Enter your keyword

L’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO ALLA LUCE  DELLA NORMA COSTITUZIONALE SUL GIUSTO PROCESSO – DI GAETANO PECORELLA

L’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO ALLA LUCE DELLA NORMA COSTITUZIONALE SUL GIUSTO PROCESSO – DI GAETANO PECORELLA

di Gateano Pecorella*
 
L’ordinamento giudiziario dovrebbe costituire lo specchio del processo accusatorio scelto nella nostra Costituzione. Un breve excursus dal processo inquisitorio al processo accusatorio nel nostro sistema processuale e nella nostra Costituzione, e qualche spunto di riflessione su come concretizzare la terzietà del giudice rendendo effettivo il sistema accusatorio.
 
 
 
Chi si proponga di delineare un modello di ordinamento giudiziario, per la giustizia penale, deve partire da un postulato. Il postulato è questo: il modello deve costituire lo specchio del tipo di processo che la Costituzione ha scelto tra i molti possibili, sempre che una tale scelta sia stata fatta a livello costituzionale. È ciò che è accaduto in Italia con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, e cioè con l’introduzione del giusto processo.
 
Ma, proprio perché è un ramo innestato su un tronco risalente ad un tempo in cui il processo accusatorio era ben lontano dalla cultura del nostro Paese, l’articolo 111 è diventato un intrinseco elemento di contraddizione tra le due anime della Costituzione.
 
Mi spiego. Ci sono, nella Costituzione, due anime, due culture della giustizia penale del tutto diverse. I costituenti dal 1948 avevano come modello di processo penale quello del 1930, e cioè un rito decisamente inquisitorio, con un giudice-accusatore e un accusatore-giudice. Segno di ciò erano le due istruttorie parallele, quella sommaria e quella formale. Del resto, i costituenti non potevano che prendere atto del processo allora vigente, e introdurvi le garanzie di cui era del tutto privo. È nato così l’inquisitorio garantito. Ma, strutturalmente, nulla mutava rispetto alla posizione istituzionale del P.M., alla sua collocazione nell’ordinamento giudiziario, alla sua contiguità con il giudice. Tanto poco era parte che sostanzialmente a lui si riconducevano gli stessi poteri del giudice, tra i quali la formazione della prova.
 
La posizione dell’avvocato, di riflesso, non poteva non restare ai margini, in ombra, stante che la prova era nelle mani del P.M., e che comunque la sua formazione avveniva fuori dal contradditorio delle parti, nel segreto della istruttoria.
 
Con l’art. 111 della Costituzione il quadro è del tutto mutato. È stato introdotto il processo accusatorio, che è processo di parti. Sul fronte della difesa, con la parità delle parti, anche all’avvocato andavano riconosciuti gli stessi diritti e la stessa dignità del P.M.
 
Tutto avrebbe dovuto mutare attraverso delle radicali riforme che posizionassero il P.M. nel suo ruolo di parte, ruolo che è di per sé lontanissimo da quello del giudice. Il giudice è, e deve essere terzo e imparziale. Il P.M., al contrario, è, e deve porsi sullo stesso piano delle altre parti, e cioè del difensore e della parte civile.
 
Il tentativo fu fatto con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 20 luglio 2005, voluta dal ministro Castelli. Ci fu, dopo un tentativo di separare le carriere, censurato dal Presidente Ciampi, una pallida distinzione delle funzioni prevedendo che il passaggio dalla posizione requirente a quella giudicante, e viceversa, potesse aversi una sola volta ed entro i primi cinque anni dall’ingresso in magistratura. Ma il ministro Mastella una sola riforma portò in parlamento, quella del 2007 che prevede nuovamente la facoltà dei magistrati di transitare dall’una all’altra funzione, con il solo limite del mutamento del distretto.
 
