L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLA VITTIMA NEL CODICE ROSSO – DI VALENTINA ALBERTA E AURORA MATTEUCCI
ALBERTA-MATTEUCCI – LA IRRESISTIBILE ASCESA DELLA VITTIMA NEL CODICE ROSSO.PDF
L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLA VITTIMA NEL CODICE ROSSO
di Valentina Alberta* e Aurora Matteucci**
La categoria dei reati di Codice rosso costituisce sede privilegiata per lo sviluppo della centralità della figura della vittima, che diviene titolare di nuovi diritti in ogni fase del processo penale ed oltre, a scapito delle garanzie fondamentali dell’accusato
The category of offences provided by Codice rosso is a privileged forum for developing the centrality of the victim, who becomes the holder of new rights at every stage of the criminal proceeding and beyond, to the detriment of the fundamental guarantees of the accused.
Sommario: 1. Doleo, ergo sum: vittimocrazia e violenza maschile contro le donne; 2. I diritti partecipativi della vittima del codice rosso in espansione; 2a. Libertà personale s’il vous plaît; 2b. La privatizzazione dell’azione penale; 2c. Vulnerabilità della vittima e contraddittorio sulla prova; 3. Misure di prevenzione: la legge Roccella e gli (scarsi) diritti dei sospettati; 4. Nessun oblio in fase di esecuzione.
- Doleo, ergo sum: vittimocrazia e violenza maschile contro le donne.
Pur essendo oggetto di ferventi discussioni e di dibattiti à la page[1], la critica al paradigma vittimario (e non, beninteso, alle vittime reali) non riesce ancora a librarsi dal terreno vischioso in cui solitamente sono destinate a dimorare, a questa latitudine e in questo scorcio di secolo, questioni che entrano, inevitabilmente, in rotta di collisione con il pensiero dominante.
Del resto, il credito morale riconosciuto alla vittima poggia su argini estremamente robusti: da un lato, infatti, acquisirne lo statuto corrisponde ad un potente generatore di identità o di «colmatura […] del proprio difetto di soggettività»[2] dall’altro, su di un piano più generale, la trasformazione dei cittadini in vittime potenziali di qualsiasi male, rischio o crimine, costituisce vero e proprio instrumentum regni[3] e un potente lasciapassare all’uso egemonico, onnivoro, del diritto penale a vocazione securitaria[4].
Per questo ogni contributo che tenti di smascherare e rovesciare il fortunato sodalizio tra bulimia repressiva e apologia della vittima finisce con l’essere etichettato come politically incorrect, dunque, immorale.
Ma occorre provarci e continuare a farlo a gran voce, considerata almeno la delicatezza della posta in gioco.
Non foss’altro perché a farne le spese sono i principi fondamentali della tradizione liberale reocentrica scolpiti nella Carta costituzionale[5]: dalla potestà punitiva statale – oggi soverchiata dalla progressiva privatizzazione della giustizia penale-, alla imparzialità del giudice, investito del ruolo di riparatore dell’ingiustizia subita dalla vittima mediante la condanna esemplare del carnefice, “giustizia è fatta se condanna è emessa”[6], alla presunzione di innocenza, messa in crisi dallo stesso uso del termine “vittima” nel lessico processual penalistico. È fin troppo evidente la stortura: se il luogo per eccellenza dell’accertamento di un reato è il processo (e non le stanze della Procura, né tantomeno i salotti televisivi) e se prima della sua definizione non è concettualmente, né costituzionalmente, possibile considerare l’imputato colpevole, è logicamente inconcepibile immaginare l’esistenza di una vittima, tutt’al più solo presunta.
Eppure, già la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato definisce “vittima” (art. 2) «una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato».
Non sorprende: la logica del diritto penale di lotta si candida a diventare una costante epistemologica del diritto penale europeo[7].
Per quanto il nostro legislatore abbia resistito per molto tempo alle suggestioni provenienti dalle fonti internazionali affidandosi al più prudente uso del termine persona offesa (da intendersi come la persona che si assume titolare del bene giuridico offeso dal reato)[8] l’irruzione della vittima anche nel nostro processo penale, quand’anche diversamente nominata, ha segnato modifiche considerevoli destinate ad attribuire sempre maggiori spazi di intervento e di interlocuzione che si collocano ben oltre il tradizionale ambito di pretesa risarcitorio- civilistica. Pressoché inutile, quindi, oltre che dannosa, l’aspirazione, tutta simbolica, di riconoscere alla vittima tutela massima per giunta in Costituzione.[9]
Laboratorio privilegiato, nella direzione dell’implementazione di diritti partecipativi nel processo penale alla persona offesa, il contrasto al fenomeno della violenza maschile contro le donne.
Settore, questo, nel quale l’egemonia del paradigma vittimario ha svilito ogni riflessione ponderata che ponesse al centro dell’intervento statale soluzioni di stampo preventivo, culturale, affidandosi (solo o in larga prevalenza) alla panacea del diritto penale, con conseguenze nefaste non solo sulle garanzie degli indagati e imputati ma prima ancora sul piano della tutela delle donne. Lo denuncia da tempo T. Pitch, affermando che «[…] rivolgersi alla logica e al linguaggio del penale per vedere riconosciute le proprie ragioni, o addirittura la propria soggettività politica, eleva precisamente la giustizia penale, nazionale e internazionale, a soluzione principe di tutti i problemi, a scapito della politica. Così, per esempio, interpreto l’emergere di ciò che ho chiamato “femminismo punitivo” (Pitch, 2016) e i rischi di snaturamento che corrono quegli attori collettivi, il cui obbiettivo è la conquista di maggiore libertà e la diminuzione delle disuguaglianze, se e quando si rivolgono al penale e/o ne adottano logica e linguaggio. Ciò che si rischia è non solo un panpenalismo, ma anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima, laddove il processo penale non può che produrre delusione rispetto alla propria aspettativa di risarcimento narcisistico assoluto»[10].
L’identificazione, in tal caso, della donna (solo) come vittima, oltre a svilirne la soggettività politica[11], accresce a dismisura il ricorso a reazioni ciecamente muscolari ad hoc (ogni vittima ha diritto alla sua tutela parcellizzata e differenziata) con buona pace dei principi di tipicità, genericità e astrattezza e a tutto vantaggio della costruzione di molteplici (e ormai difficilmente enumerabili) binari paralleli a corsia preferenziale ed extra ordinem. Come l’ultimo, ad opera della l. 168/2023, che ha mutuato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso gli strumenti di lotta (id est misure di prevenzione) dando vita ad «[…] un complesso ingranaggio criminalizzante che stritola il destinatario condannandolo allo status di delinquente, celebrando la liturgia della morte civile»[12].
Diritto penale di lotta e paradigma vittimario costituiscono, dunque, i presupposti concettuali dei molti interventi, alcuni emergenziali, che hanno eroso, fino a trasfigurarli, i connotati del processo penale liberale in nome della protezione delle donne dal fenomeno della violenza.
Si pensi, tanto per fare un esempio, al diritto di interlocuzione riservato in materia di libertà personale, territorio tradizionalmente impermeabile alle istanze delle persone offese, sublimate e sintetizzate dall’intervento della pubblica accusa. Un decreto emergenziale agostano del 2013 il n. 93 – con cui si è inteso dare attuazione alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul)-, ha modificato, tra l’altro, anche l’art. 299 c.p.p. introducendo l’obbligo per il difensore dell’indagato-imputato raggiunto da una misura cautelare di notificare, a pena di inammissibilità, l’istanza di revoca o di sostituzione della misura anche alla persona offesa così attivando il diritto di quest’ultima di dire la propria. Una libertà personale s’il vous plaît, subordinata al gradimento della parte privata.
La cui voce, oggi, acquista la fede privilegiata di una verità assoluta e immodificabile anche prima e fuori dal processo. Basti qui ricordare che proprio il d.l. 93/2013, intervenendo sul comma 4-ter dell’art. 76 del TU in materia di spese di giustizia (DPR 115 del 2002), ha esteso l’ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito in favore delle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili[13].
