzorusso, in un articolo apparso sull’Unità del 12 marzo 1992 con il significativo titolo “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché”, e non meno significativo sottotitolo “Il principale collaboratore del Ministro non dà più garanzie di indipendenza”. In tale articolo, l’autorevole esponente del CSM nominato dal Parlamento su indicazione del Partito Comunista Italiano, ricorda la stretta collaborazione di Falcone con il Ministro in carica, nonché i contrasti tra Ministro e CSM. Riferisce che “fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al Ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia…”; ricorda che “Se si analizza il risultato di voto espresso dai componenti della Commissione del CSM cui spetta formulare la proposta per la nomina dei direttivi … si nota come in quella circostanza Giovanni Falcone abbia riportato soltanto i voti di un laico appartenente al partito in cui milita il Ministro e di un togato appartenente a UNICOST” una delle correnti dell’Associazione nazionale magistrati. E al fine di sottolineare l’impopolarità tra i magistrati dell’unico voto di un magistrato a favore di Giovanni Falcone aggiunge che “se i magistrati di UNICOST votassero anche in plenum a favore di Falcone … essi perderebbero consensi tra i loro colleghi che il 22 marzo debbono eleggere il comitato direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati”.  Il deliberato della commissione incarichi direttivi che non aveva espresso la sua preferenza per Falcone per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia non giunse mai al vaglio del Plenum del CSM perché nel frattempo, il 23 maggio 2002, Giovanni Falcone era stato assassinato dalla mafia.

[19] Per le vicende che portarono Giovanni Falcone ad assumere l’incarico di Direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia il 13 marzo 1991, e per le motivazioni della sua scelta di accettare quell’incarico, vedi G. Di Federico, “Io, Falcone e la sua esperienza romana” (Il Messaggero, 29 maggio 2002).

[20] Vedi, ad il documento della Procura della Repubblica di Torino, prot. N. 58/07, del 10 gennaio 2007 dal titolo “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza dell’applicazione della legge che ha concesso l’indulto”, che fissa in modo dettagliato le priorità da seguire. Questa iniziativa del Procuratore Marcello Maddalena fu discussa, e approvata, a maggioranza, dal CSM nella seduta pomeridiana del 15 maggio 2007.  Va ricordato che nei primi anni 1990 anche un altro procuratore (circondariale) di Torino, Vladimiro Zagrebelsky, aveva adottato priorità per l’esercizio dell’azione penale, anche se meno analitiche di quelle del procuratore Maddalena.

[21] Sentenza del 20 giugno 1997. Un pubblico ministero era stato incolpato di aver trascurato un notevole numero di procedimenti che, dopo il suo trasferimento ad altro ufficio, erano stati ridistribuiti aggravando pesantemente il carico di lavoro dei suoi ex-colleghi.  Nella sentenza, dopo aver ricordato che negli uffici di procura “… la domanda di giustizia è notevolmente superiore alla capacità …. di esaminare i relativi procedimenti …” e che quindi “… non ci si può sottrarre al compito di elaborare criteri di priorità …”, il pubblico ministero viene assolto perché “In assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica, è inevitabile che tali criteri di priorità siano individuati dai singoli sostituti”.  Avendo salvato l’incolpato la sentenza salva anche il principio di obbligatorietà.  Aggiunge infatti subito dopo “Ciò non suona offesa (sic!) alla obbligatorietà dell’azione penale” perché “… non deriva da considerazioni di opportunità … ma trova causa nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organizzazione giudiziaria nel suo complesso e della procura della Repubblica in particolare”.

[22] L’art. 3 della circolare sulle procure del SCM del 16 novembre 2017, con uno stridente ossimoro così recita “Il Procuratore della Repubblica, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei parametri fissati dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p. e delle altre disposizioni in materia, può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti”.  È una delle occasioni in cui il CSM ha autonomamente deciso che indicazione delle priorità e obbligatorietà dell’azione penale sono tra loro pienamente conciliabili.

[23] Nell’ultima rilevazione effettuata nel 2012, il 91,6% dei 1265 avvocati penalisti intervistati sosteneva (seppure con diversa intensità) di aver riscontrato sostanziali differenze tra i diversi PM nell’uso delle priorità nel perseguire i reati e l’87% di essi sostanziali differenze nell’uso dei mezzi di indagine (seppure con diversa intensità).  Vedi G. Di Federico, M. Sapignoli, I diritti della difesa…, op.cit., pp. 25-31.  Vengono qui indicati anche i dati, del tutto simili, ottenuti dalle rilevazioni del 1992, 1995, 2000, ciascuna relativa a 1000 avvocati penalisti 