C’è stata, all’esame del Parlamento, una proposta per restituire coerenza al sistema, con una radicale riforma di alcune norme della Costituzione, quelle che riguardano il P.M. e il difensore.  Ma anche questa riforma è morta tra audizioni, rinvii, e firme, la inconfessata volontà di non attuarla.
 
Il Parlamento, nel corso del 2011, ha esaminato, in sede di Commissioni congiunte, Affari Costituzionali e Giustizia, una proposta per restituire coerenza al sistema, con una radicale riforma di alcune norme della Costituzione, quelle che riguardano il P.M. e il difensore. Ma tutto si è arenato, silenziosamente, e senza un vero perché. Muoviamo, quindi, dallo schema del giusto processo per individuare il modello di ordinamento giudiziario che del giusto processo sia la proiezione.
 
È onere dell’accusa, nel giusto processo, introdurre le prove e dimostrare la colpevolezza dell’imputato, al di là di ogni ragionevole dubbio. Spetta, o dovrebbe spettare, all’avvocato fornire la prova contraria. Ad ogni mossa del P.M. deve essere riconosciuto al difensore il diritto alla contromossa.
 
La prova nasce, e deve nascere, solo dal e nel contraddittorio, e da un contradditorio che deve svolgersi davanti al giudice che dovrà pronunciare la decisione.
 
In un processo veramente accusatorio, per altro verso, l’avvocato è il vero protagonista, è il soggetto a cui si deve ricondurre ogni attività che abbia rilievo ai fini della decisione sulla libertà della persona, compresa quella sulla custodia cautelare.
 
Così dovrebbe essere. Ma, singolarmente, la posizione dell’avvocato difensore, anziché risultare rafforzata, si è via via indebolita, sino a diventare evanescente. Il processo di oggi, è il processo dei P.M., i cui atti sempre di più tendono a entrare nel fascicolo del dibattimento.
 
Le ragioni sono più d’una.
 
Anzitutto, la intercambiabilità, in termini di carriera, tra il ruolo del giudice e quello del P.M., ha fatto sì che il P.M. sia visto sullo stesso piano del giudice, e perciò, inevitabilmente, a un livello superiore rispetto al difensore.
 
Andrei oltre. Il P.M. è considerato il difensore della società, colui che garantisce la sicurezza. Il giudice, viceversa, è visto, talvolta, come colui che, assolvendo, mette nel nulla l’attività del P.M., magari per motivi puramente formali. Chi interviene immediatamente a tutela della collettività, è il P.M. Il giudice, comunque, sta sullo sfondo nella lotta alla criminalità.
 
L’avvocato, a questo punto, risulta appiattito sulla figura dei suoi assistiti, un professionista al servizio del crimine, per di più per motivi puramente economici.
 
Non si potrà avere il giusto processo, e quindi un giudice terzo, né le parti saranno eguali, egualmente distanti dal giudice, sinché non vi sarà la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente. Né il giudice sarà veramente terzo.
 
Ma forse neanche ciò sarà sufficiente per realizzare la parità delle parti, e quindi il giusto processo. Sinché entrambi, giudice e P.M., faranno parte della magistratura, sia pure con carriere separate, il P.M. come soggetto istituzionale, collega del giudice, indipendente e portatore di un interesse super partes, sarà sempre su un gradino superiore rispetto al difensore dell’imputato.
 
La vera parità passa, necessariamente, attraverso altre strade. O si dà al P.M. la vera natura di parte, e ciò può farsi rendendolo un soggetto della Pubblica Amministrazione, in sostanza una espressione dell’esecutivo, ovvero un organo elettivo, come negli Stati Uniti, o rappresentante della polizia, come in Inghilterra; oppure, in alternativa, è il giudice che deve porsi come un soggetto esterno rispetto agli apparati dello Stato, alla burocrazia, ed allora si dovrà far ricorso all’istituto della giuria. È, naturalmente, materia politicamente delicata, che meriterebbe una riflessione, ed una discussione meno partigiana, e con minori pregiudizi di quanto accada di questi tempi, così ricchi di polemiche e poveri di cultura.
 