Vittima e verità divengono pre-concetti su cui si fonda l’intera gamma di interventi per il contrasto ad un fenomeno deprecabile, certo, quale quello della violenza maschile contro le donne, che, tuttavia, va detto, nonostante l’implementazione degli strumenti di accanimento processuale contro l’indagato, continua ad essere straordinariamente allarmante.
Logica, questa, che ha trovato persino l’autorevole lasciapassare della Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 1/2021): il patrocinio a spese dello stato a prescindere dai limiti di reddito costituisce, per i giudici delle leggi, strumento necessario per «favorire la vittima nel percorso di emersione della verità»[14].
Tuttavia, se la presunzione di innocenza non è un principio, ma una regola – c’è o non c’è- essa deve essere considerata insuscettibile di bilanciamento[15], come può coniugarsi logicamente l’attribuzione di una verità inscalfibile a chi viene considerata vittima prima ancora del processo, tanto da meritare la tutela legale gratuita, se non sabotando alla radice la presunzione di innocenza?
Un’ipocrisia, questa, che ne svela immediatamente un’altra: il condannato che decide di intraprendere un percorso di recupero per uomini maltrattanti, condizione imposta dalla l. 69/2019 e irrobustita oggi dalla l. 168/2023, per accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 165, comma 5, c.p.), è obbligato, ammesso che riesca a trovare un Ente autorizzato, a far fronte a proprie spese (come se il suo recupero non fosse interesse dello Stato) anche qualora avesse diritto al patrocinio gratuito in ragione di un reddito basso.
Non solo. In questa disciplina si nasconde un’ulteriore insidia, forse ancor più subdola, che schiude le porte a soluzioni paternaliste e, ancora una volta, ipocrite. Senza la protezione della Stato, la donna, considerata solo come vittima, è giudicata incapace di autodeterminazione, inabile a scegliere un difensore, a contrattare i termini del sinallagma professionale e, dunque, proprio per questo, è inibita a denunciare l’aggressore, così contribuendo ad aumentare la statistica informe della violenza sommersa. Una banalizzazione eccessiva delle ragioni culturali (e solo in alcuni casi economiche) che scoraggiano la denuncia.
È pur vero che l’Italia ha dovuto fare molti passi in avanti nella strutturazione di strumenti adeguati a favorire l’emersione e l’accertamento di soprusi, sopraffazioni e violenze che si consumano prevalentemente in ambito familiare. La condanna della Corte Europa dei diritti dell’Uomo nel tristemente noto affaire Talpis c. Italia[16], ha messo in luce tutta l’inadeguatezza della risposta protettiva del nostro Stato, in un caso di drammatico ritardo nella presa in carico delle denunce della ricorrente.
Con ciò non possiamo però esimerci dal considerare la reazione normativa che in parte ne è seguita –in questi termini il c.d. Codice Rosso (l. 19 luglio 2019, n. 69) e le sue successive interpolazioni ad opera della l. 155/2022 e 168/2023 – come ampiamente insoddisfacente. Anzitutto per il sostanziale disimpegno – ne è un esempio la clausola dell’invarianza finanziaria- verso l’implementazione di soluzioni realmente capaci di individuare strategie di contenimento dotando, ad esempio, gli enti locali di risorse finanziarie per intervenire in prevenzione[17] o mediante seri ed efficaci programmi di educazione.
D’altra parte, l’aumento delle pene, l’irrigidimento delle soluzioni processuali, il rafforzamento delle misure di prevenzione, la severità del trattamento sanzionatorio (che si vorrebbe attuare persino con strumenti di castrazione chimica)[18], oltre ad aver dato prova di scarsa capacità deterrente, può essere attuato a costo zero – sul piano economico– ma con elevatissimi costi sociali quando ad essere primario oggetto di intervento è solo ed esclusivamente “il dopo”.
Sia ben chiaro: la violenza di genere è una violazione dei diritti umani e occorrono strategie di intervento complessive, mirate e, di certo, più efficaci del ricorso al diritto penale massimo. Del resto, le donne continuano a morire nonostante la chiamata alle armi abbia raccolto notevoli consensi e contribuito ad alimentare il corto circuito di una legislazione penale a vocazione onnivora e di origine sempre più incerta: il primato del nullum crimen sine lege, oggi è sostituito dal fenomeno della c.d. tipicità postuma[19] che ha riservato alla magistratura il compito di una supplenza creatrice diretta a colmare presunti vuoti di tutela.
Emblematica la progressiva evaporazione, sul piano ermeneutico, del concetto di violenza[20] e l’introduzione – per mano pretoria- del consenso come requisito di legittimità dell’atto sessuale[21] o, del pari, la dilatazione del perimetro semantico dell’abuso di autorità[22] che ha schiuso le porte, a dispetto del tenore letterale, anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali (così ingenerando non poche difficoltà sul piano della distinzione tra violenza sessuale costrittiva mediante abuso di autorità e atti sessuali con minorenne nella versione novellata dalla l. 23.12.2021, n. 238).
Nonostante ciò, si fatica a tenere il conto delle invettive rivolte a giudici, ovviamente quando assolvono[23]. Né miglior sorte spetta ai difensori.
Gravissimo l’attacco al diritto di difesa consumato con l’intesa raggiunta il 14 settembre 2022 in sede di Conferenza unificata tra Governo, Regioni ed Enti locali relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case Rifugio secondo cui, testuali parole, «non possono operare nella Casa le avvocate e le psicologhe che, nella loro libera attività professionale, svolgono ruoli a difesa degli uomini accusati e/ o condannati per violenza e/ o maltrattamenti». Ad essere poco tollerata, evidentemente, è l’idea che una donna possa esercitare la funzione, costituzionalmente garantita, di difendere un uomo accusato di violenza nei confronti un’altra donna, tradendo in questo modo il patto di sangue del “sorella io ti credo”.
Non più tardi di questi giorni un’avvocata cagliaritana è divenuta bersaglio di minacce sui social per aver osato richiedere l’attenuazione della misura cautelare in favore del proprio assistito, accusato, neanche a dirlo, dell’omicidio della moglie[24].
Ancora. A febbraio di quest’anno, 163 persone hanno firmato una petizione su change.org. di questo tenore: «L’Università di Padova» -scrivono- «attraverso la sua rettrice e in numerose forme, ha espresso il suo cordoglio per la morte di Giulia Cecchettin, laureanda dell’ateneo e si è schierata contro la violenza sulle donne. Solo a parole, però, perché nei fatti un suo importante membro, l’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto penale, ha assunto la difesa del suo assassino (reo confesso) Filippo Turetta. Se davvero l’Università di Padova è vicina alle donne vittime di violenza e vuole sostenere questa lotta, si renda estranea alla difesa di chi ha commesso un omicidio efferato e la cui colpevolezza è indubitabile».
Occorre con urgenza un’opera di alfabetizzazione alle garanzie che sappia affrancare la pubblica opinione dalle incrostazioni del politcally correct e ricondurre il processo entro l’asse dei principi costituzionali.
Una sfida piuttosto impervia, soprattutto quando ad essere processata è la materia dei reati violenti contro le donne. Ma se difendere gli imputati accusati di violenza di genere è considerato un atto immorale, è, questa, per noi, un’immoralità necessaria.
- I diritti partecipativi della vittima del codice rosso in espansione.
La prima normazione interna che segue il solco della mutata prospettiva internazionale è la legge n. 69 del 2019. La creazione della categoria delle «super-vittime»[25], sulla base della disciplina contemplata dalle Convenzioni di Lanzarote[26] e Istanbul[27], si pone in prospettiva diversa rispetto alla Direttiva 2012/29/UE, che riguarda la figura della vittima tout court.