[24] Dice infatti “….la politica giudiziaria complessiva che non può essere lasciata alla mercé delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici -o peggio dei singoli magistrati- senza alcuna possibilità istituzionale di intervento……ciò non giova neanche all’immagine della giustizia che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema“. Vedi, Giovanni Falcone. Interventi e Proposte (1982-1992), op. cit., pp. 180-181. Il corsivo è mio

[25] Vedi Robert H. Jackson, “The Federal Prosecutor, Journal of the American Judicature Society, vol. 24, giugno 1940, p. 19.  È il testo della “Prolusione alla seconda conferenza annuale dei pubblici ministeri federali degli Stati Uniti” del 1° aprile 1940. All’epoca Jackson ricopriva la carica di Attorney General degli Stati Uniti. Il brano cui si fa riferimento nel testo è il seguente: “L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve scegliere i casi, perché nessun pubblico ministero potrà mai indagare tutti i casi di cui riceve notizia … Se il pubblico ministero è obbligato a scegliere i casi, ne consegue che può anche scegliersi l’imputato. Qui sta il potere più pericoloso del pubblico ministero: che egli scelga le persone da colpire, piuttosto che i reati da perseguire. Con i codici gremiti di reati, il pubblico ministero ha buone possibilità di individuare almeno una violazione di qualche legge a carico praticamente di chiunque. Non si tratta tanto di scoprire che un reato è stato commesso e di cercare poi colui che l’ha commesso, si tratta piuttosto di individuare una persona e poi di cercare nei codici, o di mettere gli investigatori al lavoro, per scoprire qualcosa a suo carico…”.

[26] Per maggiori dettagli vedi www.errorigiudiziari.com ove viene tra l’altro indicato che la spesa sostenuta dallo Stato per risarcire i cittadini ingiustamente detenuti in quel periodo supera i 757 milioni di euro, per una media di poco superiore ai 27 milioni di euro l’anno.

[27] V. C. Valentini, “riforme, statistiche ed altri demoni”, in Archivio Penale web 2021, n 3, pp. 18-24.

[28] V. La Relazione del Presidente della Corte di cassazione, Pietro Curzio presentata all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, pp.55-56.

[29] Raccomandazione del 17 settembre 1987, N° R 87, 18.

[30] Non è possibile dare cifre esatte sull’organico effettivo perché molti posti sono scoperti: Secondo i dati i forniti dal CSM l’organico previsto è di 10433 magistrati di cui 2619 sono destinati alle funzioni requirenti.

[31] Per le proposte di riforma pendenti sull’assetto del PM in Italia vedi infra il paragrafo 9.  Al paragrafo 3 e alle note 14 e 15 abbiamo già indicato i ripetuti tentativi, non riusciti, di affrancare il PM francese della dipendenza gerarchica dal Ministro della giustizia.  Di notevole interesse le riforme costituzionali proposte in Inghilterra a seguito di un caso di ingenti tangenti pagate al principe Saudita Bandar in relazione ad una vasta fornitura di aerei per l’Arabia Saudita prodotti da una ditta inglese (BAE Systems). L’Arabia Saudita minacciò non solo di annullare il vantaggioso contratto di fornitura ma anche di interrompere i rapporti di vitale collaborazione con il Regno Unito in materia di sicurezza ed itelligence. Nel dicembre 2007 l’Attorney general annunziò che sarebbe stato imposto il nolle prosequi per interrompere l’iniziativa penale. La decisione dell’AG fu impugnata in sede giudiziaria e la Corte ritenne che l’imposizione del nolle prosequi fosse illegittima perché incompatibile con la “rule of law”.   Il Governo inglese impugnò il verdetto di fronte alla Camera dei Lord che, nel luglio 2007, stabilì che la decisione di interrompere l’azione penale era legittima a causa delle gravi conseguenze per la sicurezza nazionale che sarebbero derivate dall’interruzione della collaborazione con l’Arabia Saudita nel settore dell’intelligence.  Questi eventi generarono un serrato, acceso dibattito che durò alcuni anni e vennero proposte riforme di ordine costituzionale (Constitutional Renewal Bill) in cui si chiedeva di abolire gli istituti del nolle prosequi e quello del national interest, nonché di rivedere il ruolo dell’Attorney general ed i suoi poteri.  Quelle proposte non produssero che modifiche limitate tanto che chi legge oggi il Crown Prosecution Code trova ancora gli istituti del nolle prosequi, la clausola estintiva del national interest e sostanzialmente intatti i poteri dell’Attorney General.