Personalmente sono convinto che non può aversi un giusto processo senza un giudice veramente terzo, quale è la giuria che, del resto, è connaturata al processo accusatorio. Dico: veramente terzo, non solo perché è estraneo agli apparati dello Stato, e quindi lontanissimo dalle suggestioni del P.M.; è veramente terzo perché l’ammissione delle prove, richieste dalle parti, è di competenza di un soggetto diverso, e cioè del giudice togato, rispetto a chi dovrà decidere, e cioè la giuria.
 
L’art. 507 c.p.p., ad esempio, è la negazione sia del processo di parti, che della terzietà del giudice. Con l’art. 507 il giudice va alla ricerca della “sua” verità, della decisione verso cui è orientato, consapevolmente o inconsapevolmente. È chiaro che la funzione dell’avvocato viene messa in ombra, la sua attività diventa un frammento del processo: il vero processo, con l’art. 507 c.p.p., comincia quando il Tribunale si riappropria della prova.
 
Ecco allora subito due proposte: una sul piano costituzionale, l’altra sul rito.
 
L’art. 102 della Cost. che oggi suona: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, andrebbe così riscritto: “La legge regola i casi e le forme della diretta amministrazione della giustizia da parte del popolo”. Così verrebbe costituzionalizzata la giuria.
 
L’art. 507 c.p.p. andrebbe abrogato, se si vuole un giudice terzo e un vero processo di parti. O, tutt’al più, sostituito con una norma del seguente tenore: “Prima della discussione P.M e difensore possono indicare nuove prove. Il giudice le ammette se risultano rilevanti ai fini del decidere, sempre che non fossero già note alle parti “.
 
Ma per un altro aspetto c’è una evidente disparità, a livello costituzionale, tra l’organo dell’accusa e l’avvocato della difesa. Certo, la funzione della difesa è prevista, in tutta la sua pienezza, a livello costituzionale, nell’art. 24.
 
L’avvocatura, viceversa, come uno dei tre soggetti della giurisdizione, non è richiamata in alcuna norma costituzionale, né sono definite le sue prerogative. Il che la differenzia, negativamente, rispetto al riconoscimento, in Costituzione, dalle altre figure della giurisdizione, ed in particolare dal Pubblico Ministero. Perciò, da tempo, si chiede dalle associazioni forensi che sia inserito in Costituzione un art. 110-bis che proclami che “l’avvocatura è una attività privata libera e indipendente “.
 
Ancora. Se si guarda alla difesa nel processo penale come attività effettiva, idonea a incidere sulla decisione, si deve prendere atto che, probabilmente, sono più i casi di processi senza difensore, che quelli che rispettano i principi del giusto processo.
 
La formazione delle prove al dibattimento comporta una presenza costante del difensore, una più approfondita conoscenza degli atti, più alte capacità tecniche. Non solo: come processo di parti, spetta al difensore la ricerca della controprova, della prova della innocenza del proprio assistito. Sto parlando delle indagini difensive.
 
È evidente che il processo accusatorio, per queste ragioni, è assai più costoso del processo inquisitorio, che è soprattutto processo scritto. Pochi imputati, quindi, possono permettersi avvocati all’altezza del compito, e ancor meno hanno le disponibilità economiche per finanziare le agenzie investigative alla ricerca delle prove a discarico.
 
Per di più, può essere ammesso al patrocinio gratuito chi è titolare di un reddito imponibile non superiore a euro 11.493,82 (ovvero dell’importo risultante dal numero dei familiari conviventi). Come può permettersi un difensore all’altezza dell’incarico chi abbia un reddito anche di poco superiore a tale somma? E come potrebbe il difensore avvalersi di consulenti, esperti o agenzie investigative?
 