La legge a cui si riconduce la categorizzazione dei reati di codice rosso[28] segue l’idea di un doppio binario, inserendo – da un lato – norme generali rispetto ai diritti della persona offesa, da quelli di informazione a quelli di protezione, ma disciplinando – dall’altro – un obiettivo specifico, quello dei reati di violenza domestica e di genere. I principali settori di intervento sono l’accelerazione delle indagini preliminari ed il rafforzamento di una serie di obblighi informativi a favore della persona offesa rispetto alla tipologia di reati in questione.
Al di là del tema ampio della implementazione delle strutture endo ed extra procedimentali a supporto della vittima, i temi sui quali ci si vuole soffermare, rispetto alla incisività del nuovo statuto della persona offesa dal reato di codice rosso sono quelli dei diritti partecipativi, attraverso i quali il sistema attuale si sta avviando a trasformarsi da victim neutral a victim oriented sino al passaggio più recente e pericoloso che lo vede victim driven[29]. In questo ambito, che si caratterizza per la tendenza a sperimentare soluzioni poi in grado di estendersi sempre di più, in modo particolarmente intenso.
2a. Libertà personale s’il vous plaît.
Dunque, possiamo collocare il primo passaggio di questo processo all’indomani del primo intervento organico di materia di c.d. femminicidio.
E il primo passaggio che vede il paradigma processuale liberale – con al centro l’accusa pubblica e la presenza solo eventuale dell’offeso dal reato – vacillare è certamente rappresentato dall’erosione operata in ambito cautelare.
I diversi profili di intervento della persona offesa costituiscono un ampio strumentario che si è nel tempo evoluto[30], con una iniziale incidenza significativa degli obblighi informativi ad opera del D.L.93 del 2013, con il quale si erano categorizzati i reati “con violenza sulle persone”[31]. Certo, non poche perplessità solleva l’obbligo informativo per i reati di c.d. codice rosso, posto che il sesto comma dell’art. 6 direttiva n. 29 del 2012 subordina le informazioni sulle vicende cautelari (scarcerazione ed evasione) alla previa domanda dell’interessato. Non si è infatti valutato come la volontà della vittima dovrebbe vincolare l’autorità procedente, tanto da configurare un vero e proprio diritto all’oblio della vittima nel contesto sovranazionale[32]. D’altronde una seria riflessione sull’abusato termine “vittimizzazione secondaria” non può non ricomprendere anche questo diritto, che non può essere forzato in nome di una preminenza della figura della vittima ad ogni costo.
Vediamo quindi in che modo si è declinato l’obbligo di subire in ogni modo la notizia della presentazione di una istanza in materia cautelare ovvero la decisione di scarcerazione in fase di esecuzione.
Se lo scopo della informazione alla persona offesa della presentazione di una istanza di modifica dello status cautelare può essere quello di acquisire elementi utili alla valutazione del giudice, che siano sfuggiti alla pubblica autorità che procede alle indagini, ci si può domandare se tale scopo dovesse essere per forza raggiungo mediante la notifica dell’istanza. Si è creata, in sostanza, una discovery anticipata a favore della sola accusa privata rispetto ad elementi di novità, magari derivanti da indagini difensive, favorevoli alla persona sottoposta alle indagini. Forse, per una maggiore attenzione al rispetto dei principi di formazione della prova nel dibattimento e di presunzione di non colpevolezza, che sostanzialmente impongono la discovery solo alla chiusura delle indagini preliminari, si sarebbe potuta valutare la possibilità di notiziare semplicemente la persona offesa, senza dovere giocoforza ostendere gli elementi a discarico.
Ma il messaggio è senza alcun dubbio che la persona offesa può essere arbitro della libertà personale, con un potere di intervento che comprenderà anche questo vantaggio informativo sulle ragioni dedotte dall’indagato. E addirittura, oltre alla facoltà di presentare osservazioni e memorie, si erano ipotizzati poteri diretti di impugnazione di ordinanze in materia di sostituzione e revoca di misure cautelari, esclusi recisamente dalla Cassazione[33]. La logica del sistema, infatti, non può intaccare l’iniziativa esclusiva della parte pubblica in ordine all’applicazione delle misure cautelari[34]. Si vedrà oltre come la persona offesa possa divenire elemento di turbativa addirittura della fase di esecuzione, per sua stessa natura reocentrica.
2b. La privatizzazione dell’azione penale.
Le tradizionali facoltà di intervento della persona offesa in fase di archiviazione, già arricchite dall’avviso obbligatorio (senza, dunque, richiesta della medesima persona offesa) inserito nel co. 3 bis dell’art. 408 c.p.p. per i delitti commessi con violenza alla persona e per il reato di cui all’art. 624 bis c.p., non sono più sufficienti per la nuova visione della vittima al centro del sistema, soprattutto quando riguardi certe tipologie di reati.
In termini indiscutibilmente propulsivi rispetto all’esercizio dell’azione penale, si è esteso l’obbligo di notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari anche alla persona offesa (o al suo difensore se nominato) dei delitti di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p. Quasi che la stessa decisione di procedere all’esercizio dell’azione penale debba passare sotto il vaglio della vittima anche in termini rafforzativi della volontà del pubblico ministero, e – forse – anche rispetto alla neutralizzazione di iniziative difensive. Se in apparenza infatti le iniziative probatorie della fase sono riservate all’indagato e al suo difensore, non si può escludere che anche la persona offesa, formulando istanza al pubblico ministero procedente, possa accedere al fascicolo e produrre memorie. Anzi, in concreto l’accesso è la regola, perdendosi altrimenti il senso del solo avviso.
Certo, preoccupa una certa tendenza a pretendere anche di più, in termini generali, rispetto alla ingerenza della persona offesa nella fase del giudizio[35]. Al di là del ruolo di parte civile, infatti, va sempre tenuto presente che la persona offesa non può, a sistema vigente, avanzare pretese di alcun tipo nei confronti dell’imputato[36], anche se vi è chi ha definito tale limite una “grave emarginazione” di un soggetto assoggettato ad una indubbia tutela rafforzata anche rispetto a persone offese di reati diversi[37]; il che è evidente anche attraverso quel privilegiato regime relativo al patrocinio a spese dello Stato, garanzia, secondo la corte costituzionale, finalizzata all’emersione della verità proprio per questa particolare tipologia di reati[38].
2c. Vulnerabilità della vittima e contraddittorio sulla prova.
Il processo è, per l’imputato di reati di violenza di genere, una corsa a ostacoli, tanto più insormontabili, quanto più vulnerabile sia considerata la vittima.
In conformità alla direttiva Europea 2012/29/UE, il legislatore nazionale, con l’art. 90-quater c.p.p.[39], si affida a tre criteri indicativi per l’accertamento della condizione di particolare vulnerabilità.
Il primo si fonda sulle caratteristiche personali del dichiarante (età, stato d’infermità o di deficienza psichica, ovvero se è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato); il secondo riguarda il tipo di reato, le modalità e le circostanze del fatto; il terzo, infine, si muove su una prospettiva di indagine che tenga conto delle modalità dell’azione (se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione). La norma non offre all’interprete punti di ancoraggio univoci: anzitutto non è chiaro se questi criteri debbano coesistere contemporaneamente o se, al contrario, sia sufficiente l’integrazione di uno solo di essi per accreditare lo status di vulnerabilità. Né vengono fornite indicazione precise sulle modalità dell’accertamento e della verifica della sussistenza dei parametri sopra indicati. Ad esempio, non è prevista la necessaria assistenza di un “esperto” che, invece, potrà essere chiamato ad affiancare l’attività del giudice (o del pm in fase di indagine) solo ad libitum.
La latenza di canoni rigorosi apre la stura a soluzioni prasseologiche variegate, ad una disciplina rapsodica, non sorvegliata da garanzie se non quella, ammessa anche dalla Corte di cassazione, «che esige si dia conto delle ragioni in base alle quali il giudice abbia ritenuto integrata la condizione o, se accertata da altri soggetti, l’abbia motivatamente riconosciuta»[40].