[32] Diverse sono le soluzioni che vari paesi hanno adottato -soprattutto negli ultimi decenni- per bilanciare queste contrapposte esigenze. Ad esempio: a) disposizioni intese ad ovviare all’inazione del pubblico ministero, come ad esempio l’iniziativa popolare in Inghilterra e Spagna o il ricorso al giudice per imporre l’esercizio dell’azione penale in Germania; b) disposizioni che impongono al Ministro della giustizia di impartire direttive ai pubblici ministeri in forma scritta, come in Francia; c) l’elaborazione di norme scritte volte a fissare le priorità cui i pubblici ministeri devono attenersi per quanto concerne sia la tipologia dei reati da perseguire sia le modalità di indagine, come in Inghilterra e in Olanda; d) l’istituzione di “procuratori indipendenti” nominati ad hoc per perseguire i più alti gradi del potere esecutivo e gli alti funzionari dell’amministrazione pubblica, come negli Stati Uniti.

[33] L’episodio, mi fu riferito da Falcone per telefono subito dopo la riunione.  Era veramente arrabbiato.  Ricordo che per riportare il sorriso gli raccontai una storiella inglese sui limiti della democrazia. La storiella narra di un ragazzo che dopo aver giocato coi suoi compagni torna a casa e dice alla mamma che avevano visto un corvo femmina. Alla madre che gli chiedeva come facessero a sapere che fosse femmina rispose “abbiamo votato”. La storiella lo divertì, nell’usare lo strumento del voto i suoi colleghi si erano comportati come quegli sprovveduti ragazzi, non valeva la pena di arrabbiarsi.  Più volte ho ricordato questo episodio nei miei scritti ed anche su giornali, vedi, ad esempio: “Falcone e la storiella del corvo” in Libero, 29-6-2001.

[34] Vedi Risoluzione della Camera dei deputati 6/00040 proposta dall’On. Rita Bernardini ed altri, e approvata a larga maggioranza il 21/1/2010.  È una risoluzione con cui si impegnava il Governo a promuovere numerose riforme del nostro sistema giudiziario, tra cui anche quella dell’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale.

[35] Delega al Governo in materia di determinazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’zione penale, presentato la prima volta al Senato il 19/3/2002 e ripresentato il 10/5/2006 e il29/4/2008. Vedi http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00017711.pdf

[36] Delega al Governo in materia di determinazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’zione penale. V. DDL S. 370 (senato.it)

[37] Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, presentata alla Camera dei deputati nella XVII legislatura il 31 ottobre 2017 e mantenuta all’ordine del giorno ai sensi dell’articolo 107, comma 4, del Regolamento. Vedi http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.14.18PDL0001170.pdf

[38] Delega al Governo in materia di determinazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale.  Presentata il 23 marzo 2018, vedi http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.268.18PDL0003950.pdf

[39] Vedi supra la nota 31.

[40]Vedi art.1, comma 9 lettera i della legge, https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2021/08/senato-ddl-riforma.pdf .

[41] L’ampia autonomia discende principalmente, ma non solo, dal fatto che a differenza dei dipendenti degli altri ministeri il Ministro non ha nessun potere sulle decisioni che riguardano lo status dei magistrati ministeriali che da lui formalmente dipendono (valutazioni della loro professionalità, promozioni, disciplina ecc.), quelle decisioni rimangono di esclusiva competenza del CSM.  Per una presentazione delle implicazioni di un tale assetto del Ministero della giustizia italiano, vedi G. Di Federico, “Magistrati al Ministero della giustizia”, in G. Di Federico e M. Sapignoli, I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della Giustizia, op.cit., pp. 151.157.  Per le mie proposte di riforma del Ministero della giustizia, G. Di Federico, Magistrati al Ministero della giustizia: proposte di riforma, Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2022, in corso di stampa.

[42] Vedi supra la nota 2.

[43] Anche l’Italia si era dotata di una legge che impediva al PM di proporre appello nei casi di assoluzione, la legge n. 20 del 2006, conosciuta come “Legge Pecorella” dal nome del suo proponente.  Tuttavia, a seguito di una eccezione di costituzionalità sollevata su iniziativa delle procure della Repubblica di Roma e Milano, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato incostituzionale la legge n. 20/2006 nella parte in cui prevedeva che le sentenze di assoluzione pronunziate in primo grado non potessero essere appellate dai pubblici ministeri.  A riguardo è interessante notare una chiara differenza tra gli orientamenti della cultura giuridica italiana e quella statunitense.  Mentre negli USA si tiene conto del fatto che il pubblico ministero ha più poteri e più risorse del cittadino e che quindi, per ciò stesso, non esista di fatto una eguaglianza tra le parti e sia quindi necessario proteggere il cittadino giudicato innocente da ulteriori iniziative, possibilmente persecutorie, del PM nei suoi confronti.  In Italia, invece non si tiene conto della circostanza che di fatto non ci sia mai una eguaglianza tra le parti a causa dei maggiori poteri e maggiori risorse del PM e si è deciso che la c.d. legge Pecorella pregiudicava la eguaglianza tra le parti sulla base della considerazione formale che il cittadino potesse fare ricorso in appello in caso di condanna ed il PM no in caso di assoluzione.