Comunque, rispetto ai costi del processo, vi è una palese ingiustizia che colpisce l’imputato e, indirettamente, il suo difensore: l’imputato che è condannato è soggetto alla regola della soccombenza, deve cioè pagare le spese processuali, oltre alle proprie ed al suo difensore. L’imputato assolto, viceversa, deve accontentarsi, per così dire, della recuperata libertà, e tenersi tutto il peso economico di un’accusa risultata infondata e quindi ingiusta.
 
Ma l’avvocato resta estraneo ad un’altra fondamentale fase del processo, e cioè all’intero procedimento riguardante la libertà personale dell’imputato. Se si pensa che più o meno la metà dei detenuti è in custodia cautelare, ci si rende conto di quale sia il vulnus per l’attività del difensore. Eppure è in gioco la libertà personale alla stessa stregua di quanto accade per la sentenza che definisce il processo: anzi, come scrisse Vassalli, il giorno della condanna è talora quello della scarcerazione, perché l’imputato ha già scontato la pena in custodia cautelare. Né si può seriamente sostenere che la difesa può essere esercitata nel corso del c.d. interrogatorio di garanzia, o davanti al Tribunale del riesame. Il materiale è cartaceo, le prove sono solo quelle raccolte dal P.M., il difensore può soltanto discuterle in chiave critica. Né, salvo casi eccezionali, ha la concreta possibilità, e neanche il tempo, di reperire le prove a discarico.
 
Anche per le decisioni sulla libertà della persona deve trovare attuazione l’art. 111 della Costituzione, e quindi, tra l’altro, la regola aurea secondo cui il difensore ha diritto di interrogare colui che accusa il suo assistito. Il che può farsi solo introducendo anche in Italia l’istituto del contradditorio anticipato, che a quanto sembra, ha già dato buoni frutti in Francia. L’indiziato viene fermato, trattenuto per il tempo necessario a predisporre la difesa, in apposite località, e, quindi, ha luogo una udienza davanti al tribunale in cui le parti portano le proprie prove. Il tutto, ovviamente, è contenuto nei limiti di una decisione provvisoria sui gravi indizi e sulle esigenze cautelari.
 
Per concludere.
 
La separazione delle carriere ha inevitabilmente altri effetti a livello costituzionale. Non è più concepibile un solo Consiglio Superiore della Magistratura, in cui siano commisti giudicanti e requirenti, visto che apparterrebbero a distinti corpi dello Stato. Né è compatibile con la vera natura di parte del P.M. la obbligatorietà dell’azione penale, posto che una parte, per definizione, fa scelte di cui è, per altro verso, istituzionalmente responsabile.
 
Dovrebbe altresì prevedersi un’Alta Corte di giustizia che giudichi, sul piano disciplinare, sia i giudici che i P.M. Si tratterebbe di un organo di altissimo profilo i cui componenti dovrebbero essere eletti per due terzi tra i giudici di Cassazione, da parte di tutti i magistrati, e per un terzo dal parlamento in seduta comune tra coloro che hanno i requisiti per accedere alla Corte Costituzionale.
 
Per quel che riguarda il difensore, l’avvocato nel giusto processo deve avere un ruolo da protagonista, e, perché ciò avvenga, sono necessarie alcune riforme radicali, sia costituzionali che ordinarie. Ma non basta. Bisogna che l’avvocato penalista si attrezzi, a partire da una specifica preparazione tecnica, dagli albi speciali, sino a una diversa mentalità nelle strategie dibattimentali. C’è, in questa direzione, un evidente ritardo che sta alla stessa avvocatura riuscire a colmare. Sta soprattutto ai giovani che, troppo spesso impegnati nel lavoro quotidiano, sono assenti dalle grandi battaglie che l’avvocatura ha davanti a sé per recuperare dignità e peso nel e fuori dal processo.
 
Forse questi pensieri sono pura utopia. Ma solo continuando a credere nelle utopie si ha la forza per cambiare lo stato delle cose.
 
*Professore, Avvocato, Past President dell’Unione Camere Penali Italiane