Val la pena considerare che la Direttiva Europea 2012/29/UE, alla cui attuazione ha provveduto lo Stato italiano con il d.lgs. n. 112/2015 (che ha introdotto, per l’appunto, l’art. 90 quater c.p.p.), all’art. 22 subordina l’adozione degli strumenti di protezione della persona offesa ad una valutazione individuale che non può fondarsi unicamente sul titolo di reato ma deve tenere conto anche delle caratteristiche personali che, de iure condendo, andrebbero verificate in base ad un accertamento serio, rigoroso e, possibilmente, audita altera parte.
L’art. 16 della recentissima Direttiva del Parlamento e del Consiglio d’Europa del 14.5.2024, n. 1385 sul contrasto al fenomeno della violenza contro le donne e della violenza domestica, che dovrà essere recepita dagli Stati Membri entro il 14.6.2027[41] indica, in aggiunta agli obblighi di valutazione individuale contenuti nell’art. 22 della direttiva 2022/29 UE, una serie di parametri, certo più rigorosi di quelli offerti dall’art. 90 quater c.p.p., basati, ad esempio, sul rischio di reiterazione, sull’esistenza di lesioni fisiche o psicologiche, sull’uso di armi, sulla verifica della condizione di convivenza con l’autore del reato, sull’abuso di sostanze stupefacenti da parte di quest’ultimo, sulla sussistenza di condotte di maltrattamento ai danni di minori, o di problemi di salute mentale o sulla commissione anche di condotte di stalking.
In nessun caso, tuttavia, la valutazione individuale è rimessa allo scrutinio equanime di un contraddittorio tecnico con il difensore dell’accusato. Anzi. L’art. 16, comma 6, prevede che, se del caso, la valutazione individuale sia effettuata in collaborazione con i pertinenti servizi di assistenza, quali i centri di protezione delle vittime, i servizi specializzati, i servizi sociali, i professionisti della sanità, le case rifugio per donne, i servizi di assistenza specialistica e altri pertinenti portatori di interessi.
Tanto per intendersi, il difensore dell’indagato svolge, in questo peculiare e delicato accertamento sul destino della prova orale, il ruolo del convitato di pietra. Il suo contributo alla valutazione sulla vulnerabilità della persona offesa, preliminare all’escussione del dichiarante, potrà invero limitarsi, ad esempio nel caso di incidente probatorio, entro gli angusti spazi delle deduzioni (da depositare entro due giorni dalla notifica della richiesta) previsti dall’art. 396 c.p.p. essendo, peraltro, persino sottratta al sindacato di legittimità la decisione del giudice[42].
Le conseguenze sul diritto di difesa non sono innocue.
Acquisire il titolo di testimone vulnerabile, infatti, permette al dichiarante di godere, per espressa previsione normativa (art. 398 c.p.p. in materia di incidente probatorio e art. 498 c.p.p. in materia di esame testimoniale dibattimentale), di modelli di audizione in deroga a quelli ordinari[43]. Una soluzione, questa, che trova scudo nell’esigenza di proteggere la persona offesa ritenuta particolarmente fragile dal danno da c.d. vittimizzazione secondaria e che giustifica l’alterazione del metodo euristico per eccellenza, quello del contraddittorio per la formazione della prova nella versione dell’esame diretto e del controesame, autorizzando il ricorso ad un suo simulacro che fatalmente inibisce la verifica dell’attendibilità del loquens.
Il difensore potrà porgere domande alla persona offesa solo attraverso il filtro del giudice che ne saggerà preventivamente l’ammissibilità. Quel metodo di conoscenza, che nel dibattimento si attua attraverso il ritmo delle domande direttamente poste dalle parti, con rare, rarissime (almeno in teoria) incursioni del giudice e che si materializza «[…] in quel gioco di interventi alternati o contestuali, in quell’andirivieni di domande e di repliche, di asserzioni e negazioni che costellano l’iter del processo guidandolo verso la fine» […] e da cui scaturiscono «scintille di verità»[44] viene annullato dall’interposizione preventiva dell’organo giudicante.
Non solo.
Non può essere sottaciuto che l’incidente probatorio, di per sé – dunque a prescindere dalle modalità di formazione della prova dichiarativa- comporta inevitabili contrazioni dei principi di oralità e immediatezza. Il giudice che presiede la prova, anzitutto, non sarà chiamato a decidere della responsabilità dell’imputato e potrà articolare le proprie domande sulla base degli atti di indagine. Un sapere, il suo, fondato su materiale cognitivo unilateralmente raccolto e, per lo più, destinato a veicolare surrettiziamente, per il tramite di domande che dovessero ripercorrere interi stralci delle indagini preliminari, conoscenze in teoria precluse al giudice del dibattimento. La piattaforma indiziaria sulla quale si misurano le parti – anche se nell’incidente probatorio disposto per l’audizione del dichiarante vulnerabile è prevista un’ostensione integrale degli atti (cfr artt. 393, comma 2 bis c.p.p. e 398, comma 3 bis c.p.p.) -è ancora magmatica, imperfetta, spesso incompleta. Il che potrebbe, verosimilmente, rendere necessaria una seconda audizione del dichiarante possibile, tuttavia, solo se – art. 190 bis c.p.p.[45]– l’esame riguarderà fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze. Si tratta di una presunzione (relativa) di superfluità della prova preformata.
Chi frequenta le aule giudiziarie conosce bene le maglie strette di questa disposizione[46] passate indenni ad ogni tentativo di sottoporne a scrutinio la tenuta costituzionale (a confronto con l’art. 24 Cost e 111 Cost) o convenzionale (a confronto con l’art. 6 Cedu)[47].
Non è un caso che l’art. 190 bis c.p.p. rappresenti norma cardine del doppio binario. L’assimilazione del fenomeno della violenza maschile contro le donne o, comunque, della violenza nelle relazioni intrafamiliari e sessuali, alla criminalitàà organizzata (oggi anche mediante l’estensione della disciplina delle misure di prevenzione) evocativa dell’inarrestabile tendenza alla parcellizzazione della risposta penale sulla base di doppi, tripli, quadrupli binari, ha determinato l’esportazione di moduli procedimentali extra ordinem, la torsione delle garanzie del processo e la valorizzazione delle occasioni di emarginazione dell’oralità e dell’immediatezza con sistematiche erosioni, ormai neppure troppo silenziose, del contradditorio.
Alcune, sia pur tenui, rassicurazioni sembrano provenire dai repertori di Strasburgo. La Corte Edu ha ritenuto che la dichiarazione resa dal teste, nella fase delle indagini preliminari, per costituire prova compatibile con il diritto al contraddittorio, deve ordinariamente essere seguita da un’occasione in cui l’imputato possa contestarla e interrogare il suo autore e che, se manca tale possibilità, tale dichiarazione non può costituire fonte unica o preponderante della prova della responsabilità, perché ne deriverebbe un processo non equo[48] secondo la regola della c.d. sole or decisive rule.
Verrebbe quindi da pensare che nei casi, non infrequenti, nei quali le prove a carico sono costituite in modo pressoché esclusivo dalla deposizione testimoniale della persona offesa vulnerabile (tipico il caso della violenza sessuale) il diritto al contraddittorio debba essere assicurato con maggiore effettività non potendo essere derubricata ogni istanza di rinnovazione sic et simpliciter come pleonastica.
Tanto più quando la rinnovazione della prova sia richiesta nel giudizio di appello proposto su iniziativa del pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione onde evitare il rischio di overturning sfavorevoli basati su una riedizione esclusivamente cartolare del materiale probatorio.
In assenza di una presa di posizione definitivamente coraggiosa che valga a ribaltare l’assunto secondo il quale «per essere condannati in Italia può bastare una sola sentenza resa in appello dopo un’assoluzione di primo grado, per essere assolti ce ne vogliono due, se si ha la sventura di esserlo già in primo grado»[49] , lo schermo protettivo rappresentato dall’art. 603 c.p.p., anche nella versione rinnovata dalla Riforma Cartabia, non è saldamente protettivo. Anche in tal caso, infatti, la valutazione sulla necessità della rinnovazione della testimonianza potrà essere subordinata alle stringenti condizioni imposte dall’art. 190 bis c.p.p. ed eventualmente superata «tenendo conto delle altre prove a carico e dei fattori compensativi in concreto ravvisabili circa l’affidabilità delle dichiarazioni e l’equità del procedimento – desumibili anche dalla constatazione che il diritto al controesame già è stato assicurato in sede di incidente probatorio, dalla possibilità per il giudice di appello di visionare l’esame videoregistrato, dall’eventuale inesistenza di circostanze o fatti diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni segnalate dalla difesa come meritevoli di approfondimento – dette dichiarazioni possano ritenersi non decisive ai fini del giudizio di condanna alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU nella pronuncia Sez. IV, 24 maggio 2016, Przydziac. Polonia, e nelle altre decisioni in essa richiamate»[50].
- Misure di prevenzione: la legge Roccella e gli (scarsi) diritti dei sospettati.
Su di un piano diverso, con la recente legge 24 novembre 2023, n. 168, il legislatore è intervenuto nello specifico ambito delle misure di prevenzione. Il regno, per sua stessa natura, della cultura del sospetto ha così assunto la veste di luogo privilegiato di lotta contro il fenomeno della violenza domestica o di genere.
È stato allargato il novero dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione di cui all’art. 4 d.lgs. 159/11, con l’ampliamento dellle fattispecie spia della pericolosità, prevedendo l’applicazione pressoché automatica nella sorveglianza speciale, delle misure di controllo di cui all’art. 275 bis c.p.p. Infatti, il mancato consenso del proposto vedrà automaticamente applicarsi la misura nella durata minima tre anni (quattro nel caso di manomissione dell’apparecchio), con presentazione all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni e negli orari indicati, con cadenza almeno bisettimanale, con applicazione – salva diversa valutazione – del divieto o l’obbligo di soggiorno.
Inoltre, è stato previsto che il Tribunale possa imporre il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione, e l’obbligo di mantenere una determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi e da tali persone. Infine, è stata aggiunta la previsione dell’adozione di provvedimenti d’urgenza per la medesima categoria di soggetti pericolosi, fino a quando non sia divenuta esecutiva la misura di prevenzione della sorveglianza speciale.
A completamento dell’intervento latu sensu “preventivo”, la possibilità di adottare da parte del Prefetto misure di sorveglianza dinamica, l’ampliamento degli effetti dell’ammonimento del questore, e – corollario finale immancabile – la nuova norma penale rispetto alle violazioni delle prescrizioni della misura di prevenzione applicate in via d’urgenza sopra descritte.
Peraltro, lo strumento della prevenzione viene espressamente costruito in modo coordinato con la cautela, finendo con il sovrapporcisi, senza che gli standard probatori e di controllo giurisdizionale siano gli stessi. Gli obbighi informativi di cui allì’art. 299 co. 2 ter e 2 quarter c.p.p. sono proprio finalizzati a sopperire alla necessità di controllo del sospettato autore di reato per il quale i presupposti delle misure cautelari siano venuti meno.
Il dubbio sulla legittimità di tale modo di procedere rispetto alle garanzie costituzionali dell’accusato è fondato[51]. E la commistione di fini tra I diversi procedimenti è evidente, con tutto quello che consegue in termini di vuoti di tutela per chi si trovi a far fronte in contemporanea – come ormai spesso accade – alla vicenda penale e a quella di prevenzione, nella quale ovviamente è sufficiente il riversamento degli atti dell’indagine penale per poter legittimare l’adozione di misure forse ancora più gravose di quelle cautelari.
- Nessun oblio in fase di esecuzione.
Neppure la fase esecutiva è rimasta immune dall’invasività dei poteri della vittima. Proprio quell’ambito che più dovrebbe essere tutelato rispetto ad ipotesi di regressione culturale alla “legge del taglione” ha visto le prime crepe già nel momento in cui i diritti di informazione (prodromici giocoforza ad una interlocuzione, giudiziaria o mediatica) sono stati estesi a tutti i casi di scarcerazione del condannato, nel caso dei reati di codice rosso (fatta eccezione per quello di cui all’art. 612 ter c.p.), con l’inserimento ad opera della L. 69 del 2019 del co. 1 bis nell’art. 659 c.p.p., oggi assorbito dal nuovo testo dell’art. 90 quater c.p.p.[52], dell’obbligo di dare avviso alla persona offesa (che ne abbia fatto richiesta per i reati con violenza alla persona e sempre per i reati c.d. di codice rosso) della scarcerazione del condannato.
Ora, al di là dell’automatismo della comunicazione, che viola il diritto all’oblio tanto della vittima quanto del condannato[53], il punto critico della previsione è legato al fatto che siffatto avviso non può essere banalmente inteso come a tutela della sicurezza della persona offesa, posto che non può che escludersi che un condannato pericoloso venga scarcerato. E’ evidente che l’avviso consente l’attivazione della vittima al fine di impedire o di influenzare la valutazione della magistratura di sorveglianza, che rischia di essere condizionata da interventi orientati a rappresentare il dissenso rispetto alla scarcerazione, soprattutto quando questa non derivi dal c.d. fine pena, ma piuttosto dalla concessione di un beneficio. Una inevitabile sensazione di un potere di veto a posteriori, che in alcuni casi noti alle cronache si è esplicato non solo nell’ambito procedimentale ma certamente a livello mediatico[54]. Che la vittima non possa invece avere voce in capitolo sulla sanzione, avendo solo prerogative di carattere processuale, è stato anche stabilito senza possibilità di equivoco dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[55].
Ovviamente, non è questo il contesto per una riflessione sulla giustizia riparativa in fase di esecuzione, che presenta aspetti delicati soprattutto per il ruolo della vittima in questo contesto[56]; non si può non avere il giusto grado di diffidenza, vista la inevitabile tensione tra il principio della rieducazione e il paradigma della restorative justice, che rischia di mettere nelle mani della vittima il destino dell’accesso alle misure alternative del reo[57].
Tuttavia, sia consentito di osservare come lo speciale statuto della vittima dei reati di codice rosso si presti anche in questo ambito ad approcci da “doppio binario” non giustificabili. Che la giustizia riparativa non sia consentita per reati di questo tipo è assunto smentito dalle fonti normative sovranazionali, che solo raccomandano particolari modalità di svolgimento[58]. Ancora una volta il pregiudizio incide.
Infine, la riflessione include quel dato esperienziale che ogni avvocato che si occupi di sorveglianza porta con sé: quello per cui nella valutazione di meritevolezza di benefici penitenziari, anche un banale permesso premio, vede spesso un’attenzione spasmodica rispetto alla pericolosità sociale di chi non abbia messo in campo una piena ammissione degli addebiti, in barba alla giurisprudenza della Cassazione che invece – correttamente – esige esclusivamente la disponibilità al confronto con il personale dell’osservazione scientifica della personalità rispetto ai fatti di cui alle sentenze di condanna. E con una certa frequenza si vedono purtroppo decisioni della magistratura di sorveglianza che addirittura si discostano da valutazioni positive nelle relazioni di sintesi, con l’argomento secondo il quale solo una piena ammissione consente di ritenere idoneo al beneficio il condannato. Tendenza illegittima e da tenere attentamente monitorata.
In conclusione, va in questa fase tutelato il principio della natura pubblicistica dell’esecuzione penale, i cui corollari sono naturalmente il ripudio del principio della vendetta privata con tutte le nefaste conseguenze che il c.d. right to punishment[59] potrebbe avere.
*Avvocata del Foro di Milano
**Avvocata del Foro di Livorno
[1] Non esaustivamente si richiamano D. Giglioli, Critica della Vittima, Nottetempo, 2014, G. De Luna, La Repubblica del dolore, Feltrinelli, 2015, T. Pitch, Il malinteso della Vittima, Ed. Gruppo Abele, 2022; sempre T. Pitch, Il protagonismo della vittima, in DisCrimen, 20.2.2019, A. Pugiotto, L’odierno protagonismo della vittima in dialogo con Tamar Pitch, in DisCrimen, 20.2.2019, F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Il Mulino, 2019, C. Bernasconi, Dalla vittomologia al vittimocentrismo: cosa resta della tradizione reocentrica? in DisCrimen, 12.3.2022, L. Cornacchia Vittime e giustizia criminale, in Riv.it dir e proc. pen., 2013, pp.1760 e ss, G. Minicucci, Il diritto penale della vittima. Ricadute sistematiche e interpretative, in DisCrimen, 26.10.2020, M. Donini, Paradigma vittimario e idea riparativa. Criteri di orientamento in una potenziale contraddizione di sistema, in questa rivista, 16.7.2024, E. Amati, “Crudeli illusioni” e populismo vittimario, in questa rivista, 21.7.2024, L. Luparia Donati, L’ascesa della vittima, il crepuscolo dell’imputato. Il pendolo alterato del processo penale, in Questa rivista, 22.7.2024. Alla critica del paradigma vittimario è dedicato il n.14 di Pqm, inserto de Il Riformista, 9.3.2024 e, in relazione al Codice Rosso, il n. 17 del 30.3.2024.
[2] D. Giglioli, Critica della Vittima, cit., p. 49.
[3] Ancora, D. Giglioli, Critica della Vittima, cit., p. 12.
[4] Sul tema, T. Pitch, Il protagonismo della vittima, in DisCrimen, cit. La scena pubblica è, ormai, dominata dall’idolatria della memoria (che ha preso il posto dell’indagine storica). Fenomeno, questo, ben descritto da G. De Luna, La Repubblica del dolore, cit. Il rapporto tra paradigma vittimario e bisogno di punire è indagato anche da F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., pp. 30 e ss.il quale mette in luce l’idioscincrasia per la frammentarietà del diritto penale, ormai “totale”.
[5] « Si è sempre sostenuto che lo ius terribile fosse geneticamente reo-centrico, funzionalmente orientato, cioè, a fondare un sistema di guarentigie a favore del reo e a governare le eventuali aspirazioni vendicative della vittima, muovendo dall’assunto che il soggetto debole, nella macchina repressiva, resta sempre il soggetto nei confronti del quale si procede», così C. Bernasconi, Dalla vittimologia al vittimocentrismo, cit., p 2.
[6] Parole di critica verso ogni forma di empatia del giudice nei confronti della vittima sono state espresse da G. Fiandaca, Quale “rieducazione” per gli autori di violenza di genere?, in Questa rivista 21.2.2020, 2, a proposito dell’intervento, richiamato nel testo, di F. Roia Crimini contro le donne, Milano, 2017, p. 26 ss, il quale da magistrato ritiene che sia necessaria la costruzione di legame di empatia «con la vittima, che deve costruire soprattutto il magistrato al momento della raccolta della prova».
[7] In questi termini M. Donini, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi a esorcizzare, in Studi sulla questione criminale n. 2/2007, p. 56, secondo cui «[…] il diritto penale di lotta rappresenta un attacco frontale che le istituzioni europee hanno scagliato contro il garantismo» . In questi termini anche A.M. Maugeri, Diritto penale del nemico e reati sessualmente connotati, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 908 e ss. Sul punto anche L. Luparia Donati, L’ascesa della vittima, il crepuscolo dell’imputato, cit, p. 4., il quale ricorda come sull’onda del processo Eichmann e di quelli innanzi alle Corti penali internazionali, l’Europa ha iniziato a premere i Paesi membri verso un mutamento di paradigma che mettesse al centro la vittima dando il via ad una lunga stagione di riforme che «probabilmente sarà ricordata come l’età dell’oro della vittima».
[8] In realtà con la riforma Cartabia, d.lgs 150/2022, anche il termine vittima, sia pure limitato nel contesto della disciplina della giustizia riparativa, ha fatto capolino nel diritto positivo. Tuttavia, proprio le numerose connessioni tra giustizia riparativa e processo penale rendono non neutra la scelta dell’uso del termine vittima, peraltro identificata «nella persona fisica che ha subito direttamente dal reato qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona» (art. 42, comma 1, lett. b)). Del resto, se per l’autore dell’offesa, indagato, imputato, condannato etc si è ritenuto opportuno l’uso più rassicurante di una perifrasi «persona indicata come autore dell’offesa» (cfr art. 42, comma1, lett. c) d.ls 150/2022, sarebbe stato, fuori d’ipocrisia, preferibile usare un termine meno impegnativo anche per la vittima (persona indicata come vittima, per esempio).
[9] È all’esame del Senato una proposta di legge, su cui convergono posizioni politiche opposte, che intende modificare l’art. 111 Cost, dedicato al giusto processo, inserendovi il principio in base al quale «la legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato». Non si tratta di un inserto innocuo: esso tende ad alterare i tradizionali rapporti di forza all’interno del processo – cittadino / imputato, da un lato, Stato, dall’altro- con pesanti ricadute sulla presunzione di innocenza. Repetita iuvant: se prima della condanna, dunque nel processo, l’imputato è presunto innocente, la vittima non può che essere solo presunta. Il testo della proposta è consultabile su https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/57526.pdf.
Una riforma di «portata eversiva che si annida in una proposta di modifica costituzionale alimentata dalla sete inestinguibile del sentimento di indignazione che traina, a suon di like e di ascolti, una informazione ( ed una politica) ormai fuori controllo», così G.D. Caiazza, Se il processo diventa vendetta, su Il Riformista – inserto Pqm– 9.3.2024.Di riforma inutile parla V. Manes, Giustizia non è solo condanna: la vittima non è al centro di tutto, Il Dubbio 15 febbraio 2024: «bisognerebbe riflettere molto prima di inserire una disposizione come questa, che peraltro appare del tutto inutile, essendo implicita e consolidata nella potestà punitiva affidata allo Stato. Il processo che gli illuministi volevano, per così dire, victim neutral, e che ora è già victim oriented, diventerebbe sempre più victim driven, trainato dalla vittima e dalla sua carica emotigena […]»
[10] T. Pitch, Il protagonismo della vittima, cit., p. 2 e sempre T. Pitch, Il malinteso della vittima, cit., p. 53.
[11] Lo esprime molto bene, in termini più generali, F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., p. 31: «se le ingiunzioni della modernità erano “impégnati per emanciparti, esci dallo stato di minorità, cammina eretto”, oggi vale il motto contrario: minorità passività, impotenza sono un bene, sono un valore sociale, e tanto peggio per chi agisce».
[12] Così A.M. Maugeri, Diritto penale del nemico e reati sessualmente connotati, cit., 921. Per una lettura critica anche P. Savio, Codice rosso e misure di prevenzione: importante distinguere conflitto e violenza, su Il riformista, inserto Pqm, 30.3. 2024.
[13] Per vero, già con il d.l. 11/2009 recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori fu introdotto l’accesso al patrocinio a spese dello stato a prescindere dai limiti di reddito per i reati di cui agli artt 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale.
[14] Per una critica sia consentito il rinvio a A. Matteucci, C’era una volta l’art. 27, comma 2, della Costituzione, in disCrimen, 18.1.2021.
[15] G. Minicucci, Il diritto penale della vittima. Ricadute sistematiche e interpretative, in disCrimen, 27.10.2020, p, 4.
[16] C.E.D.U., Sezione Prima, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia.
[17] Un esempio piuttosto interessante è il progetto milanese che prende il nome di Milan gender Atlas, a cura di F. Andreola e A. Muzzonigro, architette e urbaniste: un lavoro che si propone di decostruire lo spazio urbano contemporaneo milanese attraverso lenti di osservazione specifiche che consentano di leggere le risposte offerte alle esigenze delle donne e delle minoranze di genere.
[18] «Nessuna tolleranza per pedofili e stupratori: la galera non basta, ci vuole anche una cura. Chiamatela castrazione chimica o blocco androgenico, la sostanza è che chiederemo l’immediata discussione alla Camera della nostra proposta di legge, ferma da troppo tempo, per intervenire su questi soggetti. Chiunque essi siano, bianchi o neri, giovani o anziani, vanno puniti e curati», così si esprimeva un noto esponente politico sul quotidiano la Repubblica del 29 aprile 2019.
Fuori da ogni boutade, il testo del ddl 839 è ora approdato all’esame del Senato ed è consultabile su https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/57400.pdf. Per una panoramica sulle criticità in materia di esecuzione della pena nei reati da codice rosso, sia consentito il rinvio a V. Alberta, Sex offenders ed esecuzione della pena, in Il Riformista-inserto Pqm, 30.3.2024.
[19] V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, 49.
[20] Sul ricorso alla c.d. violenza impropria quale grimaldello rinvenibile nei repertori giurisprudenziali in materia di violenza privata usato per fagocitare nel perimetro dell’art. 610 c.p. ogni comportamento latamente antisociale o deviante, cfr G. Minicucci, Il diritto penale della vittima, cit., 12-18.
[21] Si può discutere, ma deve farlo il Parlamento, dell’inserimento del consenso – o della sua assenza- quale connotato della violenza sessuale attesa la delicatezza del tema e le implicazioni che comporta sul piano culturale, filosofico, processuale (sul punto si rinvia a M. Garcia, Di cosa parliamo quando parliamo di consenso- sesso e rapporti di potere, Einaudi, 2022). Ma di certo non è lacuna compensabile per via giudiziaria.
[22] S.U., 16 luglio 2020 (dep. 1 ottobre 2020), n. 27326, in Cass.pen., 2021, 2, 462.
[23] Due esempi, su molti. Il 9 dicembre 2020 la Corte d’Assise di Brescia ha prosciolto un uxoricida reo confesso per vizio totale di mente. Le motivazioni di quella decisione vennero rese note a distanza di pochi giorni, il 21 dicembre del 2020, nonostante la Corte d’Assise si fosse presa 90 giorni per il deposito. Una corsa contro il tempo che fu, allora, motivata dallo straordinario clamore mediatico che suscitò la decisione. Ne parla diffusamente S. Amato, Pazzo di gelosia: non imputabile. La motivazione della sentenza di Brescia: più Shakespeare che patriarcato?, http://www.sossanita.org/archives/12577.
Ancora: sempre a Brescia: il 17 ottobre 2023 il Tribunale assolve un imputato bengalese per il delitto di maltrattamenti in famiglia. In quel caso le invettive si sono concentrate dapprima sul Pm (reo di aver chiesto un’assoluzione in base a molteplici argomenti concentrati per lo più sull’inattendibilità della denunciante e, solo in parte, sulle origini culturali dell’uomo) e poi sul Collegio. I media hanno così sintetizzato “assolto perché lei era adultera”. A nulla vale invitare alla lettura della motivazione, ben più articolata e complessa. Sentenziare è, ormai, divertissement dei media. Sul punto, S. Amato, La condanna mediatica di un imputato assolto: il rosso e il nero, su Il Riformista – inserto Pqm, 30.3.2024. Sulla identificazione tra giustizia e condanna si rimanda anche a A. Marandola, Codice Rosso e funzionalità del processo, in Il Riformista – inserto Pqm, 30.3.2024.
[24] Stigmatizza la reazione della pubblica opinione anche l’Osservatorio avvocati minacciati UCPI con un documento di solidarietà del 22.7.2024
[25] S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in S. Allegrezza, H. Belluta, M. Gialuz, L. Luparia, Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa ed Italia, Torino, 2012, p. 13
[26] Convenzione per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, adottata dal Comitato dei Ministri d’Europa il 25 ottobre 2007 a Lanzarote ed entrata in vigore il 1° luglio 2010
[27] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014
[28] Si tratta dei delitti previsti dagli articoli 572,609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies, 612-bis e 612 ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583 quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5, 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice; diversa è la categoria dei reati che comportano la c.d. “vulnerabilità presunta” di cui agli artt. 351, comma 1 ter e 362, comma 1 bis, c.p.p., cui è riservato uno statuto speciale per la raccolta delle dichiarazioni da eseguire con la presenza di un esperto.
[29] V. Manes, Giustizia non è solo condanna: la vittima non è al centro di tutto, cit.
[30] F. Zacché, Il sistema cautelare a protezione della vittima, in Arch. Pen. 3/2016, 10 e ss
[31] Sugli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi in ordine alla nozione di “delitti commessi con violenza alla persona”, v. diffusamente, F. Paglionico, La tutela delle vittime da codice rosso tra celerità procedimentale e obblighi informativi, in Sistema Penale 5/20, p. 148 ss.
[32] Ancora F. Paglionico, cit., p. 167.
[33] Le Sezioni Unite hanno escluso l’esistenza di siffatto potere, esercitabile solo come impulso al pubblico ministero ex art. 572 c.p.p. (Cass. Sez. Un., 14 luglio 2022, n. 36754).
[34] F. Paglionico, cit., p. 167.
[35] B. Monzillo, La sopravvivenza nel processo della vittima dopo l’accordo sulla pena: un interesse di fatto? in Sistema penale 10/23, p. 100 e 101, che considera come la possibilità della costituzione di parte civile anche dopo l’accordo sull’applicazione della pena, in effetti affermata da Cass. Sez. Unite, 30 novembre 2023, n. 16403, approfondirebbe il solco che corre tra la disciplina dell’azione civile esercitata per l’udienza preliminare (sia pure dopo l’accordo di patteggiamento) e il regime previsto per la medesima iniziativa realizzata, nell’ambito delle indagini preliminari. La base del ragionamento sarebbe costituita dall’affermazione secondo cui “irradiato dallo spiraglio di luce europea, l’interesse della persona offesa a partecipare al procedimento pare assumere, in definitiva, la consistenza di un vero e proprio diritto”
[36] R. Orlandi, I diritti della vittima in particolari definizioni del rito, in M. Bargis – H. Belluta (a cura di) Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, Torino, 2017, p. 170, chiarisce, efficacemente, che “per il nostro ordinamento non esiste un interesse della persona offesa a ottenere la condanna penale dell’imputato … chiedendo al giudice l’applicazione di una pena l’offeso fa valere una pretesa dello Stato; appaga un proprio desiderio, ma non fa valere un proprio diritto” … “soltanto all’offeso che sia riuscito a costituirsi parte civile è oggi riservata la facoltà di battersi per convincere il giudice a non concedere il patteggiamento o a evitare una declaratoria di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p.”.
[37] D. Chinnici, La legislazione in materia di reati di “violenza domestica” e sessuale. Un itinerario lento e, ancora oggi, lacunoso, in Archivio penale 2/22, p. 13, secondo cui la vittima si troverebbe in una situazione di “grave emarginazione quanto a partecipazione attiva, non essendogli riconosciuto il ruolo di parte processuale, cosa che si sarebbe potuta assolutamente riconoscergli, come del resto è stato fatto per i reati perseguibili a querela, su ricorso immediato della persona offesa – espressione di microconflittualità – di competenza del giudice di pace”.
[38] Corte cost. 1/21, cit, secondo cui “la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità”
[39] Introdotta dal D.lgs. 15 dicembre 2015, n. 112, di attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Secondo la citata disposizione, «la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio raziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo anche internazionale o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato».
[40] In questi termini Cass. pen. sez. III, 5.4.2023, n. 29821, in CED Cass. 2023.
[41] Quattro le linee di intervento della Direttiva: la prima introduce definizioni comuni di alcuni reati (tra cui: mutilazioni genitali femminili, condivisione non consensuale di materiale intimo o manipolato, matrimoni forzati, molestie on line, istigazione alla violenza o all’odio on line); la seconda riguarda la predisposizione di strumenti volti a facilitare il ricorso alla giustizia anche mediante canali on line ed ad assicurare protezione alla vittima prima, durante e dopo il processo, l’attenzione dedicata alla valutazione individuale delle esigenze di protezione e assistenza delle vittime mediante la predisposizione di appositi servizi di supporto; la terza riguarda la predisposizione di misure di prevenzione mediante campagne o programmi educativi; la quarta stabilisce un coordinamento e una cooperazione effettivi a livello nazione e dell’Unione europea.
[42] Ancora Cass. pen. sez. III, 5.4.2023, n.29821, cit.
[43] Pernicioso, per L. Luparia Donati, L’ascesa della vittima, cit, p.8, il fenomeno di sottrazione al fuoco della cross examination di molte persone offese chiamate a testimoniare, rappresentando, il metodo dell’esame incrociato, forse «tra le perle più preziose della cultura processuale racchiusa nel codice del 1988».
[44] P. Ferrua, Sofisti e avvocati, in https://www.spaziofilosofico.it/wp-content/uploads/2012/01/ferrua.pdf, p. 95.
[45] L’estensione del regime della prova preformata anche alle persone offese di particolare vulnerabilità a prescindere dall’età è stata effettuata ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. e) d.lgs 212 del 2015.
[46] Si pensi a quell’orientamento giurisprudenziale, espresso da Cass. pen. sez. III, 8.4.2010, n. 19729 in Cass. pen. 2011, 11, 3949 che ha richiesto, come requisito indispensabile per la nuova escussione, che venissero allegate evidenze in base alle quali fosse dimostrabile il superamento delle lacune emerse nel corso del primo esame. Ad ogni modo per la giurisprudenza l’espressione «se il giudice o taluna delle parti lo ritiene necessario sulla base di specifiche esigenze» non significa che le parti godano di un potere insindacabile di provocare la riassunzione, essendo questa sempre rimessa alla discrezionalità del giudice (Cass. pen., sez. V, 30.11.2011, n. 11616 anche in Arch. nuova proc. pen., 2012, 402).
[47] Sul tema relativo alla dedotta questione di legittimità costituzionale dell’art. 190 bis, comma 1 bis, c.p.p. Cass. pen., sez. III, 29.11.2019, n.10374, in CED Cass. 2020, afferma: «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 190-bis, c.p.p. in relazione agli 3, 24 e 111 Cost ed all’art. 6 Cedu– nella parte in cui, in presenza di specifiche esigenze, sottrae al contraddittorio dibattimentale la persona offesa maggiorenne dichiarata particolarmente vulnerabile – atteso che tale peculiare regime, di carattere processuale, si giustifica per l’esigenza di prevenire l’usura delle fonti di prova, in tale ipotesi particolarmente stringente, e che si tratta di dichiarazioni provenienti da soggetti già esaminati nel rispetto della oralità e delle regole del contraddittorio, essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di graduare forme e livelli diversi di contraddittorio purché sia garantito il diritto di difesa».
[48] Tra le molte, C.E.D.U, 20.4.2006 Carta c. Italia. Tuttavia, la regola della c.d. sole or decisive rule non assume un valore assoluto: con il consueto approccio casistico la Corte Edu ritiene comunque indispensabile verificare, sulla base di una valutazione globale della singola vicenda processuale, se vi sia stata o meno adeguata compensazione in caso di rinuncia alle garanzie del contraddittorio (si veda C.E.D.U., 15.12.2011, Al-Khawaya e Tahery c. Regno Unito).
[49] G. Frigo, Una parità che consolida disuguaglianze, in Guida dir., n. 8/2007, p. 90.
[50] Cass. pen., sez. III, 16.7.2018, n.45556 anche in Cass. pen., 3, 2019, 1172.
[51] È di recente intervenuta la Corte EDU sul tema dell’ammonimento in caso di stalking e del difetto di garanzie procedimentali, con la sentenza della Sez I, Giuliano Germano c. Italia, n. 10724/12, 22 giugno 2023, pubblicata con nota di D. Albanese, Ammonimento del questore in materia di stalking: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione dell’art. 8 CEDU. “Molti passi indietro nel contrasto alla violenza di genere”?, in Sistema penale 7-8/23, p. 125 ss., riconoscendo una violazione dell’art. 8 CEDU per problematiche procedimentali relativi alla durata degli effetti della misura.
[52] Art. 14 L. 168 del 2023
[53] V. supra, par 2a, nota 38
[54] Si veda ad esempio un noto caso di un condannato per omicidio, il quale, dopo aver rilasciato dichiarazioni alla stampa e con la reazione dei familiari della vittima, ha visto revocati i permessi premio (https://www.ilrestodelcarlino.it/cronaca/parolisi-stop-permessi-premio-moglie-lmg7gz6r).
[55] CGUE, 15 settembre 2011, Cause C-483 e C-1/10, Gueye e Sanchez
[56] Si veda l’analisi articolata di M. Donini, Paradigma vittimario e idea riparativa. criteri di orientamento in una potenziale contraddizione di sistema, cit., che evidenzia come nell’esame delle problematiche relative al sistema della riparazione non possa non tenersi conto della vittima, senza per ciò solo cadere nel vittimocentrismo (“anche chi scrive, secondo una visione ben distante dal vittimocentrismo, ha sottolineato da tempo che il garantismo penale, oggi, non può più essere circoscritto a un tema binario, relativo ai rapporti fra Stato e individuo, o imputato, ma ha una natura tripolare o triadica, dove anche la vittima deve essere tenuta presente nell’obiettivo di una riduzione complessiva del male prodotto dai reati, che tenga presente un’economia di minimizzazione, anziché di aumento, dell’entropia rappresentata dalle azioni-reazioni degli attori della vicenda punitiva. E ancora una volta l’idea centrale del delitto riparato, che può meglio sostenere misure concrete come l’assegnazione dei profitti confiscati per equivalente alle persone offese, e non allo Stato, o una commisurazione della pena incentrata sul danno, prima che sulla colpevolezza, declina una propria e autonoma visione in un quadro assai più composito di orientamenti”).
[57] A questo rischio mette riparo il nuovo art. 15 bis OP, che esclude che l’accesso ai benefici possa essere condizionato dall’esito di un eventuale programma di giustizia riparativa. Sottolinea tuttavia il rischio G. Fiandaca, Considerazioni su rieducazione e riparazione, in Sistema penale 10/23, p. 147, secondo il quale “i magistrati di sorveglianza potrebbero essere progressivamente indotti a considerare gli incontri autori-vittima o il compimento di atti riparativi (in senso sia materiale che simbolico) presupposti indispensabili, o comunque di rilievo prioritario in sede di verifica dei progressi del trattamento rieducativo. È forse superfluo ribadire, in conclusione, che si tratterebbe di una impropria torsione in chiave riparativa del paradigma costituzionale della rieducazione”
[58] Vedi diffusamente S. Corti, Giustizia riparativa e violenza domestica in italia: quali prospettive applicative? in Diritto penale contemporaneo 3/18, p. 19 ss.
[59] G. Fornasari, Right to punishment e principi penalistici: una presentazione, in Diritto di difesa, 20 luglio 2024, che sottolinea come “l’immagine che si vuole far passare, con tutta evidenza, è quella di una vittima assetata di vendetta, alla quale interessa solamente vedere scontare all’imputato la pena, naturalmente detentiva, più dura possibile fino all’ultimo giorno senza nemmeno un minuto di sconto rispetto a quanto stabilito in sentenza, e alla quale, in più, non interessa affatto che il processo sia condotto secondo le regole”.